3 - LA STORIA CHE SI RIPETE
Lui. Lì. Ancora una volta. Ancora per me.
Non avrei mai pensato sarebbe venuto a cercarmi, né che mi avrebbe trovato. Eppure era lì, come sempre. Quando ero nei guai, lui c'era. E un po' mi faceva paura questa sua presenza. Era diventato una costante nella mia vita e solitamente non era da me appoggiarmi a qualcuno e lasciare che diventasse in qualche modo indispensabile.
Rilassai le spalle e sospirai. Non gli nascosi un sorriso. Adesso mi sentivo meglio. Adesso ce la potevo fare. Con lui vicino tutto sembrava più facile, più affrontabile.
«Diamine, ragazzina... dovrò davvero crearmi un Bat-segnale. Sai quanto tempo ho perso per capire dov'eri?» Sembrava arrabbiato. O forse solo preoccupato.
«Ma mi hai trovato.»
«Certo che ti ho trovato. Io ti trovo sempre. E poi...» Si allungò a porgermi la mano. Prima che però riuscissi ad afferrarla uno scagnozzo si gettò in nostra direzione. Il motociclista fu veloce, lo afferrò per una spalla e facendolo slittare sul serbatoio lo lanciò dalla parte opposta. «Sto ancora parlando, amico» gli ringhiò seccato, mentre questo ancora rotolava in terra.
Nel magazzino si levò un brusio. Tante voci accavallate, tanto sgomento, tanta preoccupazione. Il Re dei teschi sembrava aver portato con sé la giusta dose di terrore. E a parte lo stolto temerario di prima, nessuno si era ancora mosso, nessuno voleva averci a che fare.
«Dicevo: e poi hai rispolverato il vecchio abbigliamento da Scorpion Queen. Potevo perdermi questo spettacolo?» Allungò di nuovo la mano che questa volta strinsi. Mi tirò su con facilità e dovetti appoggiarmi alla sua spalla per non perdere l'equilibrio. Feci per ringraziarlo ma la risata di Sullivan mi obbligò a tacere. Si levò sopra tutto, surreale. Abbastanza illogica da attirare tutti gli sguardi.
«Il Diavolo è sceso all'inferno, eh?» Il tono di voce era a metà tra il canzonatorio e l'isterico.
Il Re allargò le braccia teatralmente e sorrise, la bandana col teschio abbassata e arrotolata attorno al collo. Rimasi immobile sentendo la tensione camminarmi addosso, dava l'idea di tante piccole zampette che pizzicavano la pelle come trafitture di aghi. Presi un respiro e gli restai vicino, guardandogli il profilo della mandibola e notando la tensione con cui la serrava.
«Qual buon vento porta qui il Re dei Teschi?» domandò Sullivan. I suoi uomini si divisero a metà, lasciando uno spiraglio vuoto simile a un corridoio che partiva dal soppalco e finiva con la moto.
Il motociclista picchiettò le dita guantate sul serbatoio. «Non è forse chiaro?»
«Non è una Skulls. Non è affar tuo!»
«Oh, no... è proprio qui che ti sbagli, enorme agglomerato di steroidi e stupidità! Lei è a tutti gli effetti affar mio... a trecentosessanta gradi... da ogni angolo tu la voglia guardare, lei, è affare mio. Solo mio.»
Arrossii.
In realtà non aveva detto nulla di strano. Era vero. Ero un suo affare. A scuola, a casa, come ex teppista presente sul suo territorio. Insomma, gli davo da fare ovunque e in qualunque campo. E non sapevo bene se vederlo come un bene o un male. Son sempre stata quel genere di extra non compreso nel prezzo che non sai bene se accettarlo o declinarlo con il sorriso. Il classico fuori programma inatteso.
«È forse la tua donna?» domandò Sullivan, il tono meno spavaldo e lo sguardo preoccupato.
«No... ma questo non mi vieta di venirle in soccorso.»
C'era tensione nell'aria. Era palpabile, quasi fisica, si aggirava tra la folla e mieteva vittime. Ogni tanto qualcuno indietreggiava, qualcuno rinfoderava il coltello, qualcuno si avvicinava alle porte d'uscita. L'arrivo del Re dei Teschi aveva portato con sé una ventata di paura. Lui stesso la trasudava. Era un po' come se dal suo corpo si estendesse un'onda invisibile, che metteva i brividi, che faceva accapponare la pelle e scoraggiava i presenti. Se non fossi stata certa che fosse venuto per me, io stessa ne sarei stata preda.
