26 - BENVENUTO A CASA LATTNER

«Vega?» gridò, furioso. «Sto sognando o hai davvero appena detto che verrà qui Vega? Ramones Vega?» Lattner si aggirava per la sala con lo sguardo spiritato e la camminata frettolosa, macinando metri su metri in pochi attimi. Avanti e indietro. Agitando le braccia e ravviandosi i capelli.

«E quindi? Che problema c'è?» Gli avevo appena detto che Ramones sarebbe venuto a casa nostra e non l'aveva presa molto bene. Per nulla.

Si bloccò di colpo rifilandomi una delle sue occhiate corrosive. «Che problema c'è, mi chiedi?» Il suo tono si era alzato a tal punto da risultare stridulo. La cosa mi avrebbe fatto ridere se solo non avesse avuto un'espressione tanto spaventosa. «Che problemi hai tu, semmai!» Non usava nemmeno il "ragazzina", era decisamente arrabbiato. Riprese a camminare su e giù. La sua indisposizione si estendeva come lingue di fuoco, pronta ad abbattersi su ogni cosa, me compresa.

Sbuffai. «Senti, Thomas... non c'è nulla di cui preoccuparsi! Mi fido ciecamente di Ramones.»

«Io no. Proprio zero» ribatté, piccato. «Mi ha reso la vita un inferno da quando si è trasferito al Missan. Possibile che tra tutti quelli che potevi portarti qui in casa ti sei voluta portare proprio quelloQuello. Lo disse con un tono così sprezzante che per poco non gli lanciai la prima cosa a tiro.

«Quello, come lo chiami tu... è mio amico.»

«Amico un cazzo!» S'impuntò le mani sui fianchi, fissandomi torvo. «Pensi davvero che mi beva la storia del "siamo solo amici"? Siete ex. Gli ex non sono mai amici. Mai.»

«Lo dici per esperienza personale con la Wood?» lo rimbeccai.

«Già. E infatti, io e lei, non siamo amici... anzi, più mi sta alla larga, meglio sto.»

Davvero, non capivo. Qual era il suo problema? Ora avevo il divieto di portarmi a casa anche persone fidate? Tra l'altro era lui quello attorniato da gente problematica come la Wood o quella pazza di Lexie. «Senti, avevi detto che potevo portarmi a casa degli amici, no? Ecco! L'ho fatto. Sorpresa!» Agitai le mani in modo plateale come se Ramones dovesse di punto in bianco spuntare dallo scatolone che mi aveva appena recapitato il corriere, quello con tutta la roba di Lin e che ancora tenevo sulle ginocchia.

«Avevo detto gente come Ogawa. Non un fottuto Ramones Vega che non riesce a tenersi l'uccello nei pantaloni.» Non so perché ma la parola uccello, detta da lui, mi fece avvampare. Insomma, non era da Lattner. Era qualcosa più da Re dei Teschi, non dal Mr.Lattner tutto calmo e controllato, tutto simpaticone e dispettoso. Quando si accorse che ero arrossita, mi segnò con sdegno. «Vedi? E l'idea ti piace pure!»

E come sempre... capisci quello che pare a te!

«Ma che cazzo stai dicendo?» sbottai, di colpo, sentendo di dovermi difendere. «Guarda che non sono io quella con l'ex psicopatica che mi teneva sotto minacce... o quella con l'amichetta d'infanzia che mi ha iniziato a insultare appena messo piede in casa, eh!» Fu sopraffatto dalla mia rabbia velenosa, preso in contropiede. Tanto che nemmeno ribatté. La verità brucia. «Tutta la gente che hai portato qua dentro ha dei problemi che andrebbero sistemati con qualche seduta da un bravo psicologo... e tu, vieni a dire a me che non posso chiamare un mio amico ad aprire lo scatolone dei ricordi di mia nonna? Oh, fanculo piccolo!» Il mio "piccolo" canzonò il modo che usava per chiamare Lexie e uscì come la stoccata finale di un film. Quella che mettono addirittura dopo i titoli di coda, quando stai già per lasciare la sala del cinema.

