31 - INCONTRI INTERESSANTI NEI CORRIDOI DEL MISSAN
«Gli hanno sparato. In testa.»
Takeru sputò contro l'armadietto tutto il contenuto della piccola brocca di latte che stava bevendo, gli occhi sgranati come un pesce palla. Si pulì la bocca sporca con la manica del completo e fissandosi attorno pallido come un cencio mi strattonò per la maglia. «Sei per caso pazza? Pazza come la merda?» sibilò, guardando qua e là in cerca di Lattner. «Ma certo che lo sei... che te lo chiedo a fare.»
«Non è forse così?»
Lo vidi strofinarsi il viso con la mano libera, indeciso se tirarmi uno schiaffo o darsi alla fuga. «Io devo ancora capire perché ti sono amico.»
Ghignai. «Perché sono carina e coccolosa?» ipotizzai.
«Dove? Quando mai? In che universo?»
«Non fingerti insensibile.» Gli sferrai una gomitata e lo agguantai per il collo con un braccio. «E ora dimmi che sono carina e coccolosa. Forza!»
Avvampò, agitando le mani e annaspando l'aria. «Solo in punto di morte» riuscì a rantolare.
«O'Neil! Ogawa! State per caso litigando?» La voce della Wood smorzò l'atmosfera gioviale. Io e Takeru ci bloccammo, cristallizzati in quell'istante. Quando la professoressa apparve nel nostro campo visivo non mi sorpresi del fatto che fosse in compagnia di Lattner. Quei due, al Missan, sembravano l'uno il prolungamento dell'altra. Odiavo vederli insieme, soprattutto conoscendone i trascorsi.
Lattner ci fissò, fissò il mio braccio ancora avvolto attorno al collo di Takeru e sulle labbra gli spuntò uno dei suoi sorrisetti furbi, che la diceva lunga sui suoi pensieri. «Lasciali stare, Theresa. Pare si siano riconciliati i piccioncini.»
Lo trapassai con lo sguardo. Non so se più per l'affermazione, così volutamente allusiva; o per il fatto che avesse chiamato la Wood per nome. «E quindi? Siamo amici. Non possiamo trastullarci un po' prima dell'inizio delle lezioni?»
Takeru non disse una parola. Con la coda dell'occhio vidi che fissava Lattner con un'espressione così intensa che per un attimo pensai stessero conversando telepaticamente.
«Oh, ma certo che potete» squittì la Wood, guardandomi con il solito cipiglio provocatorio. Altezzosa come sempre. Non si poteva certo dire che le andavo a genio. Tra noi c'erano attriti che forse non avremmo mai sistemato. Non che io ci tenessi, sia chiaro. «Ma sai, O'Neil... conoscendo la tua reputazione... pensavo stessi infastidendo l'ennesimo studente.»
Il fatto che Lattner non disse niente mi fece ingoiare un boccone amaro, pieno di insoddisfazione e un pizzico di delusione. Speravo che prendesse le mie difese? Sì, bé... forse sì. «Spiacente, Miss Wood... ho voltato pagina» cercai di tagliare corto. «Di fronte a lei vede la nuova Robin O'Neil, studentessa modello.»
«Certo, con una F in matematica» borbottarono sia lei che Lattner all'unisono.
Dalle mie labbra quasi uscì un vaffanculo, prontamente trattenuto da una strattonata di Takeru che conoscendomi bene aveva già previsto la mia reazione. Mi sforzai di sorridere, mascherando l'arrabbiatura. Da quando Lattner e la Wood erano diventati così affiatati? Da quando parlavano addirittura in sincronia? Cercai di leggerlo negli occhi di lui ma non mi degnò di uno sguardo. «Bene» ringhiai, sputando le parole a fatica. «È meglio se torniamo in classe e vi lasciamo alla vostra passeggiata da finti colleghi.»
Takeru strozzò un gemito e mi spinse verso l'aula di Storia. «Sì, e - esatto. Esatto. No - noi andiamo. Buo - buona giornata» balbettò, scuotendomi come si fa con le palline con dentro la neve finta. Forse sperava che il mio cervello si riallineasse con la bocca.
Prima però che riuscissimo ad allontanarci abbastanza da potermi permettere di sbollire l'incazzatura, Lattner agguantò per una spalla Takeru. «Ogawa» Strinse la presa e l'altro sussultò. «Volevo solo dirti che ho visto il vostro scontro in palestra.»
Takeru impallidì. «S - sì?» Per un attimo mi chiesi se Lattner non volesse riprendere il discorso lì, nel bel mezzo di un corridoio del Missan. E forse anche lui si pose quella domanda.
«Avete risolto ogni cosa?» I loro occhi si incontrarono e compresi che in quelle parole, Lattner gli stava tacitamente chiedendo se si fosse lasciato sfuggire qualcosa di troppo. «Avete parlato come si deve?»
«Sì. Tutto risolto... cioè, sì, abbiamo un po' parlato.» rantolò Takeru, trattenendo un gemito quando Lattner strinse maggiormente la presa sulla spalla. «Ma solo di cose nostre... sciocchezze» aggiunse, frettolosamente.
