29 - UN FINE SERATA ALTERNATIVO

Il mio umore era così alto quella sera che mi spostavo tra i tavoli del Joily come una perfetta equilibrista, giostrandomi tra pile di piatti sporchi e portate da portare. E scusate il gioco di parole.

Ad ogni modo, ero felice.

Felice per aver parlato con Takeru. Felice per aver riallacciato un rapporto che credevo ormai rovinato. Felice per aver compreso i suoi timori e aver avuto modo di rassicurarlo; entro i limiti delle mie carenze affettive, ovviamente.

«Sei raggiante, O'Neil.» Nate afferrò il piatto caldo che gli stava allungando il cuoco e mi passò vicino evitando una collisione all'ultimo secondo. «C'entra quel tuo amico "poco amico" professore barra coinquilino?» Nella domanda percepivo la solita insolenza e il solito pizzico di gelosia mal celato. Non era un tipo bravo a fingere.

«No. In realtà non c'entra niente questa volta.» Mi allungai a prendere due primi. «Sai, Nate... il mio mondo non gira tutto intorno a Lattner.»

Sbuffò una risata. «Strano. Ti ho vista con questa faccia trasognante solo quando si tratta di lui.»

Non potei fare a meno di fulminarlo con lo sguardo. Era irritante questo suo continuo punzecchiare. Inoltre, non faceva che perdere punti ai miei occhi continuando a mantenere questo comportamento trasudante gelosia. Non eravamo sposati, fidanzati e ultimamente nemmeno potevamo definirci amici, visto la piega che stava prendendo il nostro rapporto. «In realtà ho riallacciato una amicizia che credevo perduta. Avevo pesantemente litigato con il mio migliore amico ma siamo riusciti a risolvere i nostri problemi.» Non gli dovevo alcuna spiegazione, eppure, ero così euforica che non riuscivo a tener la bocca chiusa. Mi andava di dirlo al mondo intero, sì. Io e Takeru avevamo fatto pace. E fanculo a tutti gli altri.

Nate mi fissò di sbieco, inarcando un sopracciglio. «Quel coreano?»

«È giapponese» precisai.

«Stessa cosa. Tanto son tutti uguali. Stessa faccia, stessi occhi e stessi capelli.»

La vena sul collo mi pulsò terribilmente. «Caro mio, proprio no.» Si vede che non aveva mai incontrato un coreano. D'altronde nemmeno io. Ma ammetto di aver avuto sordidi pensieri a riguardo dopo esser caduta nelle grinfie dei kdrama e del kpop. D'altra parte, avrete capito che ho una predilezione per gli orientali e l'Oriente in generale, no? Detto questo, insomma, la differenza era palese. «Comunque lui, sì. Abbiamo fatto pace» liquidai la cosa. Non mi sarei certo messa a discutere sulle differenze continentali tra cinesi, giapponesi e coreani proprio con lui.

«Credo sia l'unico dei tuoi amici a starmi simpatico.»

E chi se ne frega?

«Ma se non l'hai nemmeno mai visto» borbottai, mordendomi subito dopo la lingua. Me ne sarei dovuta stare zitta. Sapevo già dove saremmo finiti a parare.

«Sì, bé... quelli che ho visto non hanno conquistato il mio cuore» sibilò, tagliente. Roteai gli occhi, lasciandomi sfuggire un sospiro. Era ridondante. Insomma, avevo capito che Lattner, Ramones e Mr.Motociclista si erano guadagnati la sua totale antipatia e disapprovazione. Non c'era bisogno di ricordarmelo ogni secondo del tempo che passavamo insieme.

«Allora un giorno te lo presenterò.» Gli rivolsi un sorriso smagliante e così falso da deformarmi il viso e mi accinsi a portare al tavolo il mio ordine di primi. Non volevo restare un altro minuto in più con Nate, a parlare di come i miei amici fossero o meno gente raccomandabile; perché ero certa che saremmo arrivati a parlare di quello. Ne ero sicura.

Percorsi il corridoio che separava la cucina dalla sala e con la coda dell'occhio mi assicurai che non mi seguisse. I nostri battibecchi si erano intensificati da quando Mr.Teschio aveva fatto la sua comparsa trascinandomi via in modo plateale. La presenza di Nate era diventata pesante. Ad ogni turno si finiva per litigare o lanciarci frecciatine crudeli.

Se non avessi avuto la necessità di quel lavoro, forse mi sarei già licenziata. Avevo perfino provato a proporgli di tornare ai vecchi orari, con lui al turno di mezzogiorno e io e Olive la sera. Solo che Nate sembrava essersi aggrappato alla convinzione che la sua presenza fosse per me necessaria. Sospirai.

