25 - INVITI INASPETTATI
Soffiai ancora una volta il naso asciugandomi delle lacrime che sembravano non volersi fermare.
Mi ero precipitata fuori dalla palestra rintanandomi sulla scalinata esterna del Missan, quella sul retro, dove non passava anima viva.
Non so, forse speravo che qualcuno mi rincorresse. Magari Takeru. O Lattner.
E invece ero lì da oltre mezz'ora e a parte le lacrime non avevo la compagnia di nessuno.
Sola. Un po' come ero sempre stata. Un po' come mi ero sempre sentita.
Avevo finito per fumarmi l'intero pacchetto di sigarette e ora lo fissavo, vuoto. Me ne ero fatte fuori dieci. Una di fila all'altra. E ne volevo ancora.
La nicotina era un ottimo rimedio contro lo stress e i mali della vita. Almeno per me.
Mi accorgevo che i momenti in cui davo fondo al mio spirito da fumatrice erano proprio questi. Momenti di merda, quelli dove tutto non sembrava aver senso e andava a rotoli ancor prima di trovare una soluzione.
«Opplà.» Due braccia forti mi afferrarono da dietro: una sotto braccio e una nella piega delle gambe. Fui sollevata di peso. Non ci fu bisogno nemmeno di guardare per riconoscere la solida presa di Ramones.
«Ram! Che – che fai?» Come aveva fatto a trovarmi? «Mettimi giù!» Ma lui non mi lasciò.
Si mise invece a sedere sullo scalino, posizionandomi sulle gambe, come una bambina. Lo sentii passarmi le dita nei capelli e posare il mento sulla mia nuca. Non disse nulla e gliene fui grata, anche se quel silenzio e il modo in cui mi teneva stretta a sé avevano innescato una strana tensione nel mio corpo. Sentivo i brividi attraversarmi veloci, dalla nuca fin giù ai piedi, fino a sentir le dita contorcersi nelle scarpe.
«Non hai lezione?» borbottai, cercando di passare sopra quelle strane sensazioni. «Non le dovresti saltare, sai? Qua al Missan sono severi.»
Sbuffò una risata. La sentii scivolarmi lungo il collo, fin dentro la maglietta. Per un attimo temetti di saltare in aria. «Stai proprio uno schifo per parlarmi delle lezioni, eh?»
Colpita e affondata. Non c'era termine migliore per descrivere il mio stato emotivo di quel momento. Schifo. Ero uno straccio, emotivamente parlando.
«Ho avuto giornate migliori» risposi, vaga, appoggiando il viso contro il suo petto. Anni prima lo avevo fatto spesso. Mi mettevo tra le sue braccia e chiudevo il mondo fuori. Funzionava bene allora e anche adesso dovevo ammettere che faceva il suo effetto.
«Ho sentito che hai avuto qualche problema in palestra...» disse, a sua volta vago. Mi conosceva bene, come le sue tasche.
«Le voci girano in fretta, eh?» Feci una risata secca, priva di divertimento. La gente amava sparlare, soprattutto quando si trattava di me. Mi trovavo spesso al centro di gossip stupidi e del tutto falsi; almeno per una volta i compagni potevano spettegolare su qualcosa di veramente accaduto.
«Come sempre. D'altronde le teste di cazzo le trovi qui come altrove.» Appoggiò la mano sul mio ginocchio. Le punte delle sue dita sfiorarono le mie, intrecciandosi appena.
Rabbrividii. «Hai ragione. Noi lo sappiamo bene... con tutte le scuole che abbiamo cambiato, non trovi?»
C'era sempre stata attrazione tra noi e forse non sarebbe mai scomparsa. La sentivo anche in quel momento, mentre stringendo la mia mano mi passava le dita sulle nocche. Era molto diverso dal Ramones di un tempo, le difficoltà della vita lo avevano reso paziente. Non bruciava più gli attimi, se li godeva.
