30 - LA VERITA' SU SAMUEL

«E quindi è così casa tua» dissi, avanzando di qualche passo e sentendolo chiudere la porta alle mie spalle.

Non era affatto come mi aspettavo. Pulita, in ordine, ben disposta. Non so, per certi versi deludente.

«Cosa ti aspettavi? Dei teschi appesi sul soffitto, cataste di birre e panni sporchi disseminati ovunque?»

No, ovvio che no. Però era strano che un teppista chiamato Spaccaossa fosse in realtà una sorta di casalinga depressa con manie della pulizia. «Hai anche un grembiule a fiori?» domandai, senza guardarlo. Ero ancora intenta a fissare l'arredamento, completamente assorbita dall'impeccabile accostamento di colori e stili. Se non fossi stata certa che era single, avrei pensato che tra quelle combinazioni appropriate ci fosse un certo tocco femminile. Forse Märten aveva un lato nascosto a me sconosciuto. Per un attimo lo immaginai appollaiato sul divano a ricamare.

«Sì. Lo vuoi vedere? Lo uso quando cucino nudo.» Mi andò di traverso la saliva e girandomi per fissarlo notai che il suo sguardo era puntato nel mio. La sua battuta irriverente non aveva smorzato i toni, l'aria era ancora piena di una tensione viva e crepitante. Infatti subito aggiunse: «Quindi? Che succede?»

Gli passai una delle birre e lui se l'aprì senza indugi usando le mani come tenaglie. Notevole.

«Ho bisogno di alcune risposte.» In realtà, solo di una.

«Prima dimmi quanto sai.» Ne tracannò un sorso e fissò la bottiglia. Parve compiaciuto.

«Abbastanza.» Dovevo giocarmela bene, altrimenti avrei finito solo per scavarmi la fossa da sola. Questa necessità di sapere, poteva diventare un'arma a doppio taglio. «So di te, di Lexie, di Marshall, di Takeru... di Mr.Teschio...» Non trovai abbastanza coraggio per dire Lattner. Ma lui lo capì comunque.

«Sai tutto, insomma. E chi ti ha fatto la spia? Il quattrocchi?»

Avevo previsto anche questo. Takeru sarebbe stato il primo sospettato. Scrollai la testa. «No, a dire il vero è un periodo che non andiamo d'accordo. Non ci parliamo da diverso tempo.» Non menzionai il fatto che avessimo appena fatto pace. L'espressione che gli si dipinse in viso mi fece capire che in realtà già era a conoscenza dei nostri dissapori e forse aveva perfino assistito al litigio tra lui e Lattner. «Ho scoperto tutto da sola, sai... piccoli indizi, stralci di conversazioni, indumenti troppo simili trovati qua e là...» Vagai con lo sguardo. Dovevo parlare con naturalezza, senza lasciargli intendere che stavo bluffando per la maggior parte delle cose dette. Insomma, avevo poche informazioni concrete; alcune le avevo reperite da Takeru, altre le avevo dedotte e alcune mi erano state gentilmente concesse dalle disattenzioni di Lattner. Ma erano comunque poche. Poca roba confronto alla mole che con ogni probabilità riguardava gli Skulls. Una goccia in un mare. Ma in fondo, io non ero lì per conoscere la storia della loro banda e dei loro componenti. Io ero lì per conoscere la storia di Samuel. In quel momento era l'unico tassello importante per cui valesse la pena espormi così tanto.

«Una piccola Sherlock Holmes.»

Mi sfuggì un sorriso. Allungai la mano e sfiorai alcune cose sulle mensole: foto, souvenir, libri. Tutto meticolosamente pulito e accuratamente sistemato. «Già. Senza contare che ho le mie fonti.» Ovvero, nessuno. Ma lui non lo sapeva, no? «Dimentichi chi sono.»

«Vero. Sei così piccola che ti sottovaluto sempre.» Lo sentii muoversi alle mie spalle ma fui impreparata quando mi afferrò per un braccio, costringendo a voltarmi. «Quindi cosa vuoi?» Il sorriso gli era sparito dalle labbra e ora era in tutto e per tutto l'essenza della sua parte oscura, quella teppista. «Immagino tu non sia venuta qui per fare due chiacchiere.»

«Immagini bene.» Tirai indietro il braccio ma lui non fece resistenza, mi lasciò senza reagire e la mano mi rimbalzò contro il petto. «Sono venuta qui per farti una domanda.»

Ghignò. «Chi ti dice che uscita da quella porta non vada a spifferare tutto a Thomas, eh?»