«Ecco qua le vostre portate.» Posai i primi davanti ai rispettivi clienti e passai al tavolo accanto raccogliendo i piatti ormai vuoti dei dolci. «Avete mangiato bene?» domandai a una coppia che stava andando verso la cassa. Mi avevano lasciato sul tavolo una buona mancia, quindi la serata doveva essergli andata bene.

«Sì, grazie mille» rispose la giovane. Era raggiante. Ogni volta che un cliente andava via felice mi sentivo soddisfatta del mio lavoro. «E il servizio è stato impeccabile» aggiunse, con un sorriso.

Chinai brevemente la testa, imbarazzata, e tornai a occuparmi dei miei piatti sporchi. Nonostante tutto, la serata stava andando meglio del previsto e i miei sorrisi, per una volta sinceri, erano riusciti a fruttarmi perfino una considerevole dose di mance. Quella sera, al ritorno, avrei preso da bere. Una birra per me e per Lattner per festeggiare. Cosa non lo sapevo bene. Avevo solo necessità di esser felice una volta tanto. E trascinarlo nelle mie stranezze.

Impilai i piatti sporchi uno sull'altro e mi girai pronta per l'ennesimo viaggio in cucina. Sarebbe stato uno degli ultimi, visto che il Joily ormai era quasi totalmente svuotato.

Il rumore di una sedia che si trascina preannunciò l'imminente catastrofe. E giuro che tentai il tutto per tutto pur di evitare la collisione; purtroppo, però, incastrata tra due tavoli, non potei far altro che stringere i piatti al petto quando la spalla del cliente mi colpì di botto, senza preavviso. Barcollai indietro e la mia mente trovò tempo perfino di pensare a un'imprecazione degna di nota.

«Oh, cielo!» lo sentii esclamare, sorpreso e turbato. Subito allungò le mani per aiutarmi a non far cadere la pila. «Mi dispiace, signorina. Mi dispiace tantissimo.» Era mortificato tanto quanto me.

Dispiaceva più a me, visto la macchia di unto che mi ero creata sulla divisa in prossimità del seno. Anche se da una parte però ero sollevata che lui non si fosse sporcato. «Oh, non - non si preoccupi. È colpa mia. Dovevo stare più attenta.» Avrei dovuto prevederlo. I camerieri devon avere occhi perfino sulla nuca.

Il cliente sorrise. Era un giovane uomo, dall'aspetto molto affascinante. Un cliente abituale e molto educato. Lo avevo sempre servito io ed era sempre stato molto generoso di mance e complimenti. Uno di quei pochi clienti che quando vedi arrivare ti strappa sempre un sospiro di sollievo. «Direi che abbiamo avuto entrambi un pessimo tempismo» disse, elargendomi un altro sorriso gentile. Avrebbe potuto arrabbiarsi, invece, stava lì ad aiutarmi e a rassicurarmi. Erano rari i clienti come lui.

«Temo proprio di sì» borbottai, chinando il capo. Avrei voluto seppellirmi. Lui era l'ultima persona che avrei voluto coinvolgere in un simile disastro.

Aveva gli occhi di due colori differenti. Uno grigio ghiaccio e uno marrone, quasi nero. Gli conferivano un'aria suggestiva, un tocco eccentrico, sebbene l'eterocromia non fosse più così rara. Riuscivano a mettermi un po' in soggezione pur non guardandomi in nessun modo particolare.

«Si è fatta male?» chiese, indietreggiando senza staccare le mani dai piatti. Mi aiutò a ridare loro equilibrio. «Nessun taglio, spero.»

Scossi il capo. «No, no... tutto a posto. Lei?» Anche lui scosse il capo e la massa riccia di capelli biondi ondeggiò carezzandogli il bordo degli zigomi. Gli occhi mi caddero sulla cicatrice. Era lunga e imbrattava il bel viso, macchiandone il candore. Scivolava da uno zigomo lungo la guancia e il collo. Era paragonabile a uno sfregio fatto su un'opera d'arte. Lo invecchiava di dieci anni e anche quando sorrideva lo faceva sembrare minaccioso. Un vero peccato. «Dovrei... ecco, dovrei... offrirle un dolce. Per farmi perdonare, ovviamente.»

L'uomo sorrise e fece cenno ai due colleghi con cui veniva sempre al Joily. Erano vestiti di tutto punto, sembravano avvocati. O magari dei giudici. I due si alzarono pronti a seguirlo. «Sono spiacente ma devo rifiutare l'offerta... odio i dolci.» Mi rivolse una smorfia simpatica e allungandosi verso il giacchetto fui investita dal suo profumo di colonia. Buono. Fresco. Inspirai a fondo dimenticando per un attimo l'educazione. Lui parve accorgersene perché gli angoli delle labbra si incurvarono debolmente all'insù.

«Allora mi permetta di farle uno sconto sulla cena. Per il disturbo...»