Lo sentii annuire, mentre sfregava il naso nei miei capelli. Era un vizio che sembrava non aver perso. «Comunque non pensavo che il Quattrocchi sapesse far a botte.»
Girai un po' la testa, per guardarlo, confusa. «Mr.Lattner? E lui ora che c'entra?»
Roteò gli occhi, sbuffando un'altra risata. «L'altro Quattrocchi intendevo... il giapponese.»
Oh, giusto. Parla di Takeru...
Scrollai le spalle. «Pare stia imparando. Se la cava.» Mi spuntò un sorrisetto che non si addiceva a una che se le era appena fatte suonare. Eppure non potevo negare di provare una punta d'orgoglio.
Sì, la nostra situazione era incasinata.
Sì, mi aveva appena pestato e umiliato davanti all'intera classe.
E sì, aveva scelto un modo del cazzo per farmi capire qualsiasi cosa volesse farmi capire.
Ma, ehi!, il mio giappo-minchia stava crescendo! Sotto sotto ero una "mamma" teppista orgogliosa di lui.
«Ti fa male da qualche parte?» domandò. Fu strano sentirlo così preoccupato.
Scossi il capo. «No, figurati! Ne ho prese di peggio.»
«Oh, sì... decisamente.» La risata di Ramones mi vibrò contro il corpo. Era cambiata, negli anni. Aveva assunto una nota virile e sembrava in qualche modo aver ereditato quella maturità che un tempo non aveva. Era cresciuto. Era un uomo ora.
«Diciamo che quella di oggi non la considero una rissa vera e propria.»
«Ah, no?» mi canzonò lui.
«Figurati! È stato un po' come quando due migliori amiche si tirano i capelli.» E lo pensavo.
Per quanto mi avesse ferito il comportamento di Takeru, non ero disposta a cancellare la nostra amicizia con un colpo di spazzola. Lo avrei affrontato. Di nuovo. A costo di farmi odiare.
Mi sarei fatta dire cosa stava succedendo. E non lo avrei lasciato andare finché non si fosse confessato.
«Peccato si tratti di un ragazzo... altrimenti vi avrei proposto una lotta nel fango. Ovviamente solo per il gusto di vederti far a botte mezza nuda e tutta sporca, sia chiaro.» Me lo disse all'orecchio, facendomi venir la pelle d'oca. Il tono basso e strozzato, le parole strascicate fino a farmi contorcere tra le sue braccia.
«Sei il solito maiale!» Gli rifilai una gomitata, sentendolo sghignazzare.
«Che ci vuoi fare... sono gli ormoni.» Rise.
«Comunque è colpa mia se è successo tutto questo. Indirettamente sono stata io a farlo diventare così... tutto a causa dei miei casini che hanno finito per coinvolgerlo. Me li son meritati quei pugni.» Mi rilassai contro di lui, socchiudendo gli occhi e respirando il suo profumo. Era buono. Rievocava ricordi belli e alcuni brutti. Io e Ramones ne avevamo passate tante insieme. Avevamo attraversato mano nella mano dei periodi difficili della nostra vita e non sempre ne eravamo usciti integri. A volte ci eravamo dovuti rattoppare i pezzi a vicenda. E forse questo aveva rafforzato il nostro legame.
Le sue labbra si posarono sulla mia fronte. Parlò serio. «Sei sempre molto severa con te stessa. Non ti perdoni mai niente.» La leggera nota di sandalo che emanava il suo corpo sembrò danzarmi sotto il naso in una impercettibile carezza. Restai con gli occhi chiusi, gustandone la fragranza. Annusare Ramones era stata una delle cose che mi era mancata di più di lui. Quando stavamo insieme lo facevo spesso.
«Mi stai annusando?» domandò, divertito, come se mi avesse letto la mente.
Avvampai. «Cosa? No! Ma – ma come ti viene in mente?»
«Bugiarda! Lo so che lo stai facendo.» Sospirò. «Lo facevi sempre.»
