49 - FERMATI! BASTA!

C'è un confine sottile tra uomo e bestia, tra pazzia e lucidità, tra accidentalità e premeditazione.

Credevo fosse facile distinguerlo ma mentre guardavo Lattner colpire Wyer con il casco mi chiedevo in quale angolo di questo confine fosse finito.

Era privo di controllo o stava attuando una vendetta in piena razionalità? Non lo sapevo. Forse non lo sapeva nemmeno lui. Stava soltanto seguendo i suoi istinti, la sua rabbia e il suo dolore.

Il casco si abbassava come un martello che mira un chiodo. Il colpo schioccava  nell'aria seguito da schizzi di sangue.

Wyer si divincolava sotto di lui, muoveva il corpo come una serpe, si copriva il volto con le braccia. I colpi a volte andavano a segno, a volte no. Quando lo prendevano al viso, strillava; e il sangue esplodeva in aria come un geyser.

Il rumore era agghiacciante. Anzi, tutta la scena in sé per sé lo era. Tuttavia nessuno sembrava trovar abbastanza coraggio da porvi fine.

Era una visione che andava oltre il limite in cui ci si dovrebbe spingere. Quel confine, quello che divide il giusto dal sbagliato, su cui tutti ci affacciamo almeno una volta in tutta la vita e in cui prendiamo grosse decisioni. In questo caso, le domande avevano un peso decisivo: Lo ammazzo? Lo merita?

Non avevano lo stesso spessore di un sì detto alla persona sbagliata, né la stessa intensità di un passo avanti sul come diventare genitori. Anzi, c'era una certa miscredenza in domande del genere; eppure, non riuscivo a giudicare Lattner, né il suo odio, né la sua violenza, né il suo accecato istinto omicida.

Ha ucciso Samu. Merita tutto ciò che sta ricevendo.

E lo pensavo fermamente. Sebbene ciò mi rendesse una persona dai principi discutibili.

«Brutto. Figlio. Di. Puttana. Hai. Ammazzato. Mio. Fratello.» Lo continuava a sibilare a denti stretti, buttando fuori l'aria in sbuffi che assomigliavano a tanti treni in corsa. Riuscivo a sentirlo solo perché nella foga, mi erano slittati sempre più vicino e ormai, gli schizzi di sangue, mi piovevano addosso come gocce di rugiada. «Hai. Ammazzato. Mio. Fratello.» Era una cantilena che continuava a rotolargli fuori dalla bocca a ogni colpo. I suoi occhi, oscurati dalle lenti, non erano stati mai così lontani da tutti noi, dal mondo intero. Avrei voluto strappargli quegli occhiali dal viso, insieme alla bandana, e vedere ogni sua espressione. Vederlo ed essere vista.

Avevo bisogno di ritrovare il vero Lattner sotto tutti quegli strati di rabbia e follia. C'era ancora? Cos'era rimasto di lui?

Si stava perdendo. E questo non potevo permetterlo.

Che resterà di lui una volta finito tutto questo?

«Cristo! Lo dobbiamo fermare! Lo sta ammazzando.» La voce allarmata di Märten mi raggiunse da lontano. Girai la testa per intercettarlo ma i miei occhi incontrarono solo Takeru; era appoggiato a una colonna e dal colorito sembrava sul punto di vomitare. Probabilmente se si fosse allontanato da quel pilatro le gambe non gli avrebbero retto. In fondo restava sempre il solito Takeru, anche se vestiva più figo e si fingeva un duro.

Dall'espressione che assunse compresi che non aveva molto da dire all'amico. E infatti, di bocca gli uscirono solo un insieme di parole sconnesse. «Lui deve... cioè, noi non... non...» intercettò il mio sguardo in una tacita richiesta di aiuto. Nei suoi occhi lessi qualcosa che io stessa pensavo: nessuno sarebbe riuscito a fermare Lattner a parte me.

Sì, ma come?

Non ne avevo idea. E più passava il tempo, più sembrava un'impresa impossibile.

«Non possiamo lasciare che si sporchi le mani a questo modo, cazzo! Non ne vale la pena. Non dopo tutti i sacrifici che ha fatto!» Finalmente vidi Märten. Si stava passando le mani nei capelli, muovendosi furiosamente avanti e indietro e percorrendo il tratto breve che lo divideva da Takeru. Erano scatti nervosi e impazienti. Capivo la sua apprensione. La condividevo. «Resta qui. Ho bisogno di parlare con Lexie.» E scivolò fuori dalla mia visuale in un istante.

