EXTRA 2 - L'INEVITABILE

«Mi farà diventare matto. Anzi, no... no... quello lo sono già! Mi farà diventare calvo, ecco, sì!» Continuavo a camminare su e giù nell'aula docenti che improvvisamente era diventata troppo piccola per contenere tutta la mia preoccupazione. Il pensiero che a Robin potesse capitare qualcosa aveva riacceso un timore che pensavo non avrei mai più provato. 

Lo avevo promesso a me stesso dopo la morte di Samuel: non mi sarei mai più affezionato a qualcuno, non avrei più permesso a qualcuno di rendermi debole. Mai più.

Per un po' aveva funzionato, sì. Poi era arrivata Robin e tutti i miei buoni propositi erano andati a farsi fottere. E alla fine le avevo servito il mio cuore su un piatto d'argento, contornato da sentimenti fragili e illusioni tipiche di un romantico disilluso.

Ero patetico, oltre che innamorato fino al midollo.

Ma questo lei non lo doveva sapere. Non ancora, per lo meno.

Roteai gli occhi sbuffando. «Non riesco più a ragionare lucidamente quando si tratta di lei. Davvero! Non riesco nemmeno a lavorare bene, dannazione!» Quella era la parte che più odiavo dell'innamoramento. Il cervello si allineava al cuore e fanculo tutto ciò che non riguardava lei. Lo trovavo frustrante e per certi versi anche stupido. «Prima una studentessa mi ha chiesto di spiegarle una cosa. Un concetto semplice per me. E che ho fatto io? Niente. Ti rendi conto? Niente! Sono rimasto a fissare il vuoto come se mi fossi appena sniffato della colla. E tutto per colpa sua!» Sferrai un calcio alla prima sedia a tiro. Mi sembrava di essere tornato ai quindici anni, alle prime cotte, ai primi sbalzi ormonali, alle prime notti insonni a farsi viaggi mentali e seghe. Seghe vere. «Insomma, ma che cazzo di problemi ho?»

Tanti, Thomas... non mettiamoci qui a elencarli tutti, okay?

In realtà non ce l'avevo con lei, sia chiaro. Ero arabbiato con me stesso. Mi ero fatto delle promesse che non stavo mantenendo. Esausto mi massaggiai la base del naso e gli occhi. «Non so che fare.»

Takeru mi guardava in silenzio con la solita faccia giapponese. D'altronde era giapponese, che poteva farci lui? Quella era la sua faccia. «Se le dicessi tutto magari sarebbe meno complicato» disse con una scrollata di spalle.

Mi bloccai nel mezzo di un altro zigzagare frenetico tra le scrivanie vuote dei miei colleghi. «Se le dicessi tutto magari sarebbe meno complicato» lo scimmiottai modificando la voce, togliendo le erre e sostituendole con delle elle. «Tu devi essere quello intelligente della famiglia, vero?»

In tutta risposta lui mi lanciò un libro, che schivai. «E allora tieniti i tuoi segreti e crepa!» Comprensivo come sempre.

«Guarda che non mi diverte tenerle dei segreti, eh.»

«Sinceramente non capisco ancora perché lo fai. A me lo hai detto... cosa cambia?»

Tutto. Cambiava tutto.

Per quanto Takeru mi stesse simpatico, la sua presenza nella mia vita non era paragonabile a quella di Robin; né al peso che gli attribuivo. 

Tener separato me e il Re dei Teschi era necessario sotto molti aspetti. Sia emotivi che pratici.

Se da una parte volevo proteggerla da me, le mie colpe e i miei nemici del passato, dall'altra volevo darle il tempo di finire gli studi e scegliere con maturità e lucidità la propria strada. Insieme a me o senza.

E sarebbe stato tutto molto lodevole e ammirevole se non fossi già caduto in errore due volte. Due lunghe, sudate, eccitanti e appaganti volte.

I più bei errori di tutta la mia vita.

Scrollai il capo e arrossii. Ricordare le mie notti con lei era vietato. Un divieto che mi ero imposto per non rovinare ogni cosa prima della confessione. Avrei avuto tutto il tempo che volevo per mandare tutto all'aria, una volta detta la verità. «Ho le mie buone ragioni» borbottai, voltandomi verso la finestra per mascherare l'imbarazzo. Odiavo mostrarmi così coinvolto. Ci rendeva prede facili, sia io che lei, con tanto di un bersaglio ben visibile sulla fronte.

«Una di queste tue buone ragioni sembra averla presa di mira ugualmente» rimbeccò Takeru, tagliente come una katana. Sapeva come farmi sentire una merda senza nemmeno doverlo dire direttamente. Lodevole.

«Non è ancora detto che sia lui.» Una debole speranza a cui mi aggrappavo con ogni forza.

«Lo credi davvero?»

Strinsi i pugni in automatico. Li serrai così forte che le unghie mi affondarono nei palmi. Sentivo il peso della colpa penzolarmi sulla testa come la spada di Damocle. Il fatto di aver coinvolto Robin nei miei problemi pericolosi era una nota dolente che continuava a tormentarmi e togliermi il sonno.

Se le dovesse succedere qualcosa a causa mia, io...

«Non lo so... posso... posso sperarlo.» Deglutii e scacciai la nefasta ipotesi che gli avvenimenti recenti fossero in qualche modo collegati a una figura del mio passato, l'unica che se avessi avuto possibilità avrei ammazzato senza pensarci due volte: George Wyer. Il bastardo che aveva rovinato la mia vita, quella della mia famiglia e strappato quella di mio fratello.