Sentii il viso andare in fiamme e ringraziai che non riuscisse a vedermi in faccia.
«Comunque mi va bene» aggiunse, dopo qualche attimo. «Cioè, dico... mi va bene che mi annusi. Oltre a essere una cosa che trovo molto eccitante... era uno dei motivi per cui mi piacevi così tanto. Mi faceva... non so... sentire speciale.» Si schiarì la voce con un colpo di tosse. Era imbarazzato. Lo sapevo senza nemmeno vederlo. Bé, forse perché anche io lo conoscevo come le mie tasche.
«Lo eri» borbottai, in tutta risposta. «Sei sempre stato speciale per me.» E improvvisamente la consapevolezza del suo corpo, di lui, di noi, di quell'intimità che sembrava non sparire mai... mi fecero tendere come una corda di violino. Io ero cambiata. Lui era cambiato. Eppure eravamo ancora qui, l'uno pronto a sostener l'altro. C'erano cose che non cambiavano mai.
Strofinò il naso contro la base del mio collo. «Attenta che potrei eccitarmi» la buttò sul ridere. E subito cercò di farmi il solletico.
«Ehi!» Cercai di ribellarmi ma lui mi bloccò nel suo abbraccio. Era molto più forte di un tempo, molto più muscoloso. Doveva essersi continuato ad allenare per tutto questo tempo. La stretta delle sue braccia era una morsa capace di stritolarmi e al contempo chiudere il mondo fuori. Con lui il mondo restava sempre fuori.
Restammo a fissarci un lungo attimo, finché il suo sguardo non mi fece arrossire.
«Pensavo... pe – perché ci siamo lasciati noi due?» domandai, d'un tratto. Non lo ricordavo più. E le motivazioni, ora, sembravano davvero banali.
«Ero un coglione immaturo... probabilmente non ti meritavo. Semplice.»
«Ora non... non sembri più così immaturo» balbettai.
La pelle olivastra di Ramones si tinse di un rosso tenue. Deglutì. Era di nuovo imbarazzato. Un tempo avrei pagato oro per vederlo così. Le sue espressioni migliori uscivano solo quando si permetteva il lusso di scoprirsi un po', di togliere la maschera che usava come scudo. Non lo faceva con tutti. Non lo faceva quasi mai. I sentimenti sono delicati, basta un attimo per romperli. E lui lo sapeva bene, come me.
Strinse un po' la presa e dovetti abbassare lo sguardo. Mi sentivo andare a fuoco.
Usando il braccio con cui mi cingeva schiena e fianco mi carezzò il viso, girandolo verso il proprio.
Mi acciuffò il labbro con la bocca, sfiorandomi il mento con il pollice. Non era uno dei suoi soliti baci impazienti. Era lento, accorto. Si stava prendendo tutto il tempo per assaggiarmi.
Mi tenne bloccata la testa con una mano dietro la nuca. Le sue labbra roventi sulle mie. La lingua mi scivolò in bocca in un timido tocco, arrendevole, disposta a indietreggiare se non avessi voluto. Così cauto, così capace e delicato.
Era forse il bacio più tenero e appassionato che ci eravamo mai dati prima d'ora. In sé vibrava un trasporto potente e senza tempo, di quelli che sembrano passare ma che poi non passano mai.
Gli appoggiai le mani sul petto, di riflesso. Indecisa se allontanarlo o prendermi tutta la passione racchiusa in quell'attimo. E alla fine decisi. Chiusi gli occhi, ricambiai il bacio.
«Robin. Robin. Robin.» Le labbra di Ramones si mossero sulle mie, ripetendo il mio nome un'infinità di volte e in un'infinità di modi che non credevo possibili. Ogni volta regalandomi un sentimento diverso. Ogni volta mostrandomi una parte di sé.
Ci staccammo poco dopo, scossi. Forse troppo presto.
Mi portai due dita alle labbra, ancora gonfie di lui, ancora bollenti. «Questo è stato-» Mi tappò la bocca con la mano.