Sapevo avrebbe detto anche questo. Un componente fedele di una banda non si sbottona mai se non viene adeguatamente sollecitato. E c'era un unico modo per sollecitare noi teppisti.

Mi spostai verso il divano, sedendomi e accavallando le gambe. Sentivo la tensione scivolarmi a flussi lungo il corpo, fino a farmi tremare le ginocchia. Non ero sicura di poter fare ciò che stavo per fare, ma non avevo scelta. La mia decisione l'avevo presa appena avevo bussato alla sua porta di casa. Avrei fatto di tutto pur di conoscere la verità su Samuel, anche giocare tutte le carte false di cui disponevo. «La tua fedina penale è pulita, vero?» chiesi, giocando con il collo della bottiglia di birra. La posai ancora chiusa sul tavolino di fronte a me. «Immagino che qualcuno degli Skulls abbia fatto i salti mortali per ripulirtela.»

Lo sentii inspirare a denti stretti. «E quindi?»

«Sicuramente avrete qualche elemento infilato anche lì. Insomma, Marshall è un medico, no? Tu un ragioniere...» Lo fissai e improvvisamente fui certa che la mia espressione fosse tornata quella di un tempo: spietata, incolore, indifferente e al contempo crudelmente divertita dal disagio altrui. Scorpion Queen riaffiorava nei momenti in cui ne avevo più bisogno. Una sorta di maschera, di copertina di Linus. «Per fare i ragionieri bisogna avere una certa credibilità, non credi? Con la fedina sporca... perderesti tutto.»

Era una minaccia. Sì. Stavo mettendo un piede nella sua comfort zone. Gli stavo lanciando una bomba nel suo giardino perfetto. Stavo calpestando il suo duro lavoro. E conoscevo bene l'effetto che faceva. Sentire che improvvisamente, tutti gli sforzi fatti, sarebbero potuti andare all'aria a causa di un unico e solo problema. Era una sensazione disarmante e che in qualche modo scatenava una forte determinazione e la necessità di una sorta di sopravvivenza.

Ci aggrappavamo a noi stessi, ai nostri traguardi, alle nostre paure, ai cambiamenti sudati e ottenuti. Il passato fa paura. Non si vuole mai tornare indietro.

Si passò una mano nei capelli e scivolò sul divano, vicino a me. «Pensi di poter venire qui e minacciarmi?»

«Lo penso?» domandai, con finta ingenuità. Roteai gli occhi al cielo e sorrisi. «Forse sì. D'altronde come la prenderebbe lo studio per cui lavori se improvvisamente trovasse un fascicolo contenente tutti i segretucci che hai tenuto nascosti?» Era una mossa infame, lo so.

Märten mi afferrò il viso con una mano, veloce e rude. Strinse la presa e si avvicinò pericolosamente. Ero certa che quella sera sarei uscita dal suo appartamento con delle risposte ma anche piena di lividi. Non mi aspettavo un fine serata tranquillo. Non si trattava di una chiacchierata tra amici, tra un uomo e una donna; si trattava di un confronto tra teppisti... e di solito non avevamo molti tipi di finali da scegliere. «Sai, sei la cosa più eccitante e dannatamente pericolosa che io abbia mai incontrato prima d'ora» sibilò, con un ghigno. Cercai di sottrarmi inutilmente alla stretta, mi aveva incastrato contro il divano e continuava ad avvicinarsi. «Potrei darti le informazioni che vuoi ma... ad un prezzo.»

Trasalii. Questo non era previsto.

Immaginavo che le minacce sarebbero state sufficienti a dissuaderlo e invece il sorriso malizioso di Märten mi lasciò di stucco. aveva in mente qualcos'altro, ed era qualcosa di sconveniente. «E quale sarebbe?»

«Un bacio.» Sorrise. «Mi sembra ragionevole, no?»

Il viso iniziò a scaldarsi come una pentola sul fuoco ma resistetti a tagliare il contatto visivo. Non volevo dargliela vinta. Non ero una ragazzina alle prime esperienze. Sapevo bene che giocare con un uomo poteva anche portare guai. «Potrei trovare le informazioni che voglio in altri modi. Lo sai, vero?»

«Già... ma tu sei venuta qui. Quindi dobbiamo concordare un prezzo equo. Troppo facile cercare di strapparmi informazioni usando il persuasivo potere delle minacce, non credi?»

Un bacio. Un bacio per sapere la verità su Samuel. Un altro bacio a qualcuno che non era Lattner.

