42 - GEORGE WYER
L'odore di muffa era soffocante. Penetrava perfino dentro il cappuccio, che ancora non mi avevano tolto e che riduceva drasticamente le mie capacità respiratorie. Lui e la muffa erano una combo pazzesca. A completare la situazione già di per sé schifosa: il freddo.
Dovevo trovarmi in un seminterrato perché le temperature erano scese di colpo e l'umidità mi si appiccicava addosso dandomi una strana sensazione di bagnato.
Come se non bastasse, un leggero alito di vento gelido continuava a scivolarmi lungo la schiena; quasi ci fosse una crepa alle mie spalle e filtrasse il gelo della notte. Perché era notte, no?
Mi sembravano passate ore ed ore quando in realtà potevano esser passati anche solo una manciata di minuti, non ne ero sicura. Il tempo perde il suo valore quando non possiamo scandire la percezione che ne abbiamo.
Ero lì, incapucciata, seduta su una sedia scomoda, legata. E il tempo non passava mai. O passava troppo.
«C'è nessuno?» Le braccia cominciavano a dolermi, bloccate dietro la schiena, vittime di quell'umidità e quelle temperature.
Nessuno rispose.
«C'è nessuno?» gridai, ancora.
Quanto tempo sarei dovuta restare così? Quanto avrei retto? La posizione scomoda, unita alle condizioni circostanti, mi avrebbe reso quell'attesa un inferno.
Provai a scuotere le braccia, graffiando le fascette con cui era stata ammanettata. La loro plastica si conficcava nei polsi, faceva male. Allentarle era impossibile. Più ci provavo, più sembravano stringersi, scavando nella carne.
«Finalmente ti ho qui» disse una voce. Non la riconobbi. Arrivava da ogni lato, amplificata e un po' distorta. Probabilmente la stanza in cui mi tenevano era vuota, spoglia; ecco il motivo dell'eco. «Ho atteso tanto questo momento, sai?» Il tono, gentile e canzonatorio, mi diede i brividi.
«Cosa vuoi da me, eh?»
«Da te? Assolutamente nulla.» Rise. «Anzi, tu... sei solo un inutile pezzo sulla scacchiera. Un pedone della mia partita...» La sua risata esplose nella stanza, avvolgendomi come può farlo un branco di lupi con una preda.
D'impulso cercai di liberarmi tirando le mani una lontano dall'altra, cercando di allargare le fascette strette attorno ai polsi in modo da poterle sfilare. Niente. Non funzionò. «Dannato, bastardo!»
«Hai ragione, sono proprio un bastardo.» Non sembrava offeso, anzi, era divertito.
Sentii uno spostamento d'aria, tutto attorno. Non lo vedevo ma lo percepivo. Girava in tondo e io ero il suo centro. Una preda, sì. «Tu non sai con chi hai a che fare.»
«Parli di te stessa?» Restò in silenzio un attimo prima di riprendere a parlare. E quando lo fece, elencò nel dettaglio tutto il mio curriculum. Mi conosceva, sì. Sapeva chi ero. «Scorpion Queen. Ex capo degli Scorpion di New York. Brava nelle risse, brava con gli uomini e ancor più brava a eccedere. Hai lasciato la tua banda dopo aver mandato all'ospedale Kurtis Riviera, quell'inutile scarto umano, uno dei tanti figli di papà di questo mondo... com'è che si fa chiamare? Ah, giusto: Joker. Patetico!»
Un brivido mi scivolò lungo la schiena, pari a un cubetto di ghiaccio. Se parlava di Joker con quella leggerezza e quello sdegno non erano amici, né alleati. E forse, era qualcuno che andava temuto di più.
«Ripudiata dai genitori, diseredata e diventata ormai un peso per tutta la famiglia... ti sei trasferita qui a Detroit per ricominciare, per darti una nuova possibilità.» Due dita mi sfiorarono le spalle. Rabbrividii. «Peccato che tu non riesca a star fuori dai guai... e a quanto pare, non hai fatto chissà quali miglioramenti. Resti sempre la piccola e patetica teppistella di un tempo.»
Buttai giù un fiotto di bile. La rabbia mi ribolliva in petto pronta a tracimare. Lo avrei tanto voluto prendere a calci. Un po' anche perché sotto sotto sapevo avesse ragione.
Oscillai sulla sedia. Forse, se fossi caduta di lato, magari sarei riuscita a portare le braccia in avanti e liberarmi. Ma per farlo, quanto avrei rischiato? Valeva la pena? Quando ci avrebbe messo prima di bloccarmi? Esitai. «Hai fatto i compiti a casa, complimenti.» Presi una boccata d'aria, il tessuto del cappuccio mi premette contro la bocca. Respiravo a fatica.
Ho bisogno di aria... ho bisogno di...
Mi girò la testa.
«Sono un maniaco perfezionista... è nella mia natura studiare le mie prede, impararne le abitudini e assimilare ogni minima informazione.»
Quella frase mi suscitò un brivido e, anche se non ero certa di voler sapere la risposta, posi l'unica domanda che continuava a lampeggiarmi, come un allarme, in testa: «Ma se da me non vuoi nulla... chi è il tuo vero obiettivo?»
Una mano mi agguantò il cappuccio e lo tirò via con uno strappo. Mi ci vollero alcuni minuti per mettere a fuoco la stanza ma soprattutto la figura davanti a me.
Lo riconobbi subito.
Il mio cliente. Quello del Joily. Quello con lo sguardo strano e la cicatrice.
George Wyer, il serial killer più ricercato d'America.
Come avevo fatto a non riconoscerlo? Lo avevo visto sui notiziari per mesi interi, finché non era scomparso nel nulla.
George mi sorrise. Il solito sorriso inquetante, da psicopatico. «Avanti, Scorpion Queen... parlami del Re dei Teschi. Abbiamo ancora una partita da giocare noi due.»
Non voleva me.
Voleva Thomas.
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