«Non – non dire niente di imbarazzante.» Aveva le guance di un rosso acceso che facevano venire voglia di morderle. Come fragole mature. Il respiro gli usciva con affanno. Era un piacere guardarlo ancora così perso in quel bacio. L'estasi che continuava a permeare i nostri corpi ci aveva lasciati tremanti e confusi. Piacevolmente confusi.
Era tanto che non mi sentivo così. Bene. Desiderata.
Era stato un bacio sincero, senza sotterfugi. In quel gesto non c'erano dubbi annidati o piccole paure. Non c'era l'incertezza di un sentimento o il timore che fosse tutto un gioco.
Ramones mi baciava perché mi voleva, mi desiderava. Il suo sentimento era trasparente e lui non ne faceva mistero. E Lattner? Quando lo faceva lui cosa voleva dire? I suoi baci erano altrettanto potenti ma oscuri. Pieni di se e ma, pieni di perché e per come. Non li capivo mai. E a volte facevano più male che bene.
Scrollai la testa, accorgendomi troppo tardi che mi ero persa ancora una volta a pensare a Lattner. Ramones tolse la mano dalla mia bocca solo dopo un po', quando fu certo che non avrei detto nulla di vergognoso. Dovetti schiarirmi la voce per formulare una domande che dissimulasse il tumulto che sentivo in petto. Continuavo a sentire il cuore strombazzarmi nelle orecchie, peggio di un automobilista impaziente. «Quindi... uhm... sembrerebbe che... cioè... mi hai... mi hai perdonato, vero?» Lo fissai da sotto le ciglia, mascherando l'imbarazzo.
Ramones scoppiò a ridere, attirandomi a sé e cozzando la fronte contro la mia. «Fatico davvero tanto a tenerti il muso, a quanto pare.» Mi scompigliò i capelli. «Il tuo fascino è riuscito a mettere K.O. il mio orgoglio. Dovresti esserne contenta.»
«Oh, ma lo sono» biascicai piano, rannicchiandomi nel suo abbraccio. Mi faceva sentire piccola piccola. Da quando aveva braccia così grosse? Da quando riusciva a trasmettere quella sicurezza e quel senso di protezione? Da quando calmava i miei pensieri e li agitava profondamente? Gli anni lontani ci avevano cambiato nel fisico ma non nell'anima. In fondo, eravamo sempre gli stessi, i soliti ragazzini pieni di speranze perdute e di sentimenti rattoppati alla bell'e meglio.
Le sue dita tornarono a giocare con le ciocche dei miei capelli. Era rilassante.
«Ieri sera mi ha chiamato Adam.» Si bloccò, in silenzio, attento. «Era in aeroporto, partiva per una delle sue missioni.» Sospirai. «Starà via per sei mesi. Ha detto che mi chiamerà... ma là spesso non c'è campo.»
«Mi spiace, Rob.» Ramones sapeva del forte legame tra me e Adam. Andavano d'accordo anche loro un tempo. Anche se Adam aveva impiegato oltre un anno ad accettare il fatto che la sua sorellina uscisse con un tipo poco raccomandabile come lui. E non vi dico la sua reazione quando scoprì che ci avevo fatto sesso. A momenti avevo creduto fosse preda di una crisi mistica. Il ricordo mi fece sorridere.
«Sì, bé... sapevo che sarebbe partito.» Me lo aveva detto. Da una parte mi dispiaceva ma dall'altra ero felice che finalmente avesse trovato la sua strada. Aveva perso tanti anni dietro me. Era giusto si riprendesse le sue rivincite e inseguisse i suoi sogni.
Una mano di Ramones scivolò sulla mia schiena, tracciando dei cerchi lenti e calmanti. «Sei mesi non sono tanti, vedrai. E quando tornerà vi godrete al meglio il tempo insieme.»