Lo stomaco prese a turbinarmi dall'agitazione ma deglutendo mi limitai ad annuire. In fondo era solo un bacio e io di baci ne avevo dati un'infinità, perfino a ragazzi meno interessanti di lui. Era uno sforzo che non mi sarebbe costato molto. «E va bene. Accetto.» Un sorriso smagliante spuntò sulle labbra carnose di Märten. Negli occhi un luccichio inquietante. Non sembrava affatto dispiaciuto. «Ma prima voglio che rispondi alla mia domanda... altrimenti chi mi assicura che manterrai fede alla parola data?» puntualizzai.

Märten sghignazzò. «Potrei dire lo stesso di te... ma visto che sono un gentiluomo, va bene, ti concedo la precedenza.»

Tirai un sospiro di sollievo. Sapevo bene che non avevo ancora ottenuto niente ma il semplice fatto che avesse accettato di collaborare, seppur alle sue condizioni, mi faceva sentire meno tesa riguardo la domanda che stavo per fargli. «Ho solo una domanda.»

«Bene, spara.»

Lo guardai negli occhi per accettarmi che prendesse sul serio quel momento e assicurarmi non mentisse. «Voglio sapere com'è morto Samuel.»

La domanda sembrò accigliarlo. Si ritrasse con uno scatto, confuso e sorpreso. Nei suoi occhi si dipinse qualcosa di simile al pentimento e alla colpa. Distolse lo sguardo, lo abbassò. «Perché vuoi sapere proprio questa cosa?»

«Ho bisogno di saperla.» Non volevo confessargli che mi ero fatta i peggiori viaggi sulla situazione, né volevo dirgli che avevo perfino sospettato di Lattner. Qualsiasi cosa fosse successa a Samuel, portava a tutti un gran turbamento. Doveva essere morto tragicamente, in una maniera che in qualche modo aveva sporcato l'anima di tutti gli Skulls. «Devo saperla.»

Märten giocò con uno dei tanti piercing all'orecchio e tentennò a parlare. Quando lo fece, la voce gli uscì bassa e greve. «È morto parecchi anni fa.»

«Questo lo so.» Avevo visitato la sua tomba. Avevo visto le date. Era morto giovane, troppo presto.

Sollevò lo sguardo e gli occhi divennero liquidi, traboccanti di lacrime che non scesero. La voce tremò appena appena nel dire quell'unica frase che sgretolò ogni mio pensiero: «Gli hanno sparato in testa.»

Samuel. Il fratello di Lattner. Il suo amato fratello.

Morto non per un incindente, non per un male incurabile. Morto per un colpo di pistola dritto in testa.

Tremai. Istintivamente mi tappai la bocca con la mano, soffocando un singhiozzo.

Märten mi attirò a sé quasi volesse sottrarmi da ciò che mi aveva appena detto. Come a volersi rimangiare ogni parola. «È stato un errore. Nessuno di noi si è accorto che...» Scrollò il capo e le spalle sussultarono. «Abbiamo fatto tutti un errore. È stata anche colpa nostra. Di tutti gli Skulls.»

Cos'era successo? Chi gli aveva sparato? Perché si sentivano tutti colpevoli? Cosa c'entrava Lattner in tutto questo?

Gli presi il viso con entrambe le mani, tremavo. «Come è successo? Cosa è successo?»

Volevo sapere. Dovevo sapere.

Com'era potuta succedere una disgrazia simile? Qual era stata la dinamica? Era per questo che Lattner si colpevolizzava tanto?

Una bussata frenetica ci strappò dai nostri pensieri. Märten barcollò indietro, scivolando via dalle mie mani, dalla mia stretta, dal mio sguardo e l'apprensione che vi si leggeva dentro. Si rimise in piedi, restando immobile come una statua. La bussata riprese, più forte, più marcata.

«Ecco...» guardò me, guardò la porta.

Gli feci segno di sì con la testa e lui andò ad aprire.

La voce di Lattner mi raggiunse come una coltellata. «Ehi, Märten... tutto okay? Hai una faccia strana...»

Märten si schiarì la voce con un colpo di tosse. «Sì, certo. Che succede T.?»

«Ah, niente. Volevo solo dirti che esco a cercare Robin... ancora non è tornata a casa e mi sto preoccupando. È tardi e... insomma, è una ragazza... la notte è piena di merda, lo sai...»

Il petto mi si chiuse in una morsa, stretto come se mi avessero stritolato il cuore tra due mani. Mi alzai dal divano e raggiunsi i due sull'uscio. Quando Lattner mi vide, alle spalle di Märten, indietreggiò di alcuni passi e sembrò accusare la mia presenza come quando si accusa uno schiaffo.

