6 - IL RISVEGLIO

«Acqua.» Avevo così sete che parlare mi graffiava la gola. Il dolore era un costante pulsare in tutto il corpo, fitte regolari che ogni tanto mi strappavano il respiro.

Schiusi gli occhi solo dopo vari tentativi e mi guardai attorno. Ero in camera mia. Assurdo.

Dopo tutto quello che era successo, svegliarmi nella mia camera mi sembrava talmente surreale che faticavo a crederci. E invece, ero nel mio letto. Rimasi a fissare il soffitto e per poco non mi venne un colpo quando qualcuno vicino a me mugolò nel sonno. Girai la testa di scatto e rimasi a guardare Lattner sorpresa.

Aveva posizionato una sedia accanto al letto e si era addormentato con il viso affondato nelle braccia, a metà tra la sedia stessa e il materasso. Doveva essere una posizione davvero scomoda. L'accenno di barba mi lasciava pensare che fosse passato del tempo... ma quanto? Da quanto dormivo?

Allungai la mano per sfiorarlo ma i suoi occhi si aprirono prima che le mie dita lo raggiungessero. Rimanemmo qualche istante a guardarci poi lui balzò a sedere sul posto. «Robin! Sei sveglia!» La voce era sorpresa e sollevata al tempo stesso. L'espressione preoccupata che aveva in sonno svanì sostituita da un sorriso.

«Acqua» rantolai di nuovo. Parlare faceva male. Avevo la gola secca e il labbro mi pulsava ferocemente. Dovevano essere i punti, se non ricordavo male.

«Oh, sì! Ma certo! Acqua! Certo! Come ho fatto a non pensarci.» Si alzò dalla sedia uscendo dalla stanza in un baleno. Il mio risveglio lo aveva reso frenetico e non vi nego che ero contenta di vederlo tanto entusiasta.

Tornò un attimo dopo con un bicchiere e una bottiglia di acqua fresca. Me ne versò un po' e mi avvicinò il bicchiere alle labbra. Con un gemito sofferente sollevai la testa per agevolare l'operazione.

Bere non fu mai così piacevole, fresco e rinvigorente. Gustai ogni sorso e me ne feci versare ancora. Subito mi sentii meglio.

«Va meglio?»

Annuii. Poi un con sospiro mi abbandonai contro il cuscino. Mi ero appena svegliata, eppure mi sentivo ancora stanchissima. «Da quanto sono qui?»

Lattner giocò con un lembo del lenzuolo. «Cinque giorni.»

Sgranai gli occhi. «Cosa? Cinque giorni?» Ero incredula.

«Già. Cinque giorni che dormi. Pensavo che...» Distolse lo sguardo e si passò una mano nei capelli. «Bé, non importa...»

Gli sfiorai la mano con la punta delle dita e lui subito intrecciò le sue alle mie. Mi passò il pollice sul dorso e sorrise. Aveva le occhiaie, barba incolta, sembrava stanco da morire, forse più di me. Questi cinque giorni dovevano essere stati infernali. Non escludevo fosse rimasto al mio capezzale ventiquattro ore su ventiquattro. Mi sentivo un po' in colpa ad averlo fatto preoccupare tanto.

«Takeru sta... bene?» domandai, con esitazione. Era stata la mia preoccupazione principale. Molto più importante della mia stessa salute.

Lui annuì. «Certo. Chiama ogni giorno. È stato in ospedale e da quello che mi ha detto... se l'è cavata meglio di te.» Serrò un po' la stretta sulla mia mano. «Sarà felicissimo di sapere che ti sei finalmente svegliata.»

Già. Ed ero certa che mi sarebbe aspettata una lunga, infinita, odiosa e pedante ramanzina. Takeru si sarebbe sprecato in insulti e forse si sarebbe anche messo a piangere. Non vedevo l'ora che mi sgridasse. Sorrisi. In fondo, era anche questo il bello delle persone capaci di amarci, no? Il semplice fatto che si arrabbiassero quando erano preoccupate per noi. Nessuno si arrabbia per qualcuno a cui non tiene.

Sospirai, rilassando i muscoli e godendo la morbidezza del materasso. Sembrava assurdo, ma me ne accorgevo solo ora di quanto fosse comodo il mio letto. Un po' come quando ci si accorge solo una volta perso qualcosa di quanto sia prezioso per noi.

Stavo per chiudere gli occhi, per appisolarmi di nuovo, quando un interrogativo mi lampeggiò in testa. «Chi mi ha portato qui?» domandai curiosa. L'ultima cosa che ricordavo era quel Marshall che lo mandava fuori dalla stanza per visitarmi. E non ero certo in camera mia.

Lattner a quella domanda si agitò sulla sedia. «Un... tizio» rispose, evasivo.

«Un tizio?»

Si grattò la nuca e vagò con lo sguardo. «Sì, bé... un tizio dall'aria poco raccomandabile.»

Quindi lui...

Mi venne da ridere. Sghignazzai. «Tranquillo. È un tipo a posto.»

Lattner si girò e mi rivolse un'occhiataccia. «Non credo proprio, Rob. Quel genere di gente non è mai "a posto". Magari tu lo vedi così, ti sembra un tipo okay... e invece... è più incasinato di un'equazione algebrica.»

Ah, Mr.Lattner... lo so che sei un casino. E in matematica non son nemmeno brava.

Chiusi gli occhi. «È venuto in mio aiuto. Ha rischiato grosso. Non lo giudicare se non lo conosci.» Era divertente parlare di lui come se non fosse lui. Sbirciando di sottecchi lo vidi mentre si stropicciava il viso in preda a un tormento che trovai spassoso.