Incrociai le braccia sullo scatolone, pronta a una sua sfuriata. Sapevo che i nostri litigi potevano durare giorni, se solo lo avessimo voluto. Lattner era quel tipo di persona che cercava di far valere le proprie idee fino all'ultimo, senza mai indietreggiare. E io sotto quel punto di vista gli ero simile. Era uno scontro tra titani, ogni volta; ma sarei una bugiarda se dicessi che è una parte di lui che non amo.

«Hai ragione» disse d'un tratto, cogliendomi totalmente alla sprovvista. Chinò il capo e sembrò mortificato. E io mi sentii strana. Non ero abituata a sentirmi dare ragione così in fretta, senza nemmeno un paio di strilli lanciati a vicenda o dei vaffanculo ben assestati. «Non dovrei permettermi di farti questa scenata di gelosia.» Si passò una mano nei capelli e lo chignon si allentò, lasciando sfuggire qualche ciocca che gli ricadde sul viso. Sospirò.

Gelosia. Ha detto gelosia?

Sta per caso ammettendo di essere geloso? Oddio...

Ero pietrificata. Il calore mi risalì velocemente collo e viso. Cercai subito di mascherare l'imbarazzo con profondi respiri. Sentivo la pelle formicolare, come se improvvisamente mi fossi strofinata addosso una manciata di erba urticante.

Calma. Sta' calma.

Avanzò di qualche passo e d'impulso strinsi lo scatolone di Lin così tanto che sentii il cartone cedere sotto la pressione delle mie dita. Lo posai sul divano, cercando di darmi un contegno. Quando si mostrava tanto sicuro di sé sentivo affiorare tutte le insicurezze riguardanti la nostra bizzarra situazione. Sapeva rendermi fragile ed esposta. Ed è una condizione che ho sempre odiato nella mia vita perché essere fragili rischia di farti rompere più facilmente e io, mi ero rotta già così tante volte che rimettermi insieme diventava sempre più difficile.

«Vorrei e dovrei essere più bravo a controllarmi ma... a quanto pare... non ci riesco.» Si piegò sulle ginocchia, alla mia altezza, e dovetti far ricorso a ogni briciolo di autocontrollo per non alzarmi e mettere distanza tra noi. Sentivo il cuore pulsare così forte che sembrava estendersi ad ogni angolo del mio corpo. «Mi dispiace.» Cercò i miei occhi, mentre io tentavo di tutto per evitare i suoi. In quella frase ce n'erano molte altre sottintese. Allusioni che facevano paura perché davano una speranza ancor più spaventosa. C'era un messaggio non detto, lo si percepiva, e potevo sentire anche il peso di qualcos'altro.

«In che... cioè... gelo - gelosia, dici? Cosa stai cercando di dirmi?» Ci volle un po' prima che le parole mi uscissero, soffocate dalla tensione, basse e quasi inudibili. Ma lui sembrò sentirmi.

Distolse lo sguardo e si passò una mano sulla mandibola, massaggiandola con poca gentilezza. «Penso di... ecco, sì... potrebbe essere che io...» Digrignò i denti e sibilò. Quando voltandosi notò che lo fissavo intensamente e in muta attesa, si lasciò sfuggire un grugnito e le gote gli si arrossarono. Puntellò i gomiti sulle ginocchia. «Sto cercando le parole giuste per non fregarmi da solo.»

«Fregarti? In che senso?»