Parlare con Lexie...

Quindi, quella piccola cinese bastarda che mi aveva trattato a pesci in faccia ancor prima di presentarsi, era una Skulls. Bé, non ero sorpresa. Lo avevo intuito già al nostro primo incontro. Anzi, mi chiedevo quanti altri Skulls mi aveva fatto conoscere Lattner senza dirmelo. E sopratutto quali ruoli ricoprissero nella società.

Sembrava esserci uno Skulls per ogni occasione. Un po' come un armadio pieno di vestiti.

«Ti prego, basta! Basta!» piagnucolò Wyer. Le sue grida mi entrarono come aghi nel cervello. Voltai la testa di scatto, a guardare. Improvvisamente si era trasformato in animaletto ammansito e le sue suppliche erano patetiche, prive di dignità. Tutte quelle botte gli avevano anche fatto perdere l'autorevolezza e la presunzione che fino a pochi istanti prima aveva ostentato crudelmente. Il genio folle, che lo aveva dominato finché impugnava la pistola, si era sgonfiato; un po' come tutto il resto. Tuttavia, questa sua nuova condizione non mi riusciva a impietosire. Se Lattner non avesse ottenuto una posizione di vantaggio, sarebbe stato altrettanto magnanimo? Dubito. Fare la vittima, ora, non cambiava nulla. «Ti prego! Aiutami! Ti prego!» gridò, allungando una mano in mia direzione.

Distolsi lo sguardo.

Un brivido mi colò a picco lungo la schiena.

Devo fermare Lattner.

Devo salvarlo da se stesso.

Wyer meritava tutto e di più, sì; ma non era Lattner a doversi far carico di questa incombenza. Ci avrebbero pensato le autorità a dargli il ben servito: una puntura e dritto al Creatore. Anzi, giù, all'Inferno, il bastardo!

Non avrei certo perso il mio sonno a saper che un tipo come lui si era preso la pena di morte.

L'ennesimo grido mi fece accapponare la pelle. E proprio mentre stavo per dire qualsiasi cosa pur di stoppare quel supplizio, due mani afferrarono Lattner per le spalle, cercando di strapparlo lontano dal corpo di Wyer. «Capo! Ehi, Capo. Ora basta!» Non lo conoscevo. Era un ragazzetto dall'aria spaurita e con vestiti che sembravano troppo grandi per lui. Sicuramente era entrato nella banda da poco perché non aveva ancora la faccia di uno che ne ha viste tante. «Capo! Capo, basta!» la voce tremava. Era terrorizzato.

Lattner si liberò dalla sua presa con uno scossone e il casco gli cadde, rotolando lontano. Non se ne preoccupò. Riprese a colpire Wyer a pugni, sfilandosi i guanti come se volesse assaporare meglio il suo sangue sulle nocche. Stava degenerando. Ricordava me, anni prima con Joker... o più recentemente con Sullivan. E sapevo cosa si provava in momenti simili: niente. Solo una rabbia cieca. Una rabbia in grado di distruggerti dall'interno e mangiare tutto, perfino i tuoi lati buoni.

«Capo! Capo! Fermati!» Il ragazzo tornò a farsi sotto, sperando di farlo tornare in sé e destare un pizzico di quella razionalità perduta. Sembrava l'unico in quel posto a voler mettere fine a quel siparietto raccapricciante. Lo afferrò per un braccio cercando di staccarlo da Wyer ma Lattner questa volta non si fece cogliere impreparato: lo agguantò per il bordo del giacchetto e trascinandolo in avanti lo scaraventò oltre loro, mandandolo a cozzare contro un pilastro non tanto distante da Takeru.

Nessuno lo aiutò ad alzarsi.

Lo stabile sembrava vuoto da tanto silenzio che c'era, eppure era gremito di persone. Silenziose. In un angolo. Che fissavano la scena in trepidante attesa di festeggiare il vincitore.

Del perdente non interessava a nessuno, vivo o morto che ne uscisse.

Era così che ci si guadagnava il rispetto tra i teppisti, nella vita di strada. Era così che la gente come noi risolveva le situazioni.