«Che... che cosa vuoi, eh?» berciò Sullivan, il viso imperlato di sudore. Improvvisamente sembrava aver preso coscienza della gravità della situazione. «Non puoi pensare di venire qui e fare i tuoi comodi. Io ho un accordo con... lui vuole che... che...» Si passò il braccio sulla fronte, sempre più pallido. Sapevo bene cosa gli passava nella mente in quel frangente. Che gli avrebbe fatto Joker qualora non fosse riuscito a piegarmi come voleva? Lo avrebbe ammazzato? Avvelenato? Gli avrebbe creato con un coltello quel pittoresco sorriso che tanto amava copiare dal vero Joker di Batman? A mettersi in affari con i matti si finisce per finire travolti dalla loro pazzia. «Veniamoci incontro, Re. Facciamo un accordo...»
«Un accordo, dici? In realtà l'idea è questa: la ragazza e il suo amico vengono via con me. Fine.»
«Altrimenti? Che fai? Ci scateni addosso la tua banda?» latrò, lo sguardo stralunato e assente.
«Bé, sono solo come vedi... ma in fondo, per voi... basto io.» Con un colpetto dello stivale mise il cavalletto e scese dalla moto. E vederlo in piedi fu come ricevere una scossa elettrica in tutto il corpo. Il cuore mi fece una capriola in petto e trattenni il fiato. Era indescrivibile la sensazione di potere, di autorità e controllo che trasudava. Semplicemente così, stando in piedi accanto alla moto. Sembrava che nulla potesse scalfirlo, che nulla potesse intaccare quella solida compostezza. «Non scomodo i miei uomini per una banda di pivelli.»
Sullivan accusò il colpo con un ringhio. Tra le mani tremanti ancora stringeva la videocamera. Entro la fine di quella giornata gliel'avrei fatta ingoiare. «Pivelli? Guardaci! Siamo oltre la cinquantina... sicuro che vuoi davvero batterli tutti?»
Ha ragione. Sono troppi.
Sono troppi anche se siamo in due. Anche se Lattner sembra 'sto Gran Cazzo sceso in terra!
Il motociclista si passò una mano sul collo, piegando la testa di lato. «Oh, credimi... non avrò bisogno nemmeno di togliere il casco.» Si scrocchiò le dita e sul ritaglio di viso libero dai vari ingombri spuntò un sorriso ferino che mi costrinse a deglutire. Era bravo a mettere paura. Lasciò vagare lo sguardo nel magazzino, sembrò guardare quei delinquenti uno ad uno. E poi sorrise ancora. «Avanti! Chi vuole giocare con me?» Divaricò le gambe e rimase in attesa. Nessuno si mosse.
Poi d'un tratto, un trambusto di voci squarciò il silenzio e molti di loro si agitarono sul posto. Ero certa che ci avrebbero attaccati tutti insieme, invece, con mio sgomento, fissai la calca di gente che sgomitando usciva dal portone. Le grida furiose di Sullivan annegarono nel mare di imprecazioni generali. La gente usciva, di fretta, con un bagliore nello sguardo come se avessero appena visto il diavolo in persona.
Ma porca...
Stanno scappando! Stanno davvero scappando!
«Cosa?» gridò il misterioso - bé... non più tanto misterioso - motociclista. «Ehi! Stronzi! Davvero nessuno vuole sfidarmi?» Sembrava perplesso quanto me. Fino ad un attimo prima avevo cinquanta persone addosso che mi menavano e ora, col suo semplice arrivo, si erano dimezzati.
Quando si voltò verso di me lo misi a tacere alzando una mano. «Non dire niente.»
Ghignò. «Perché?»
«Te la stai tirando troppo, Mr.Teschio.» Odiavo il modo in cui riusciva a far sembrare ogni cosa semplice. Anche se la sua sicurezza era un notevole sprone per dare il meglio di me. Lattner aveva questo potere, la capacità di farmi salire il desiderio di rivalsa, di evoluzione. Lui riusciva a farmi desiderare una Robin migliore, migliore in tutto.
Scrollò le spalle. «Non è colpa mia se incuto timore.»
«Bé, per una volta tanto la tua entrata ad effetto almeno è servita a qualcosa.»
Mi afferrò il viso, girandolo verso il suo e il sorrisetto malizioso che spuntò sulle sue labbra mi fece rimpiangere di non aver taciuto. «Non sprecare fiato con queste frecciatine, ragazzina. Conservalo per dopo, quando saremo soli... e dovrai ringraziarmi più e più volte.»