Mi tappò la bocca con due dita. «Zitta e lasciami pensare a qualcosa che non sia troppo compromettente.» Cercai di divincolarmi ma sostituì le dita con l'intera mano. Bocca chiusa, insomma; zero possibilità di ribattere. Sgranai gli occhi inviandogli un messaggio più che eloquente. Qualcosa tipo "lasciami subito o ti massacro di botte". Solo che non funzionò. «Sì, ci sono.» Si illuminò. E mollò la presa. «Allora, diciamo che sono un tipo particolarmente apprensivo con le persone a cui voglio bene, okay? E che quindi tendo a preoccuparmi molto per loro, no?» Gesticolò, con enfasi, rifilandomi quella teoria che galleggiava su un mare di stronzate. Apprezzavo l'impegno... ma no, non reggeva. «Questo potrebbe benissimo essere il motivo per cui tendo a fare queste sceneggiate, no? È per via di questo mio essere così... uhm, così protettivo.» Iniziò ad annuire da solo, picchiettandosi un dito sul mento, compiaciuto della propria idea. Quando si accorse della mia incredulità inarcò un sopracciglio e un angolo della bocca si sollevò rivelando un ghigno malizioso. «Avanti, Robin... dammi ragione. Per favore.» Il tono era supplichevole, quasi mi chiedesse di tirarlo fuori da guai in cui era caduto da solo, senza l'aiuto di nessuno.

Lo assecondai. «Quindi, mi stai dicendo, che avresti questo comportamento così protettivo anche nei confronti di Märten?»

Sulle labbra gli spuntò un sorrisetto ferino. «Oh, ma certo. Certo. Ovvio.»

«Allora immagino che nemmeno lui abbia il permesso di portarsi a casa dei ragazzi... sai, sempre per via di questo tuo lato protettivo, no?» Continuavo a ripetere la parola protettivo con enfasi, dandogli una credibilità pressoché nulla.

Sbuffò una risata, coprendosi la bocca con la mano. Stava sghignazzando. Il discorso stava prendendo una piega comica. «Assolutamente sì. Insomma, io nemmeno gliel'ho dovuto imporre, credimi, lo fa già di sua iniziativa» disse, ridendo.

Bé, era scontato. Märten era etero al mille per mille. Non si sarebbe di certo portato a casa dei ragazzi per farci qualcosa che andasse al di là del bersi una birra in compagnia e guardare una partita insieme.

«Quindi, sempre secondo questa tua strana apprensione... anche io dovrei evitare di portarmi qui dei ragazzi, uhm... diciamo, sospetti?» abbozzai un sorriso.

Mi indicò con l'indice e me lo picchiettò più volte sul naso. «Brava! Esatto! Vedo che comprendi bene le mie preoccupazioni. Insomma... è solo qualcosa in via precauzionale. Sono un tipo tanto, tanto apprensivo.»

Non so perché, ma dal litigare, eravamo passati a punzecchiarci sottilmente e ridacchiare come due idioti. Era divertente e scioccamente infantile, eppure, ci stavamo scambiando qualcosa. Qualcosa che valeva tanto ma che ancora non era il momento di scoprire del tutto. «Quindi la gelosia non c'entra nulla...» conclusi.

Scrollò le spalle. «No, ma ti pare?» berciò. Scosse la mano in aria. «Non è certo gelosia, questa. Insomma... non ho certo timore che qualcuno ti porti via da me o che magari possa farti qualcosa che io non posso fare... ancora.» Quell'ultima parola mi diede un brivido. Ancora. Come a dire... per il momento. Ma dopo? Dopo cosa avrebbe potuto e voluto farmi? E quanto mancava a questo dopo? Appoggiò una mano sul divano, proprio accanto alla mia coscia, sporgendosi in avanti, verso di me. Il suo corpo era teso ma l'espressione era indecifrabile. «È solo un eccessivo desiderio di salvaguardarti... da amico, si intende. Da bravo coinquilino.»

Eccessivo desiderio...

Brividi. Brividi ovunque. Lungo il collo, sulle braccia, nei vestiti e anche sotto. Scivolavano in ogni parte di me, toccando in maniera invisibile ogni punto nascosto.

Una tensione irrequieta mi attraversò da capo a piedi, insieme a un calore corrosivo capace di farmi deglutire a ripetizione. Questo pungerci a vicenda, solleticarci, parlare velatamente e giocare con le parole; a volte riusciva a svelarmi molto più di quanto le nostre azioni facessero. Lattner teneva un muro tra noi, era frenato, ormai lo avevo capito. E non era solo a causa del nostro rapporto allieva-professore. C'era di più sotto le sue non-azioni, sotto il suo non-fare. Temevo di dover aspettare ancora molto per scoprire ciò che lo soffocava così tanto. Eppure, stavo imparando l'arte della pazienza. Se c'era una cosa che avevo capito in quella nostra convivenza, era che esisteva un tempo per ogni cosa. E io ero disposta ad aspettarlo. «Suppongo tu abbia ragione. Quindi dovrò comportarmi di conseguenza per non ferirti... dovrò fare la brava» lo stuzzicai.