«Già.» Su questo aveva ragione. «Comunque mi ha detto che oggi mi sarebbe arrivato un pacco. Me l'ha spedito diversi giorni fa. Dentro ci sono alcune cose mie... ma soprattutto cose che mi ha lasciato Lin: foto, diari, lettere, cose sue personali.» Tipo il giacchetto di Scorpion Queen. Chissà se Ramones lo sapeva.
Lui si irrigidì e in quel momento avrei voluto entrargli nella mente solo per il piacere di leggere i meccanismi dei suoi pensieri. «Allora immagino sarà doloroso riaprirlo...» disse, infine. Sembrava aver usato le parole con molta attenzione, temendo forse di ferirmi.
«Sì e no.» Il ricordo di Lin sarebbe stato sempre doloroso. Come il rimpianto di non aver trascorso abbastanza tempo insieme e non essere state adeguatamente sincere l'una con l'altra. Ma c'erano anche tanti attimi belli da ricordare di noi. Attimi che la sua morte non avrebbe cancellato ma avrebbe reso solo più preziosi da custodire. «Però non è per questo che te l'ho detto.»
«Ah, no?»
«No.»
Bene, od ora... o mai più.
Feci un respiro profondo. «Pensavo, sì, bé... pensavo che magari potresti venire a casa mia.»
«A casa tua.» Non era una domanda la sua. Aveva semplicemente ripreso l'ultimo stralcio della mia frase, come se cercasse di elaborarne il significato.
«Sì, mia... così lo apriamo insieme e attraverso le sue cose riviviamo alcuni momenti felici con lei... come se – se le rendessimo omaggio.» Chinai il capo. «Almeno mi sentirei meno in colpa per non avertelo detto in tempo per il funerale.»
Lo sentii trattenere il respiro e buttare fuori l'aria tutta in un colpo. «A casa tua» ripeté. Sembrava un disco rotto. E conoscendolo bene, sapevo perfino l'esatto punto in cui si era rotto. E su cui la sua mente perversa stava tergiversando. Gli avrei voluto dare un pizzicotto.
Io mi stavo facendo mille paranoie a confidargli un segreto gigantesco, pericoloso... e dal carattere ingestibile; e lui, invece, pensava a scopare.
«Sì, esatto... casa mia.» Mi strofinai la faccia. Le mani tremavano. «E a tal proposito ho da dirti una cosa...»
Con la coda dell'occhio lo vidi inarcare un sopracciglio. «Mi devo preoccupare?»
Abbastanza. Decisamente, sì.
Accennai un sorriso tirato. «Bé, no... ma non sarà una rivelazione piacevole.» Sospirai. Avevo le palpitazioni. E i palmi sudaticci. «Te lo dico solo perché mi fido di te e confido nel fatto che terrai la bocca chiusa. Muto come un pesce, intesi?»
Si agitò sotto di me e per poco non sbalzai via dalle sue ginocchia. «Di che si tratta, Rob? Hai aperto una bisca clandestina? Spacci droga? Armi? Tieni comitati di Testimoni di Geova?»
Sghignazzai ma non appena sollevai gli occhi per fissarlo tutta la mia ilarità svanì di colpo. Come dirglielo? «No, sai... è che non vivo da sola. Ho un coinquilino.»
Il mio annunciò sembrò rilassarlo. «Oh, bé... credo sia una cosa normale. Gli affitti qua sono davvero alti. Dividere un appartamento in due è comodo ed è la cosa più intelligente da fare in un caso come il tuo.»
«Già, credo... credo di sì.» Strizzai le mani con tensione. Sentivo lo stomaco torcersi come se avessi appena ingoiato una serpe.
Quando Ramones notò l'inquietudine dei miei gesti frenetici ne restò accigliato. «Che succede?»
«Ecco, è che...»
Sembrò folgorato da una illuminazione. «Dio! Per caso... lo conosco?»
Deglutii e sollevando gli occhi incrociai i suoi. «Oh, sì. Sì, che lo conosci!»
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