Scrollò con enfasi la mano. «No, no... si figuri. Dovrei essere io a darle una mancia più grossa, visto il danno.» Mi guardò il seno, la macchia. Con la coda dell'occhio sbirciai le due banconote sul tavolo. Con le sue mance pagavo l'intero affitto.

«Oh, si figuri. Son incidenti del mestiere.» Parlai in fretta, agitata. Preoccupata all'idea che mettesse davvero altri soldi.

Annuì e facendo un breve inchino fece qualche passo indietro. «Allora la saluto. Alla prossima cena.» I due uomini lo seguirono verso la cassa e dopo quest'ultima gaffe il mio turno terminò in tranquillità.

Nemmeno le costanti pressioni di Nate scalfirono gli ultimi istanti dentro il Joily. Mi defilai prima ancora che potesse intercettarmi dagli spogliatoi. Pagai due birre e uscii di fretta, senza guardarmi dietro.

La strada del ritorno si trasformò nella solita noiosa routine. Tanto che la tentazione di aprirmi una birra e berla strada facendo fu così forte che dovetti ricordarmi più volte il motivo per cui le avevo prese. Mi sarei ubriacata con Lattner. E chissà, magari si sarebbe un po' sciolto...

Sogna, Robin! Sogna pure!

Mentre mi dirigevo verso casa, con la testa persa nei pensieri, un pizzicore alla nuca mi fece rallentare la camminata e guardare attorno circospetta. Sentivo degli occhi puntati addosso. Osservata. Era una sensazione spiacevole e strana. Non mi sentivo sola in quelle stradine poco illuminate. E a volte la solitudine è meglio della compagnia.

Strinsi il collo delle bottiglie e aumentai il passo. L'altra mano serrata attorno alla tracolla dello zaino, pronta a trasformarlo in un'arma dopo aver spaccato le bottiglie in testa al primo che si fosse avvicinato. Ero paranoica? Sì, forse. O forse solo troppo abituata alla merda presente in questo mondo.

Una risata, cupa e lontana, mi raggiunse mettendomi i brividi. Sembrava la colonna sonora perfetta per quel percorso disseminato di ombre. Trassi un profondo respiro, cercando di calmare i pensieri e le inquietudini. «Vieni fuori se hai coraggio» gridai al nulla. Ma non sbucò nessuno e arrivai sotto l'edificio senza intoppi.

Trassi un sospiro di sollievo, lo ammetto. Gli scalini della rampa non mi sembrarono mai così allettanti come quella sera. Li feci a due a due, raggiungendo il pianerottolo e sfilando nel corridoio. Stavo estraendo le chiavi di casa quando mi bloccai di colpo. Proprio davanti alla porta dell'appartamento di Märten. E mi tornò in mente quello che avevo pensato parlando quel giorno con Takeru: io sapevo bene a chi chiedere informazioni su Samuel. Ce lo avevo proprio come vicino di casa, no?

E così, bussai. Impaziente. Tesa. E preoccupata per come avrebbe potuto reagire.

La porta mi venne aperta poco dopo, rivelando un Märten bello come sempre, e assonnato. I capelli biondi erano arruffati tanto da conferirgli un'aria da ragazzino e al tempo stesso un'aura di puro erotismo. Forse era dovuto anche a ciò che indossava. Portava solo i pantaloni di una tuta, rivelando i piercing ai capezzoli e un tatuaggio di teschio, identico a quello di Takeru, che partendo da un fianco gli risaliva lo sterno fin sotto l'ascella. I muscoli scolpiti dell'addome continuavano a oscillarmi davanti agli occhi come se in qualche modo volessero esser al centro dell'attenzione. O magari esser toccati. O magari... sì, be'... immaginate.

Insomma, probabilmente se fossi andata lì con altre intenzioni, lo avrei trovato un ottimo inizio serata. Decisamente ottimo, sì.

«Ehi, Spaccaossa... che ne dici di una chiacchierata?» Sollevai le due birre e lui rispose alla mia offerta con un ghigno.

«Sicura di voler entrare di tua spontanea volontà nella tana del lupo?» mi chiese e il sorriso gli divenne più ampio e malizioso. Si passò la lingua sulla fila di denti bianchissimi e inarcò il sopracciglio, ammiccando.

Se fosse stata un'altra occasione forse avrei approfittato della battuta per flirtare con leggerezza ma in quel momento non ero in vena di scherzi, né di leggerezza. E lui lo capì immediatamente, perché si fece subito serio. «Per le cose che voglio sapere la soglia di una porta non è sicura.»

Calò un silenzio affilato, capace di esser tagliato a fette. Annuì impercettibilmente e aprì con uno scatto la porta poi con un cenno del capo mi fece segno di entrare.

Bene. Avremmo parlato.

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