Ciò non mi impedisce però di rendergli ardua l'impresa...

«Oh, sì... mi faresti un gran favore ad assecondare queste mie turbe. Sai, almeno fino a quando...» tacque di colpo. Si tediò il labbro con i denti. Stava per dire qualcosa di troppo, glielo lessi negli occhi: un tormento che sembrava non lasciarlo mai e che avrei voluto alleviare con tutta me stessa. Allungò la mano, afferrandomi per la nuca. Dalle labbra gli uscì un grugnito accompagnato da sospiro tremulo e dal mio canto non riuscii a far altro che focalizzare lo sguardo proprio lì, su quelle labbra invitanti e rosee. «Robin» il mio nome, nella sua voce e nella sua bocca, si trasformava. Il suono sembrava diverso, mi raggiungeva con forza, trascinandosi dietro una vastità di emozioni prepotenti e devastanti. In quel momento era colmo di una supplica a doppio taglio, chiedeva di più, chiedeva di fermarlo. Tagliato a metà.

Prendimi. No. Fermami.

I suoi occhi rimasero fissi nei miei e, mentre le dita mi tracciavano un percorso dalla nuca al collo e poi dalla mandibola al mento, si spostarono sulle mie labbra. Le guardò con lo stesso bramoso desiderio con cui io guardavo le sue. Proprio come un uomo guarda una donna che desidera, non certo come si può guardare una ragazzina.

Ebbi un sussulto e lottai per non chiudere gli occhi lasciandomi cullare da quella carezza delicata e gentile, accorta ma al tempo potente. Lattner aveva il vizio bizzarro di trattarmi come cristallo, quasi potessi rompermi da un momento all'altro sotto l'assalto delle sue carezze. Peccato non capisse che la sua premura riusciva comunque ad affondarmi dentro come lava, che scava e corrode, che invade e possiede.

«Robin» ripeté ancora, piano. Era struggente, una supplica. Passò il pollice sul mio labbro inferiore, aprendomi leggermente la bocca. Esitai, indecisa se concedermi una mossa azzardata o restare semplicemente in attesa. Lo vidi espirare, le labbra leggermente socchiuse, lo sguardo completamente assorbito in quel dettaglio di me che continuava a tormentare con le dita. «Questa convivenza... sta diventando per me una tort-» Il campanellò suonò e improvvisamente ricordai dov'ero, cosa stava accadendo e chi stavo aspettando. Lo ricordò anche lui, perché sussultò.

Ramones era arrivato. Non poteva essere altri che lui.

«Credo sia... ecco...» borbottai, mentre allontanava la mano. Il suo tocco già mi mancava.

Si ritirò, buttando fuori una boccata d'aria e deglutendo. Rimase un attimo così, con i pugni sulle ginocchia piegate, il capo chino e i capelli a nascondergli lo sguardo. Avrei voluto alzargli il viso e baciarlo e dirgli che, okay!, mi andava bene così... e che anche a me andava di baciarlo, non c'era nulla di male. E magari aggiungere che poteva non dirmi tutti i casini in cui era invischiato. Non adesso, per lo meno. «Vado io» disse, riprendendosi. Si alzò in piedi, il pomo d'Adamo lottava furiosamente su e giù.

«No! Aspetta!» Mi alzai a mia volta, colta dal panico. «Vado ad aprirgli io. C'è il rischio che tu gli richiuda la porta in faccia.» La mia franchezza lo fece ridere. L'ombra scura lasciò il posto ad uno dei suoi soliti sorrisi. Fu uno squarcio di cielo in mezzo a una tempesta.