Deglutii. Era un'allusione sessuale? O solo una stupida battuta sul fatto che non fossi avvezza ai ringraziamenti? Sentii il viso andare a fuoco e mi tirai indietro con uno strattone. Girai lo sguardo altrove e focalizzai ogni pensiero sui restanti delinquenti. Dovevo rimanere concentrata. Soprattutto in una situazione come quella.
«Bene, direi che qualche temerario è rimasto.»
Gli uomini restanti non sembravano scoraggiati per essere d'un tratto calati drasticamente. La mole di gente che se n'era andata probabilmente aveva compreso che inimicarsi il capo degli Skulls non era l'idea migliore; gli altri, forse più stupidi, erano rimasti.
Mentre si muovevano attorno a noi creando un cerchio da cui non saremmo usciti senza lottare, indietreggiai fino a trovarmi con la schiena contro quella del motociclista.
«Trentadue. Non sono tanti. Credi di potercela fare, ragazzina?» Nella sua voce, non c'era più l'inflessione scherzosa di un attimo prima. Era improvvisamente calato il gelo nel suo tono e forse ora capivo cosa lo distingueva da molti altri capi: quando si faceva sul serio, lui sapeva diventarlo mortalmente.
«Ti sembra che non ce la faccio?» biasciai a denti stretti. Non volevo pensasse fossi già alle strette. Volevo dimostrargli di essere all'altezza del mio nome e forse, dimostrargli anche di essere in grado di camminare al suo fianco.
Dio! È così svenevole questo pensiero, Rob! Soprattutto ora!
Mi morsi la lingua e mi maledii.
«Ne hai buttati giù parecchi e sei stata pestata a sangue... vorrei solo che evitassi di esagerare. Ora ci sono io. Non sei più sola.»
Annuii e buttai fuori uno sbuffo d'aria. Con la coda dell'occhio continuai a guardare i movimenti degli uomini davanti a me, tutt'attorno. Gli parlai senza voltarmi, badando bene a non staccare lo sguardo. «Senti... ecco... per tutto questo, ecco... grazie.»
Le sue dita raggiunsero le mie, si intrecciarono e mi strinse la mano. «Non stiamo morendo, Robin» mi rassicurò, serrando la stretta. «Non credere alle minacce di quel bamboccio... io non lo permetterò.»
Anche se aveva i guanti, anche se la sua stretta era solo il gentile conforto di qualcuno che ti vede spaventato; apprezzai ogni istante di quel tocco. La convinzione e il fervore di quelle parole sembrarono attraversare il tessuto dei guanti e infondermi un calore che forse non aveva niente a che vedere con la vera temperatura. «Ho un favore da chiederti» dissi d'un tratto.
«Sei sfacciata, eh?» ironizzò, lasciando la presa sulla mia mano. Sentivo la sua schiena premuta alla mia, ma ora che le nostre dita non erano più intrecciate faceva freddo. «Sentiamo.»
«Takeru! Il mio amico! Lo hanno portato qui per colpa mia... è ferito... lui...» Sapevo che forse quello che gli stavo chiedendo era troppo ma non potevo fare diversamente. Non quando di mezzo c'era la vita di Takeru. «Lui deve aver la priorità su tutto.»
Mi diede uno strattone costringendo a voltarmi, incurante della situazione in cui ci trovavamo. «La mia priorità sei tu, ragazzina.»
«No! Affatto! Anzi, ti... ti prego. Io non voglio... non posso permettere che gli succeda qualcosa.»
«Va bene» si limitò a dire. «Sta tranquilla. Salveremo il tuo amico.»
«Grazie. Davvero. Grazie.» Era tutto ciò che potevo fare ora. Ringraziare e sperare che quell'incubo finisse presto.
Schiuse le labbra per dire altro ma il grido di qualche disperato che si lanciava verso di noi troncò la nostra discussione. Mi spostai di lato con un balzo e lui afferrò il delinquente per un braccio, scaraventandolo per terra. Con un rapido movimento sollevò la gamba e calò il tacco dello stivale proprio nello sterno. Il ceffo sobbalzò sul posto e gli occhi gli si riversarono indietro. Un K.O. istantaneo.
«Trentuno» borbottò, afferrandomi per un polso e tirandomi dietro di sé proprio mentre uno scagnozzo tentava di colpirmi con un bastone. Non ebbi nemmeno il tempo di difendermi perché lui parò il legno con un calcio e sempre usando lo stesso piede eseguì un low kick eccezionale, uno di quei calci bassi circolari che riescono a mandarti con le gambe all'aria. L'uomo cadde a terra e battendo la testa perse conoscenza. «Trenta.»