«Ne sono davvero contento.» Lo mollò di scatto e ci rivolse un sorriso circostanziale. «Bene, ragazzi. Allora buona giornata.» Detto questo, si voltò di scatto e con la Wood al seguito come un fedele cagnolino scomparve dalla nostra vista.
«Quello stronzo...» sibilò Takeru, massaggiandosi la spalla. Imprecò nella sua lingua. «Fa quel faccino angelico ma sotto sotto è una vera testa di cazzo.»
«Concordo pienamente» grugnii. Dopo quello che era appena successo non volevo mettere in discussione la stronzaggine di Lattner. Anzi, se avessi avuto a portata di mano un pennarello rosso l'avrei evidenziata con un paio di cerchi. E poi gli avrei cavato gli occhi con la punta del pennarello, ovviamente.
«Comunque quella Wood è una vera pianta in culo» se ne uscì Takeru, dopo qualche minuto di silenzio mentre raggiungevamo la classe di storia. Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.
«Che genere di pianta?» chiesi, ridendo.
«Un cactus.»
Sghignazzai. «Cavolo, rende bene l'idea.»
«Vero?»
Restammo in silenzio. I ticchettio nei nostri passi e i nostri respiri erano gli unici rumori che riempivano il corridoio vuoto. «Senti...» iniziai, sapendo già la risposta. «Quindi, tornando a Samu... non mi dirai nulla, vero?»
«Col cazzo, Rob! Col cazzo!» Smanacciò le braccia in aria, agitato. Il viso gli tornò paonazzo. «Hai visto quel pazzo, vero? Se sa che ti ho detto qualcosa... qualsiasi cosa... mi appende per i testicoli fuori dal Missan.»
Lo fissai accigliata. «I giapponesi hanno i testicoli?»
«Mi ricorderesti perché sono tuo amico?» Mi rifilò una manata sulla fronte.
«Carina e coccolosa, ricordi?»
Roteò gli occhi al cielo. «Nei tuoi sogni.»
Stavo per innescare un combattimento all'ultimo frontino quando una voce che ogni volta riusciva a portarmi gli incubi mi colse di sopresa.
«Alla fine mi hai dato buca.» Claiton apparve davanti a me come un Pokemon selvatico. I capelli arruffati e gli occhi vispi già di prima mattina. «Che è successo? Ti ho aspettato per ore.»
Claiton. Di nuovo. Sempre lui. Non demordeva mai.
«Mi dispiace... ho avuto un attacco fulminante di diarrea.»
Storse il naso confuso. «Davvero?» Ancora credeva alle innumerevoli cazzate che di volta in volta gli propinavo. Takeru si coprì la bocca cercando di non ridere e si defilò velocemente in classe abbandonandomi solitaria sul campo di battaglia.
Grazie tante, Giappo-minchia! Me ne ricorderò!
«Ah, se solo avessi un Jigglypuff a portata di mano. Ti farei Canto e mi leverei dalle palle, almeno.» ragionai, assorta.
«Come?»
«Eh? Ah, no, niente. Ragionamenti randomici da nerd.»
«Se oggi stai meglio possiamo andare da qualche parte, eh? Che ne dici?» Mi rivolse un sorriso sardonico che, forse, nella sua mente, gli conferiva un'aria sexy. «Sai, conosco un sacco di modi per farti stare meglio.»
Mi sforzai di non ridergli in faccia, temendo che questo potesse compromettere la sua, ormai quasi inesistente, autostima. «Per favore, Claiton... promettimi che morirai nel breve tempo.» Gli diedi qualche colpetto d'incitazione sulla spalla e sorrisi.
«E il mio amore?»
E le mie ovaie? Dove sono? Qualcuno me le recuperi... mi sono cadute...
«Rifiuto l'offerta e vado avanti.» Rimase inebetito mentre lo sorpassavo, defilandomi in classe a velocità sostenuta. Doveva entrare anche lui, quindi in realtà non lo seminavo per davvero. Se avessi potuto fare come negli anime mi sarei lanciata dalla finestra, scappando dal cortile della scuola. Invece no, dovevo stare lì, fare storia, e sorbirmi il suo sguardo bruciante.
Raggiunsi il mio banco con un sospiro, gettando la mia cartella a terra e sedendomi sulla sedia con la delicatezza di un muflone. Takeru sbuffò una risata. «Quindi non mi dirai altro...» frignai. Non era propriamente una domanda.
Scrollò le spalle. «No.»
Lo pungolai. «Sicuro?»
«Non mi toccare. La tua idiozia è contagiosa.»
«Perché non mi ami più come una volta?» gridai, verso il nulla, spalmandomi sul suo banco. Diversi compagni di classe si voltarono in nostra direzione e questo bastò per farlo diventare paonazzo.
«Zitta, baka! Baka! Baka!» gracchiò, colpendomi in testa con l'astuccio, a ripetizione.
Sghignazzai.
E va bene. Non voleva e non poteva dirmi niente.
Non importa. Lo avrei scoperto da sola.
Intanto, però, le cose tra noi erano tornate come prima. E non potevo essere più felice di così.
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