«Oh, no... tranquilla! Voglio solo dargli la giusta accoglienza.» Mi fece l'occhiolino e afferrandomi il capo con una sola mano mi spinse indietro, sul divano. Rimbalzai sui cuscini come una stupida, imprecando sonoramente.

Attraversò la sala di slancio, prima che potessi farlo io, e andò alla porta dritto come un fulmine. La spalancò di colpo e per un istante temetti che avrebbe accolto Ramones con un pugno in piena faccia, invece rimase immobile sulla soglia. Un ghigno crudele dipinto in viso.

Ramones dal suo canto parve accigliato, le sopracciglia schizzate in alto, a fissarlo come se lo vedesse per la prima volta. Eppure lo avevo avvisato, gli avevo già detto con chi convivevo. Non sembrava comunque preparato alla versione domestica di Lattner.

Lo squadrò da testa a piedi, con espressione presuntuosa ma sorpresa. D'altronde Lattner era molto diverso a casa da scuola. Anche quel giorno indossava dei jeans grigi pieni di macchie bianche, strappi e zip su ogni coscia. Sopra una magliettina bianca e una felpa di altrettanto colore piena di toppe grigie scure. I capelli erano raccolti in uno chignon alto e scompigliato che però lasciava scoperte le orecchie e i piercing.

Era un figo, nulla da dire.

Tra i due ci fu un lungo, silenzioso e imbarazzante scambio di sguardi. L'aria sembrò riempirsi di insulti trattenuti. E se gli sguardi avessero potuto uccidere, su quella soglia ci sarebbe stato un massacro. Fui tentata di intervenire ma pensai bene che quel precario equilibrio fosse già troppo sottile per aggiungere qualcosa.

«Vega!» lo salutò Lattner, sorridendo con la bocca ma non con gli occhi.

«Mr.Lattner» rispose l'altro. Gongolò sul posto, oscillando sui talloni; le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni della tuta. «Diavolo! Nemmeno sembri tu, Mister!» E aveva ragione.

Lattner a casa non era il Mr.Lattner del Missan. Tutt'altra roba. Tutt'altro livello. Senza contare che Ramones non conosceva la parte ancora più oscura di Lattner, quella che a quanto pare non voleva far conoscere nemmeno a me.

Era come se esistessero tante sfumature di lui. Bianco per il Missan, grigio per casa, nero per il Re. Tante sfumature di Lattner.

Peggio di Christian Grey...

Però c'è una piccola differenza con Mr.Grey... lui almeno Anastasia se la scopava.

«Niente scarpe qui dentro» fu l'unica cosa che gli disse, aprendo di scatto la porta per farlo passare. Aveva la mandibola contratta, lo notavo dalla forma marcata del profilo. Arrabbiato ma trattenuto. Un punto per il Mr.Lattner bravo e composto. Il nodo che avevo in petto si sciolse lentamente e fui grata che si stesse trattenendo. Lo stava facendo per me, ovvio. E non potevo far altro che apprezzarne l'impegno.

«Casa tua, regole tue, Mister!» lo canzonò Ramones, togliendosi le scarpe e attraversando scalzo il corridoio. Mi fece l'occhiolino. «Quindi sei così a casa, eh?» gli chiese, dandogli le spalle.

Lattner roteò gli occhi al cielo e sbuffò, teneva le braccia conserte. Era visibilmente seccato. Forse anche per via del fatto che eravamo stati interrotti sul più bello. O almeno speravo fosse anche per quello. Insomma, chi non si sarebbe seccato a venir interrotto prima di una sana e potente limonata? «Come ti aspettavi fossi?»

L'altro si girò con un sorriso. «Non saprei. Forse ancor più ingessato?» Gli girò attorno, guardandogli l'abbigliamento con un vivo interesse. «Sembri un ragazzo normale.»

«Sono un ragazzo normale!» biascicò Lattner, offeso.

«Non credo proprio, Mister!» Ramones rise. «Tu sei un concentrato di noia, matematica e tristezza. Non sei certo normale...» Lo stava stuzzicando. Ormai lo conoscevo abbastanza bene da intuirne le vere intenzioni: voleva vedere fin quanto Lattner sarebbe rimasto composto ed equilibrato. Già l'abbigliamento lo aveva sorpreso, figuriamoci se avesse scoperto il suo vero carattere. O il fatto che gli aveva quasi spaccato il naso con il casco. Perché non dimentichiamoci che alla prima occasione gli aveva rifilato il ben servito.