«Oh. Capisco.» Lo disse così piano che per un attimo pensai di averlo immaginato.

«T. non è come pensi. Davvero!» tentò subito di giustificarsi Märten, allungando una mano per toccarlo; ma l'altro si ritrasse. «È venuta qui solo a far due chiacchiere. Ci siamo incrociati sul pianerottolo.»

Lattner annuì e rivolse il suo sguardo a me. «Pensavo che... be'... ti fosse successo qualcosa.»

Scossi il capo e una strana voglia di piangere mi risalì in gola, fino a strozzare le parole. C'era qualcosa di rotto nel suo sguardo. E forse c'era qualcosa di rotto anche nel mio. Volevo abbracciarlo e dirgli che era tutto a posto, che sarebbe andato tutto a posto. Ma per cosa? Cosa sarebbe andato a posto? Niente. Samuel non sarebbe potuto tornare in vita. E io nemmeno sapevo per mano di chi era morto. «Scusa se ti ho fatto preoccupare. Ci siamo fermati a chiacchierare... sai, era dai tempi di Robert che non facevamo una chiacchierata come si deve» Cercai di buttarla sul ridere ma non rise nessuno. Nemmeno io. «Bé, grazie per il tuo tempo...» Sgusciai fuori dalla porta lanciando a Märten un'ultima occhiata. Sembrò recepire il messaggio: muto come un pesce. Ma forse, nemmeno lui avrebbe più voluto sollevar l'argomento. Dallo sguardo che contraccambiò parve chiedermi tacitamente di dimenticare tutto. E avrei voluto, davvero. Solo che non ci sarei mai riuscita. Non fin quando non avrei ottenuto un nome. Un solo nome. Quel nome.

Salutammo Märten con l'euforia di due persone reduci da un funerale e Lattner si spostò verso casa senza guardarmi. Lo seguii come un cagnolino. Ero davvero patetica.

Quando fummo dentro, soli, si ravviò i capelli con un gesto repentino e che conoscevo bene: era seccato, innervosito, in qualche modo pronto a litigare. E se poteva farlo star meglio, gli avrei offerto il litigio su un piatto d'argento.

«Märten, eh? Diavolo!» disse, d'un tratto.

Scrollai le spalle. «Volevo solo farci amicizia. È tuo amico, no?»

Si voltò a guardarmi. «Sì. E ti ho anche detto che è una persona poco raccomandabile. Ma a quanto pare non te ne frega niente delle cose che ti dico» sbottò. «Avresti potuto anche mandarmi un cazzo di messaggio! Non pensi che la gente si preoccupi per te?»

«Hai ragione, mi dispiace. È stata solo una banale chiacchierata...non mi son accorta dell'ora.» Già, banale quanto la morte di Samuel.

«Già! E intanto io a casa come un coglione ad aspettarti» gridò, furioso, colpendo con una manata una pila di compiti che aveva corretto per ingannare l'attesa.

«Ho capito! Hai ragione! Hai ragione, va bene?» berciai, sentendomi improvvisamente una ragazzina che doveva rendere conto ai propri genitori del ritardo. Il fatto strano era che ai miei genitori non era mai fregato nulla di me. Era strano che qualcuno lo facesse.

«Non me ne frega un cazzo di avere ragione, Robin. Ero preoccupato, cazzo! Preoccupato, capisci?» Restammo a fissarci un secondo e Lattner sbuffò sonoramente, facendo un giro su se stesso e passandosi le mani nei capelli.
«Cristo! Prima o poi diventerò matto con te.»

«Attento a non diventare pelato» borbottai e questo lo fece sghignazzare.

«E poi, tra tutte le persone con cui far una chiacchierata... proprio Märten?» La voce gli tradì un leggero fastidio.

«È stato un puro caso. Non pensavo fossi così geloso del tuo amico.» Gli feci una linguaccia e lui sbuffò una risata.

Allungando una mano, mi afferrò per la nuca e, tirandomi a sé, mi stampò un bacio in testa. «Ti prego, Robin... fa attenzione la sera... avvisami se ti fermi da qualche parte.» Mi guardò e sorrise tristemente. Negli occhi potei leggere un vuoto e un dolore silenzioso e che forse non avevo mai notato prima, se non davanti alla tomba di Samu. «Sei tutto ciò di importante che mi è rimasto... okay?» detto questo mi fece una debole carezza e lasciò la sala lasciando anche me sola.

Sei tutto ciò di importante che mi è rimasto...

Quella frase fu dolce e spietata, così vera ma anche così dolorosa.

Mi piegai su me stessa e scoppiai a piangere. E nemmeno sapevo perché.

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