«Certo che... conti bene, eh.»
Rise. «Con una certa professionalità, effettivamente.»
Venne da ridere anche a me e fui costretta a girarmi per non mostrargli che sapevo più di quanto avrei dovuto sapere. Battute su calcoli e quant'altro andavano bandite dalle nostre chiacchierate vista la sua vera identità.
«E ora, guarda e impara, ragazzina.» Si staccò da me, avanzò di qualche passo e con la punta del piede diede un colpetto al bastone che stava in terra. Il legno schizzò in aria come se fosse un pallone da calcio e lui lo afferrò al volo. Stringendolo con entrambe le mani lo colpì al centro col ginocchio, il bastone si ruppe creando due metà perfette. E quel rumore sordo di legno rotto sembrò il fischio d'inizio dell'intera partita. I delinquenti scattarono in avanti, tutti insieme. Meno di prima, meno sicuri. Qualcosa era cambiato, il Re dei teschi era lì. E questa volta non ero sola.
Una giravolta. Il ruotare perfetto dei due bastoni. Lo schiocco del doppio colpo che si infrangeva sui primi delinquenti a tiro. L'impatto dei due corpi sul suolo e lui statuario, come se non si fosse gettato nella mischia, come se ogni suo colpo non buttasse giù un delinquente dopo l'altro. E così, lo rimasi a guardare per davvero. Come mi aveva ordinato. Non potevo far altro che restare in disparte e guardare, ammirare con ammirazione, imparare e pregare.
Mi dava la schiena ma sembrava tenere sott'occhio tutto il magazzino. «Ventotto» biascicò e quando si avvicinò l'ennesimo uomo lo colpì al viso con un calcio circolare, facendo un arco in aria con la gamba. «Ventisette» riprese, guardandolo mentre crollava.
Un tizio mi si fece sotto, avanzò veloce e colpì a vuoto con una scarica di pugni. Mi abbassai in tempo per evitare quella raffica e usai la spalla per caricarlo. Un colpo dritto allo sterno e andò a tappeto. Rotolò di lato e si rimise in piedi con un salto ma il Re dei Teschi fu più veloce, gli piazzò una bastonata alle gambe e lo mandò ancora una volta a terra. Instancabile. La lotta sembrava non scalfirlo. Non lo sentivo nemmeno ansimare.
«Ventisei. Ti apro un varco.»
«Per cosa?» chiesi, col fiatone. Schivai un colpo di un coltello e afferrando il braccio del teppista davanti a me lo tirai avanti. Il motociclista usò il mio slancio per conficcargli una ginocchiata sul setto nasale. Il naso esplose in uno spruzzo di sangue e il teppista crollò a terra con le mani premute sul viso.
«Venticinque.» Slittò indietro e un uomo rotolò da solo in terra, nel vano tentativo di colpirci. «Per lui» mi rispose, indicando con il bastone il soppalco e Sullivan. Sulle labbra gli spuntò un sorrisetto crudele. «Immagino che lui sia tuo.»
Oh, sì. Immagini bene, Mr.Teschio.
Sorrisi. «Credi di potercela fare da solo?» Una domanda davvero sciocca.
Un uomo gli sferrò un pugno e lui lasciò cadere il bastone un attimo prima dell'impatto, un attimo prima di bloccargli la mano. Strinse la presa e le dita dell'avversario scricchiolarono come legnetti secchi; l'uomo si agitò e gridò. Lo afferrò per un braccio e ruotando il corpo glielo torse dietro la schiena. Il rumore dell'osso che si spezza schioccò come un colpo di frusta. Lo lasciò andare e mentre si afflosciava si voltò in mia direzione. «Ventiquattro. Tu che dici?» Riprese il bastone e si passò il pollice sul lato delle labbra.
Non si era minimamente scomposto. Non c'era accenno d'esitazione o paura. non sembrava affatto intaccato dalla mole di gente che ci stava attorno. E questo faceva paura. Una parte di me vedeva quello scenario e pensava che forse, se questo non lo spaventava, era abituato a molto peggio. E fin dove poteva spingersi il suo peggio? Rabbrividii.
«Stammi dietro.»
Feci come aveva detto. Mi piazzai alle sue spalle mentre menava fendenti a destra e a manca, mentre quegli uomini che un attimo prima erano riusciti a sopraffarmi cadevano come mosche.
«Quindici» lo sentii bisbigliare. Teneva il conto da solo, mentre avanzavamo.