«Vega... detto da te lo prendo come un complimento.»

«Cosa fai la sera? Giochi a scacchi con il vicino di casa di novant'anni? Oppure guardi documentari sull'accoppiamento improprio di qualche animale schifoso?» Ramones rabbrividì.

L'ultima domanda mi fece ridere. Era una cosa molto da Lattner, effettivamente. Soprattutto quando voleva camuffare qualche comportamento troppo da Re dei Teschi.

Il diretto interessato mi fulminò con lo sguardo. «Visito anche dei siti che insegnano a farsi i cazzi propri... se vuoi ti passo alcuni link.»

La battuta fece scoppiare a ridere Ramones che non aveva la minima idea in quale vespaio si stava andando a cacciare. «Sei sempre così pungente... sulla difensiva...»

«Lo sono solo con chi non mi piace.»

«Non ti piaccio? E come mai? Che cosa ho fatto di male?» Il tono di finto sdegno per un attimo diede ai nervi anche a me. Lo avrei voluto afferrare per il colletto e trascinarlo in camera, lontano da Lattner.

«Non mi piaci. Punto. Non devo darti una spiegazione. Semplicemente non mi sembri un tipo da buone intenzioni.» Non c'era da stupirsi che Ramones gli avesse dato questa impressione. In fondo, si stava comportando come un vero stronzo.

«Ehi, così mi offendi, Mister. Ho un portafoglio pieno di buone intenzioni...» L'allusione non sfuggì a nessuno dei presenti.

Lattner schioccò la lingua sul palato e l'azzurro degli occhi sembrò diventare più scuro, un mare in tempesta. «Oh, te lo sconsiglio...» disse, lentamente, a bassa voce. Mi vennero i brividi.

Tra i due ci fu un altro scambio di sguardi e Ramones ghignò. «Perché? Che problemi ci sarebbero?»

«Nessuno. Ma non userai il tuo portafoglio pieno di buone intenzioni in questa casa.» Sentivo crepitare la tensione. Avevo la pelle d'oca.

«Nessun problema? Sicuro? Non è che forse c'entra lei?» Mi indicò col pollice. «Sembri sempre incazzato quando sto con lei. Sei forse geloso?»

Geloso. Ancora quella parola. Di nuovo. Quel giorno spuntava anche troppo spesso.

Le labbra di Lattner si assottigliarono in una linea dura, tagliente. Lo sguardo divenne glaciale. «E quindi? Non posso?» Fece qualche passo avanti, minaccioso. Improvvisamente la stanza sembrò troppo piccola per tutti e tre, come se Lattner avesse magicamente raddoppiato taglia. Questa cosa gli riusciva bene ogni volta che lasciava trapelare un pizzico del vero sé, quello più oscuro, quello che teneva imbrigliato sotto strati di finto perbenismo. «Non mi sembra abbia una etichetta con sopra il tuo nome, no?»

«Be'... ma non ne ha nemmeno una con sopra il tuo» ribatté Ramones. Non indietreggiò. Non era il tipo da farsi intimidire.

I due rimasero uno di fronte all'altro, scambiandosi sguardi di fuoco. Nessuno si mosse, quasi aspettassero con impazienza che l'altro prendesse l'iniziativa per primo. Dal mio canto ingoiai un fiotto di bile, tesa.

Questi si ammazzano. Me lo sento.

«E quindi cosa vogliamo fare? La risolviamo facendo a botte?» Ramones era ironico ma negli occhi gli brillò una scintilla preoccupante e che conoscevo bene. Sotto sotto lo sperava. Forse la vita di Detroit e del Missan lo aveva privato delle sue piccole risse quotidiane che lo aiutavano a scaricare nervosismi e tensioni.

Sulle labbra di Lattner si delineò un ghigno poco gentile. «Oh, sarebbe stupendo poterlo fare... davvero stupendo.»