Sangue. Violenza. Botte.

E dopo? Dopo cosa restava?

«Basta» biascicai, piano. La mia voce si perse tra le grida di Wyer e tra i colpi volanti di Lattner. Cercai di deglutire ma fu come ingoiare una manciata di sabbia. La gola mi bruciò.

Basta. Davvero.

Non volevo che scavalcasse il limite. Tra una rissa violenta e un omicidio c'è un abisso e non volevo che si macchiasse di una colpa così grossa.
Ma, soprattutto, non volevo perderlo.

Perché se Wyer fosse morto per mano sua, nessuno lo avrebbe sottratto dalla prigione.

Una vita rovinata. Macchiata. Finita.

Non potevo permetterlo. Non ora che ci eravamo finalmente trovati. Non ora che avevamo la possibilità di vivere una vita normale.

Fui travolta da un'ondata di panico all'idea che tutto questo andasse in frantumi e che le piccole battaglie di tutti i giorni perdessero la loro importanza. Avevamo combattuto tanto. Ci eravamo impegnati tanto. Non si poteva buttare via tutto proprio ora, no?

Le lacrime presero a pizzicare furiosamente l'orlo degli occhi, pronte a traboccare. Paura. Viva, intensa, sorda. «Basta! Ti prego! Fermati!» gridai, più forte, sperando che la mia sola voce bastasse. «Non fare qualcosa di cui potresti pentirti.» Tanto, cosa sarebbe cambiato? Anche se lo avesse ucciso, nessuno gli avrebbe ridato Samuel. Era questa la dura verità. Doveva accettarlo.

Sapevo che quel sentimento di vendetta annidato nel cuore, che aveva covato per tutto questo tempo, lo rendeva cieco di fronte a tutta questa situazione; ma non volevo pensare che fosse un uomo capace di togliere la vita con così tanta leggerezza. Non il mio Lattner.

Non posso perderlo.

Non posso pensare a una vita senza di lui.

Cielo, Samuel... Aiutaci tu!

«Smetti! Basta! Può bastare così!» strinsi i pugni, sentendo le gote bagnarsi di lacrime. Non volevo sembrare patetica, né volevo dirgli che doveva fermarsi perché lo amavo e l'idea che lo rinchiudessero a vita per me era insostenibile. Non volevo nemmeno ammettere che forse, senza di lui, non sarei mai stata una persona migliore. «Devi smettere! Devi... devi...» singhiozzai. La voce si incrinò. Lattner sembrava ormai assorbito totalmente dallo scontro. Annegato nel dolore e nella rabbia. Sordo di fronte alla mia disperazione.

Ci sei ancora lì dietro quella maschera, vero? Sei ancora tu, vero?

Dimmi che non ti ho perso...

Cercai di spostarmi. Di raggiungerli. Le gambe si mossero appena, dandomi una scossa lungo tutto il corpo; ancora non rispondevano del tutto ai miei comandi. Ero troppo debole per potermi muovere a dovere.

Troppo debole. Come sempre.

La gente salva sempre te ma tu non riesci mai a salvare loro.

Ricacciai indietro tutti quei pensieri spaventosi che in un attimo si erano impossessati della mia mente, annidandosi nelle mie paure e lasciando che venissi travolta dal panico. Dovevo mantenere la calma. Se mi fossi lasciata prendere dall'agitazione avrei solo peggiorato la situazione. «Basta! Ora basta!» tornai a gridare con rinnovata speranza. Dovevo fermarlo. Dovevo riuscirci. Dovevo!

Stavo per gridare ancora quando mi venne una illuminazione e feci un ultimo e disperato tentativo prima di provare a muovermi: «Thomas! Basta! Ora basta, Thomas.»

Il suo nome.

Ho gridato il suo nome.

Ora sa.

Ora sa che io so.

Se non avesse funzionato così, Dio!, allora non avrebbe funzionato in nessun altro modo.

«Thomas, ti prego... mi - mi fai paura.»

Ci vollero alcuni istanti prima che registrasse che lo avevo chiamato per nome. Si bloccò di colpo, con il braccio alzato e il pugno grondante di sangue. Il corpo era scosso da fremiti e il petto si muoveva veloce.

Non si voltò subito.