In realtà, stava facendo tutto da solo. E forse gli ero quasi d'intralcio.
Non voglio essere questo.
Non voglio essere un peso per lui.
Volevo essere sua pari. Essere in grado di stare al suo fianco. Essere degna della sua fiducia. Capace di poter essere una spalla su cui poggiarsi quando ve n'era necessità.
«Robin!» Con un braccio mi circondò la vita e balzò di lato schivando il fendente di un coltello, colpì con una gomitata il viso di qualcuno e spingendomi di nuovo dietro di sé usò il bastone per parare dei colpi.
Dannazione! Mi sono distratta.
Forse non sarei mai potuta essere sua pari. A differenza mia, lui conosceva i propri limiti e non si spingeva mai in situazioni che non avrebbe potuto risolvere. Io ero impulsiva, preda delle mie emozioni. Facevo le cose senza pensare. Agivo prima di valutare i pro e i contro. E mi distraevo.
Il tempo lì a Detroit mi aveva fatto perdere lo smalto, sì; ma forse al suo livello non ci ero mai stata.
Lui non faceva lo sbruffone tanto per parlare, lui sapeva quello che faceva, conosceva le proprie potenzialità. Io, invece, ancora dovevo conoscerle. E forse, il reset che avevo dato alla vecchia Robin non era stata la scelta giusta. Forse io non dovevo resettare la vecchia me, forse dovevo solo farla evolvere, potenziarla.
«Ehi, ragazzina... tocca a te ora.» Mi diede una gomitata e quando mi voltai fui faccia a faccia con il soppalco. Eravamo lì sotto. E ci eravamo arrivati per merito suo. «Ammazzalo di botte anche da parte mia» bisbigliò contro il mio orecchio, spingendo indietro alcuni tizi e lasciandomi abbastanza spazio per salire.
Quando mi issai sul soppalco c'era solo Sullivan e Takeru in un angolo, privo di sensi. Era rimasto solo. Sul suo volto era svanita l'espressione goliardica, sostituita da una viva preoccupazione. Stringeva ancora la videocamera ma sembrava più propenso a darsi alla fuga. Estrasse dalla tasca un coltello e lasciò scattare la lama. «Ti consiglio di non avvicinarti o questo giapponese farà una brutta fine.» Corse vicino a Takeru, afferrandogli il viso e puntandogli il coltello contro il pomo d'adamo. Sembrava con l'acqua alla gola. Non sapeva più cosa inventare per uscire da quel posto sulle sue gambe. «Arrenditi, O'Neil. Arrenditi se non vuoi che il tuo amichetto crepi con uno squarcio sulla gola.» Rise. «Non lo hai capito ormai? Non sei nessuno a confronto di Joker. Sei perfino l'ombra della vecchia te.»
E su questo aveva ragione. Mi ero persa. E invece di fortificarmi mi ero indebolita.
La nuova Robin non doveva essere il fantoccio di una ragazzina modello, doveva essere la trasformazione 2.0 della vecchia Scorpion Queen.
«Guardati! Non sei più niente. Sei una fallita. Sei l'involucro della vecchia Scorpion Queen. Sei diventata una codarda, inutile, debole. Una puttana che non sa più qual è il proprio posto al mondo» continuò lui, notando che mi ero fermata, riacquistando quel briciolo di speranza che lo aveva lasciato. «Ma sei ancora in tempo per arrenderti. Sei ancora in tempo per chiedere perdono... per prostrarti a me, a Joker... per diventare la sua troietta da compagnia.»
Strinsi i pugni. Un tremore mi scosse da cima a fondo. La storia sembrava ripetersi. Come anni prima. Come con Francine. Di nuovo di fronte a una scelta. E solo io potevo farla.
«Non farti riempire la testa da queste puttanate. Sei solo fuori forma, ragazzina» tuonò la voce del motociclista, mentre mandava a tappeto l'ennesimo uomo. «Tu sai chi sei, Robin! Tu lo sai!»
"Tu sai chi sei"
"Tu sai chi sei"
"Tu sai chi sei"
Quelle parole mi tagliarono in due il cervello. Fu come un raggio di sole puntato in un angolo buio della mia mente, come un pugno che fa male ma schiarisce le idee.
Ha ragione. Io so chi sono.
Io sono Scorpion Queen. Sempre. Anche quando sono in pensione.
Socchiusi gli occhi e sospirai. Quando tornai a guardare Sullivan, sorridevo. «Sappi che questa volta, ti spaccherò molto più del naso.»
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