L'aria mi uscì dalle narici con uno sbuffo. Serrai i denti sentendoli stridere e fissai fuori, nel giardino.

Queste cose successe... questi casini... sono solo coincidenze. Coincidenze, no?

Non si tratta di lui. Non può trattarsi di lui.

La porta dell'aula docenti si aprì con uno schianto e feci in tempo a girarmi per veder Vega crollare dentro, lungo il pavimento.

Era sporco di terra, fango e sangue. E bastò la sua vista a farmi sprofondare in un abisso di terrore.

«Ramones» gridò Takeru, correndo ad assisterlo.

Io invece rimasi immobile, con il fiato corto, pietrificato. La sua presenza lì, poteva voler dire solo una cosa. E anche se il mio cervello sembrava non volerlo accettare, una parte di me lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.

Quel lento tormentare era parte del modus operandi di George Wyer. Faceva così per divertimento. E per farmi andare fuori di testa.

E ci stava riuscendo.

Scavalcai la scrivania con un unico movimento fluido e scostando Takeru afferrai Ramones per la maglia. «Lei dov'è?» la voce mi uscì brutale, indifferente ai suoi malesseri e focalizzata solo su una cosa: l'assenza di Robin. «Vega! Ti ho chiesto: lei dov'è?» lo scossi senza alcuna delicatezza.

Dovevamo fare in fretta. Muoverci.

Dovevamo correre.

«Robin è... loro l'hanno...» tossì.

«Loro? Loro chi? L'hanno, cosa?» la voce mi uscì in un ringhio. Sapevo di dover mantenere la calma ma al contempo non riuscivo a pensare a nient'altro che lei, in mano di Wyer. «Che fine ha fatto?» lo scuotevo così forte che non mi accorsi delle sue espressioni cariche di dolore fin quando Takeru mi toccò una spalla.

«Thomas» mi riprese, gentilmente.

Ma non c'era tempo. Le potevano aver già fatto di tutto. E la colpa era tutta mia.

«Chi l'ha presa? Chi?» stavo gridando, me ne accorsi dopo. Un grido disperato e pieno di paure appena risvegliate. L'idea che le potessero torcer anche solo un capello mi fece rigirare lo stomaco e per un momento pensai che avrei vomitato tutto. «Vega!»

Ramones era in evidente difficoltà. Respirava male e aveva tagli e contusioni ovunque. Dovevano averlo pestato per bene ma quello era l'ultimo dei miei problemi. Anche lui forse la pensava allo stesso modo se si era trascinato fin qui. «Geo...» respirò male, gemendo. «George Wyer» riuscì a dire, infine. E il mondo sembrò farsi improvvisamente scuro e privo di ossigeno, tanto che barcollai indietro, lasciandogli la maglia che fino a un attimo prima avevo strattonato.

Lo sapevo già, eppure, sentirlo dalla bocca di un altro fu uno squarcio nel cuore.

Dovetti aggrapparmi alla scrivania per non collassare. «Come hai potuto lasciare che la prendessero?» riuscii a dire, buttando fuori le parole a fatica.

«Erano armati.»

Quella affermazione mi fece rabbrividire.

Armi, violenza... George Wyer non era uno che si faceva scrupoli.

Strinsi il bordo della scrivania fino a sentirlo scricchiolare. Avrei voluto distruggere tutto. E forse lo avrei fatto. Forse avrei messo a ferro e fuoco l'intera Detroit per Robin.

«Tho - Thom... capo, che si fa?» farfugliò Takeru, colto dal mio stesso panico. Solo che a differenza sua in qualche modo il mio riuscivo a domarlo.

Non c'era tempo. Non sapevo dove si trovava il covo di Wyer e non potevo lasciarla in sua balia per troppo a lungo.

Dovevo cercarla. Dovevo smuovere tutte le mie conoscenze e impiegare ogni singolo skulls.

Lui voleva me? Be', mi avrebbe avuto.

Afferrai la giacca del completo dalla mia scrivania, intercettai lo sguardo di Takeru che subito annuì e compose il numero di Märten. Serviva la cavalleria. Tutta.

«C'è un tizio,» rantolò Vega, sorreggendosi a una sedia e sollevandosi. Cercai di non guardarlo mentre afferravo le chiavi dell'auto. Più lo guardavo, più volevo picchiarlo. Sentivo il bisogno di riversare in lui la mia furia e l'impotenza di quel momento. «un amico di Robin...»

«Chi?» Se stava parlando di Nate avrei finito ciò che non avevano finito gli scagnozzi di Wyer.

«È un tizio forte. Penso faccia parte di una banda.» Prese fiato e fece una smorfia. Marshall si sarebbe occupato di lui. «Penso dovremmo chiedergli aiuto.»

«Parli di quello che ti ha quasi spaccato il naso davanti al Joily?»

«Sì, esatto. Ma come fai a sap-» Quando sollevai lo sguardo dal tavolo lo vidi trasalire e non ci fu bisogno che gli spiegassi nulla. Non riuscì nemmeno a finire la frase da quant'era sorpreso e turbato. I miei occhi, la mia rabbia e l'improvviso emergere del Re dei Teschi parlavano già da sé. In quel momento non c'era più un solo brandello del bravo e buono professor Lattner. «Sei tu. Sei sempre stato tu» farfugliò, seguendomi con lo sguardo mentre uscivo dalla stanza come un proiettile.

Non c'era tempo di spiegazioni. La mia priorità al momento era ben altra.

«Sempre.»

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