Rimase immobile ancora alcuni istanti, a cavalcioni di Wyer, con il respiro affannato e tremori continui. Abbassò il braccio solo dopo una lunga esitazione che mi fece temer il peggio. Per un attimo, pensai che nemmeno la mia voce spaventata era stata abbastanza per farlo tornare da noi. Da me.

Si sfilò gli occhialoni vintage, gettandoli lontano e abbassò la bandana.«Lo sai.» Non era una domanda. Non si voltò nemmeno a guardarmi.

«Sì.»

«Capisco.» Si alzò in piedi, dandomi ancora le spalle. Cosa pensava? Quali pensieri gli stavano frullando in mente? Compiere certe azioni sotto il nome del Re dei Teschi gli era sicuramente sembrato ragionevole, in fondo era un teppista, no? Ma ora, ora che tutte le carte erano state scoperte, come poteva giustificare i suoi gesti? Far combaciare quelle due metà di sé non era così facile. «Te lo ha detto lui, eh?» gli assestò un calcio così potente che Wyer rotolò di alcuni metri più avanti, mugolando e tossendo sangue.

«No. In realtà no.»

Si voltò di scatto, accigliato. Non si aspettava questa mia risposta. «Non... non capisco, tu...» era confuso.

Confuso ma presente.

Finalmente la bestia aveva lasciato spazio all'uomo. E da quel groviglio di rabbia era riemerso il Lattner che conoscevo.

«Già.» Abbozzai un sorriso. Ero tesa come una corda di violino. Sentivo il cuore pesante come un'ancora gettata a mare, che cala a fondo fin sul fondale. «Diciamo che quando me lo ha detto, be'... per me non era una novità.»

Le sopracciglia gli schizzarono in alto. Sorpreso. «Da quanto?» domandò. Nello sguardo si accese una scintilla e capii immediatamente che quella domanda era solo il preludio di un'altra. Più intima. Più difficile da rispondere.

Da quanto sapevo di lui?

Ci avevo fatto l'amore consapevole che fosse lui?

Tacqui.

Il viso si accese di un rossore che mi scaldò dal freddo che fino a quel momento avevo provato.

«Robin» mi incalzò lui, piano, con urgenza. Il mio nome gli uscì dalle labbra come una supplica, basso ma carico di attesa. Aveva bisogno di risposte. Ora. Subito.

Sollevai lo sguardo e cercai i suoi occhi. In quell'azzurro che conoscevo bene si mescolavano un'infinità di emozioni tormentate che non riuscivano a trovare pace: paura, dolore, perplessità, speranza e tante altre; tutte strette in quell'occhiata che nessuno dei due riusciva a spezzare.

«Da quanto lo sai?» domandò, di nuovo. La voce ridotta un bisbiglio. «Da prima di...» lasciò la domanda in sospeso e mi guardò.

Dovetti buttar giù un macigno di insicurezze e timori prima di rispondere: «Sì, da prima.»

Sostenemmo lo sguardo l'uno dell'altra per un tempo che mi parve infinito. Uno scambio silenzioso di parole e sentimenti.

Lo vidi umettarsi le labbra mentre stringeva i pugni sporchi di sangue e dalle nocche rovinate. Tediò un attimo il labbro coi denti e quando schiuse le labbra trattenni il respiro.

Mi vorrà ancora?

Sarà arrabbiato con me? Riuscirà a perdonarmi?

Il boato di un colpo di pistola esplose nel vuoto dello stabile facendo sussultare tutti, divorando il silenzio e accendendo il panico nello sguardo di molti.

Lattner restò un attimo immobile, di fronte a me, composto. I suoi occhi fissi nei miei, l'espressione ancora scossa per la mia risposta.

Mosse un passo avanti ma sembrò accusare una fitta, così abbassò lo sguardo sullo stomaco: non al centro, ma leggermente di lato, c'era un minuscolo forellino sulla maglia bianca. Sembrò sorpreso quanto me mentre il tessuto cambiava rapidamente colore tingendosi di rosso.

Tossì una volta, due.

Dalla bocca gli colò del sangue sul mento.

Trovò un attimo per guardarmi di nuovo. Nei suoi occhi ora c'era paura, consapevolezza ma anche una rassegnazione che non volevo accettare.

Poi successe. Quello che più temevo successe per davvero: Lattner barcollò brevemente e infine crollò in ginocchio in una pozza di sangue.

E le mie grida riempirono lo stabile.

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