«Non vedo cosa ce lo impedisca. Siamo grandi abbastanza da poter decidere in completa autonomia, no?»

«Non hai tutti i torti, Vega.»

O-Oh... le cose si mettono male.

Non mi piaceva la piega della conversazione. «Sentite... perché non ci calmiamo tutti?» Mi alzai dal divano, tenendo le mani avanti come a cercar di placare bestie feroci. «Preparo un caffè... e ci calmiamo. O forse sarebbe meglio una camomilla. Eh? Che dite?»

Lattner scrollò le spalle. «Ma io sono calmo.» Con un gesto fulmineo estrasse dalla tasca il pacchetto di sigarette e ficcandosene una in bocca se l'accese. Questo gesto, già di per sé, sottolineava il fatto che non fosse affatto calmo... per niente.

Ramones lo fissò come se gli fosse appena spuntata una seconda testa. «Fumi?» lo chiese quasi scioccato. «Davvero?» Guardò me, in cerca di conferma.

Lattner aveva davvero la faccia da bravo ragazzo. Quel genere di persona che non beve, non fuma, non gioca d'azzardo e va a dormire alle nove di sera con una tisana ancora calda sul comodino. «Sì, e quindi?» Tagliente. Seccato. La vena sul collo gli pulsava vistosamente. «Problemi?»

«È... strano.»

«L'unica cosa strana, qui... sei tu. E anche il fatto che ancora non ti abbia spaccato il naso con un pugno.» Aspirò una boccata di fumo e la fece uscir dal naso con uno sbuffo.

«Ah, quindi niente botte però un pugno me lo daresti, eh?» A Ramones sfuggì una risata e mi guardò con la coda dell'occhio. «Dice davvero? Lo farebbe?» Era incredulo ma divertito. Chiedeva conferma a me come se si aspettasse che da un momento all'altro sbucasse qualcuno con una telecamera a dirgli che era tutto uno scherzo. Peccato che Lattner non scherzasse.

«Temo di sì» rantolai. «Ma - ma non arriveremo a tanto. In fondo se qui per un motivo, no?»

Ramones si riscosse finalmente da quell'atteggiamento agguerrito e strafottente e mi rivolse un sorriso sincero. «Certo. Hai ragione.»

«Allora è il caso di andare in camera.» Alla parola camera Lattner sibilò una parolaccia a denti stretti. Afferrai lo scatolone di Lin sbattendolo contro il petto di Ramones e gli indicai il corridoio. «Forza! Andiamo.» Cercavo di sembrare decisa e non in preda al panico. Ero certa che se quei due fossero rimasti ancora un po' insieme sarebbero davvero finiti alle mani. Dovevo separarli il prima possibile.

«Robin...» tentò di fermarmi Lattner. Lasciò ricadere lungo il fianco la mano protesa in mia direzione. Si passò l'altra dietro la nuca.

«Tranquillo, Thomas. Guardiamo solo alcuni ricordi di Lin... niente di più» sentii il bisogno di rassicurarlo. Forse per via dello sguardo da cucciolo abbandonato che mi stava spezzando il cuore. O magari per evitare che irrompesse in camera dopo qualche minuto sfondando la porta. O forse solo per fargli capire che, in fondo, a me interessava solo lui.

Ramones strinse lo scatolone e si diresse in camera mia, lo superai ed entrai dentro, tallonata da Lattner. «Comunque non ci metteremo molto» biascicai, ora nel più completo disagio. Quando mi voltai in sua direzione per salutarlo, e magari rassicurarlo ancora una volta, Ramones si piazzò nel vano del passaggio, ostruendomi la vista.

Scosse un po' lo scatolone, si diede una pacca alla tasca dei jeans posteriori, quella con il portafoglio, e rise. «Tranquillo, Mister. La tratterò con ogni riguardo.» E facendogli l'occhiolino gli chiuse con un tonfo secco la porta in faccia prima ancora che qualcuno di noi potesse ribattere.

E tanti cari saluti alla tregua appena stipulata.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top