36 - LA DECISIONE

Una medicazione veloce ed ero di nuovo a piede libero. Il taglio era stato disinfettato e avvolto in una fasciatura. Nessun punto.

L'infermiera aveva detto che ero stata fortunata a essermi ferita solo di striscio. Io pensavo di essere stata ancor più fortunata a non essermi beccata quel mattone in testa.

Una volta uscita dall'infermeria avevo tentato di convincere i ragazzi a tornare a lezione ma Takeru si era messo a parlare al telefono con qualcuno, probabilmente Lattner, e a fine chiamata si era offerto di accompagnarmi a casa.

Non avevo chiesto nulla del gatto. Sapevo solo che se n'era occupato Ramones.

E ora, seduta sul divano di casa, mentre accarezzavo Muffin che faceva le fusa, sentivo lo stomaco girare come una centrifuga.

Gli animali, no. L'ho sempre pensato. Loro andavano lasciati fuori da tutta la merda degli umani.

Le bestie non sono fatte per subire i nostri capricci. Che poi... ho sempre pensato che le vere bestie siamo noi esseri umani. E quello che mi era appena successo ne era una prova. Però nei miei anni di vita sregolata, nessun animale era mai stato maltrattato, sgozzato e dissanguato a causa mia. Per mandare un messaggio a me. Ora invece sì.

Sentivo il peso di quella piccola vita sulle spalle. E più accarezzavo Muffin, addormentato e con la testa ciondolante, più mi convincevo che tutto ciò che entrasse nel corto raggio della mia esistenza in qualche modo venisse intaccato e compromesso. Perfino gli animali.

Avevo fatto a botte, rubato, minacciato con armi, assunto alcol e droghe; avevo fatto sesso con sconosciuti e mandato all'ospedale conosciuti. A causa mia la mia ex migliore amica era finita sulla sedia a rotelle con la faccia deturpata da un'enorme cicatrice a forma di ghigno malvagio. Eppure, sebbene la mia strada fosse segnata da una lunghissima lista di peccati... tra questi, gli animali, ancora non c'erano finiti.

Non prima d'ora.

Dopo oggi, un altro peccato. Un'altra macchia sull'anima. Un peso grosso come un macigno paragonato a quel piccolo corpicino deturpato nel mio armadietto.

Era un po' come bere il sangue di un unicorno. La sapete la storia di Voldermort, no? Ci sono cose che dannano l'anima.

Sentivo le mani macchiate di quel sangue puro, anche se non avevo mai strappato alcuna vita. Ma forse, dopo oggi, per Joker avrei fatto un'eccezione. Lui era la mia eccezione su tutto, perfino sui valori e sulla morale.

«Senti, questa cosa non è normale.»

Alzai gli occhi su Takeru. Erano ore che continuava a camminare avanti e indietro per la mia sala, mentre io non smettevo di coccolare Muffin. Forse, il mio inconscio, cercava in quelle coccole il perdono da un altro gatto, mentre uno non aveva avuto scelta. «Sei perspicace» mi limitai a dire.

Non ci voleva certo un genio per capire che le dinamiche di quella mattina erano tutto fuorché normali.

«Bé, forse dovremmo chiamare la polizia.»

Risi. «Certo. Per dirgli?» Le cose tra teppisti si risolvono tra teppisti. Un po' come dire che i panni sporchi si lavano in famiglia.

«Non so, magari che qualcuno ha tentato di farti secca lasciandoti addirittura un ricordino nell'armadietto?» Sussultai e lui sospirò amareggiato. «Mi dispiace... non volevo.» Si lasciò cadere scoraggiato vicino a me. Non sapeva come reagire a quella mia apatia improvvisa. «Vuoi mangiare qualcosa?» propose.

Scossi il capo e puntai gli occhi sull'orologio affisso al muro. Erano già le tre. Un'ora e sarei dovuta andare a lavorare. «Non mi va.»

«Già. Immaginavo.»

Takeru non era bravo a consolare. Proprio come me. Sembravamo fatti apposta per essere amici. Negati con i rapporti umani e con tanti casini da poterci scrivere un libro.

«Sapevo sarebbe tornato» dissi, dopo alcuni minuti di silenzio. «C'è un conto in sospeso tra noi. Finché non lo sistemiamo non è finita.»

Lui mi guardò con la coda dell'occhio, senza smettere di tamburellare le dita sulle ginocchia. Era teso. «Joker, dici?»

Annuii.

E chi altri sennò?