«Robin...» iniziò, con un tono di voce che preannunciava una paternale. «Questo genere di gente ha molti problemi a pesargli sulle spalle come macigni, magari un passato doloroso, magari ferite sul cuore che non passano mai... non so. Ecco...» Si stropicciò gli occhi con le dita. «Credo siano persone che forse non potranno mai essere salvate. Capaci solo di portare guai.»

«Lo so.» Non mi diceva nulla di nuovo. Io portavo guai. Lui li portava. Eravamo un perfetto casino insieme. Potevamo funzionare, come potevamo esplodere da un momento all'altro. «Ma anche io li porto. Insomma... con il mio passato, lo sai... lo sento vicino. Sento che mi capisce più di tanti altri.»

Lattner mi lanciò un'occhiata veloce, si morse il labbro sul punto di dire qualcosa e roteò gli occhi verso il soffitto. Sembrava ancora più stanco. Combattuto. «Dovrebbe lasciarti in pace. Smettere di cercarti. Smettere di venire da te. Dovrebbe... cazzo! Dovrebbe azionare il cervello.»

Che diavolo sta dicendo?

Fui travolta da un'ondata di panico. «No! Cazzo, no!» Smaniai per tirarmi un po' su a sedere. Una fitta mi fece espirare bruscamente. «Non lo dire nemmeno per scherzo.»

Non poteva sparire. Non ora. Non dopo che lo avevo scoperto.

Avevo bisogno di lui. Sia nella sua forma quotidiana, sia come motociclista. Erano due facce della stessa medaglia, sì; eppure completavano le due Robin spaccate che avevo in me.

«Lo so che credi che lui possa capirti... e forse è così... ma è tutto sbagliato. Diavolo, se lo è!» Si passò più volte le mani nei capelli e sul viso. Che stesse cercando di auto convincersi che dovevamo smettere di vederci? Mi sentivo battere il cuore nelle orecchie da tanto che pompava con forza. «Lui dovrebbe... anzi, tu! Sì, tu... tu dovresti allontanarlo.»

«In... in che senso?» borbottai.

Quando sollevò lo sguardo, incontrando il mio, capii era davvero combattuto. «Dovresti allontarlo, Rob.» Cercò di dirlo con tutta la calma possibile, eppure la voce gli si incrinò nel pronunciare il mio nome. Stava cercando di convincermi ad allontanarlo. Ad allontanare il motociclista, la sua parte oscura, quella peccatrice. «Lui lo capirà. Magari lì per lì sembrerà non volersene fare una ragione ma... dannazione!» Afferrò la bottiglietta d'acqua e svitando il tappo la sollevò inclinando indietro la testa. L'acqua gli scese a cascata in bocca, senza che toccasse con le labbra il collo della bottiglia. Era una cosa che facevo anche io quando non avevo bicchieri a portata di mano o non avevo voglia di sporcarne uno.

«Credo che sia troppo tardi.» Era imbarazzante ora che sapevo che i miei interessi verso due uomini differenti, in realtà convogliassero in uno solo. Lui era il professore Mr.Lattner, il coinquilino Thomas, il temerario teppista mascherato chiamato Re dei Teschi. Tutto questo. Tutto insieme. Tutto racchiuso in lui. Luce e ombra insieme. Come un panorama bellissimo in grado di celare angoli bui. «Credo che... sì, ecco... credo mi piaccia. Forse mi piace, sì... bé, molto. Già. Molto.»

«Cos...» Strizzò la bottiglia che gli schizzò in faccia un getto d'acqua, inzuppandogli viso, capelli e maglietta. Tossì. «Ti piace come... come può piacere una pizza? O un gatto? O un cucciolo di panda? O un-»

«No, Thomas... Cristo! Ti pare?» lo stoppai, berciando completamente rossa in viso. «Mi piace come un dannatissimo uomo può piacere a una dannatissima donna. Che diavolo di problemi hai, eh?»

Ci fissammo e lui avvampò di colpo.

Cazzo! È imbarazzato. E lo sono anche io, cazzo... cazzo!

Diamine, Mr.Lattner... se continui così mi ucciderai.

Distolse lo sguardo. Si strizzò la maglietta, schiarendosi la voce. «Bé, sì... ha quel fascino del proibito, è misterioso... sembra abbastanza pericoloso... immagino... immagino sia per questo, no?» Era a disagio? Eppure sembrava curioso. Sembrava interessato a scoprire cosa mi piacesse della sua parte oscura.

Era divertente.

Mi uscì una risata secca. Così forte che i punti al labbro mi fecero gemere dal dolore. «Sì, bé... anche per il suo pene, ovviamente.»

Lo vidi sgranare gli occhi. «Co - cosa?» balbettò, la voce stridula e la faccia sconvolta, di un rosso così acceso che sembrava tinta con della vernice.

Dovetti stringermi la pancia per non spanciarmi sul letto a forza di ridere. Ogni volta che ridevo il corpo sembrava andarmi in pezzi. «Sto scherzando, Thomas... tranquillo. Non gli ho mai visto il pene.»

«Sì, bé... certo, lo so... lo so... no. Cioè... lo immagino. È che non pensavo tu immaginassi... lo immaginassi...» Si alzò di scatto dalla sedia. «Hai fame?» rantolò, fiondandosi verso la porta della camera. «Sì, vero? Cinque giorni a digiuno... per una ragazzina come te... ti - ti preparo qualcosa.» Fuggì dalla stanza come una sposina vergine alla sua prima notte di nozze.

Arricciai il naso in una smorfia, trattenendo una risata. Mi tappai la bocca e sorrisi. Ci sarebbe stato da divertirsi, oh sì.

Oh, Lattner... sarà molto, molto divertente giocare con te... con tutte queste nuove informazioni...

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