«Non pensavo così presto ma...» Scrollai le spalle. In realtà avevo solo sperato fosse finita lì, dopo il fallimento di Sullivan. Era una buffa utopia a cui restare aggrappati. Una speranza fasulla, lo sapevo. Eppure per un po' ci avevo sperato.

«E se non fosse stato lui? Insomma... il tizio dell'altro giorno era abbastanza sospetto, no?» Ci scambiammo un'occhiata.

Non volevo pensare che al mondo esistesse un essere altrettanto spregevole. Già mal sopportavo l'idea che ce ne fosse uno. Uno con il quale avrei presto dovuto fare una lunga chiacchierata; fatta di parole, sangue e botte.

«Preferisco credere che sia lui.»

«Cosa? E questa che idiozia sarebbe?» Si girò verso di me, aspettandosi una risposta. Per lui Joker era solo uno squilibrato come tanti, lontano dai nostri problemi. Una sorta di Bau Bau immaginario, di cui si sentono solo le storie terrificanti.

Io invece lo sentivo sempre più vicino, con il fiato sul collo.

La porta si aprì proprio in quel momento, di colpo, andando a sbattere contro il muro. Sobbalzammo entrambi ma non ci scomodammo mentre Lattner e Ramones ci raggiungevano a passo spedito. Sembravano arrabbiati, preoccupati e anche incazzati.

Io avevo perso la voglia di esserlo.

La rabbia corrode la mente. E io ero stanca. Stanca di scappare, di nascondermi, di sperare.

Alla fine il passato ti acciuffa sempre. Era ora di aspettarlo, semplicemente.

«Robin!» Le dita fredde di Lattner mi toccarono il viso, ispezionandolo con cura. Si era piegato su di me, imponente e protettivo. Aveva lo sguardo cupo e vedevo la pressione della sua furia da come gli pulsava la vena sul collo e da come gli si irrigidiva la mandibola. Se avesse avuto tra le mani il colpevole non so che gli avrebbe fatto.

Il suo tocco era leggero eppure sentivo pizzicare la pelle negli esatti punti in cui mi sfiorava. La notte trascorsa insieme era ancora lì, ferma e presente tra di noi, accantonata per dar spazio a questi nuovi eventi; ma ancora ben presente.

«Sto bene.» Cercai di allontanargli la mano e Muffin ne approfittò per sfuggire dalle mie grinfie. Basta coccole. Si era concesso anche troppo secondo i suoi standard.

«No. Non stai bene.»

E aveva ragione. Lo sapevo io, lo sapeva lui e lo sapevano anche Takeru e Ramones.

Sollevai lo sguardo per intercettare i suoi occhi. Restammo a guardarci in silenzio. Una sfida muta a chi prima distoglieva lo sguardo. Toccò a me questa volta abbassarlo. Avevo bisogno di un attimo per me, di pensare, di trovare la soluzione meno tragica. Come potevo liberarmi di Joker senza ritornare nel vortice in cui ero già caduta un tempo? Mi serviva tempo per ragionarci su. Un piano. Sì, mi serviva un piano. «Vado a prepararmi.» Mi alzai dal divano.

«Aspetta.» Le sue dita si chiusero attorno al mio polso. Mi trattenne. «Stasera Vega ti accompagnerà al lavoro e riprenderti verrò io.» Sembrava tanto un ordine a cui nessuno però si oppose.

«Cosa?»

Tutti parvero d'accordo. Tutti meno me.

«E non avete pensato di chiedermelo?» La mia voce tradì un certo nervosismo. Volevo urlare. Ne avevo un bisogno estremo. «Non vi è nemmeno passato per l'anticamera del cervello di chiedere il mio parere?»

«No. Anche perché sapevamo già cosa ci avresti risposto.»

Strattonai il polso fino a liberarmi dalla sua presa. Avrei voluto schiaffeggiarlo anche solo per potermi sfogare. E forse lui me lo avrebbe lasciato fare. Strinsi la mano a pugno, affondando le unghie nel palmo. Ricacciai indietro la rabbia. No. Non era con lui che dovevo sfogarla. «Questo è un problema mio, Thomas! Mio!» Indietreggiai prima che riuscisse ad acciuffarmi di nuovo e fissai prima lui e poi gli altri due. «Statene fuori. Non sono affari vostri. Non immischiatevi!»

Me ne uscii dalla stanza sentendo i loro sguardi puntati addosso, la loro intensità mi bucava la nuca. Sapevo che non mi avrebbero ascoltato. Al posto loro, non l'avrei fatto nemmeno io.

Per questo, l'unico modo che avevo per tenerli al sicuro, era trovare Joker prima che lui trovasse me.

E va bene, Joker. Giochiamo ancora.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top