23 - LEXIE GAO

Avevo pianto. Solo un po'. Circa.

Ero uscita dal Missan ridotta uno straccio.

Nemmeno Beth ed Eve erano riuscite a risollevarmi il morale dopo la litigata con Takeru dove praticamente mi aveva detto di farmi i cazzi miei.

Non so. Mi sembrava tutto sbagliato.

Sembrava che qualcosa, tra noi si fosse inceppato. E sicuramente era colpa mia. Era sempre colpa mia. Come per la faccenda di Ramones. Anche lì avevo fatto un bel casino.

Iniziavo a pensare che l'amicizia non facesse per me. O ferivo, o venivo ferita. Non sapevo gestirla. E le ultime cose successe con Takeru e con Ramones ne erano la riprova.

Ero una mina vagante, difficile da ammansire e difficile da tenersi vicino. Non aveva senso impegnarsi tanto. Alla fine bastava un errore e tutto andava a rotoli.

Mi strofinai gli occhi. Bruciavano.

Con ancora quei pensieri ad affollarmi la mente, feci gli scalini di casa a due a due, fino a raggiungere il mio piano. Avevo già le chiavi in mano. Non vedevo l'ora di entrare e chiudere il mondo fuori.

Quando aprii la porta di casa Muffin non venne a salutarmi come suo solito, cosa che ammetto mi stranì e non poco. Quel gatto ciccione era conosciuto per i suoi miagolanti saluti ai nostri rientri.

«Muffin?» chiamai. «Thomas, sei già a casa?»

Niente. Nessuna risposta. Strano.

Insomma, da un gatto un po' me lo aspettavo; da Lattner meno. Teoricamente doveva essere arrivato molto prima di me visto che quel giorno aveva avuto lezione solo la terza e la quarta ora. E lui, in fatto di bentornati, superava di gran lunga Muffin.

Attraversai scalza il corridoio e mi bloccai di colpo non appena misi piede in sala.

La ragazza sconosciuta seduta scompostamente sul divano si girò a guardarmi con un certo cipiglio. Indossava soltanto una felpa enorme e nient'altro. Nulla da ridire se solo non l'avessi già vista su Lattner così tante volte da esser certa che non le appartenesse. Soffocai un grugnito, cercando di mantenere la calma quando invece sarei voluta correrle incontro, tirarla in piedi per i capelli e strapparle via quella felpa.

«Oh! E quindi tu sei quella Robin O'Neil» biascicò annoiata, guardandomi dalla testa ai piedi con un'espressione presuntuosa. Muffin, piccolo gatto ciccione e traditore, le stava comodamente svaccato in grembo; troppo occupato a godersi le coccole che gli concedeva di tanto in tanto per venirmi a salutare. «Ti immaginavo più alta... e con una faccia molto più da dura.» La sua voce trasudava disprezzo e delusione. E sinceramente, non ero nella mood giusta per stare ai giochetti di qualche intrusa qualsiasi. Non era proprio giornata.

«E io ti immaginavo di plastica e sui quaranta centimetri a dir il vero» risposi, seccata. «Diavolo! Lo sapevo che acquistare quella action figure di Jinx su Aliexpress non era stato un affarone.»

La ragazza, dai tipici tratti orientali, mi scoccò un'occhiata furibonda. Che mi diede lo stesso brivido di terrore che può dare l'occhiata di un chihuahua rabbioso. Era piccolina, con lunghi capelli azzurri raccolti in due trecce. Giuro, sembrava Jinx di Legue of Legend. Compresa l'espressione da matta. Continuava a incenerirmi con lo sguardo e teneva il broncio; che la faceva assomigliare più a un bambino d'asilo a cui hanno appena tolto il gioco preferito. Salvo che il bambino dell'asilo non aveva quattro strati di trucco. «Cavolo, quanto sei simpatica. Sto morendo dal ridere.»

«Non sembrerebbe, visto che ancora la tua bocca si muove.» Insomma, eravamo partite con il piede sbagliato. Nemmeno sapevo chi era e già ci stavamo prendendo a parole. Non funzionava così di solito. Almeno mi prendevo il tempo di salutare prima del consueto vaffanculo.

Quella giornata iniziava a sembrare troppo lunga.

«Almeno su una cosa i pettegolezzi avevano ragione» rimbeccò tutta impettita. «Sei una gran stronza e nemmeno ne fai mistero.»

«Di che pettegolezzi parli?»

Rise. Era carina in realtà. Minuscola, anzi no, in miniatura; ma carina. Se solo non fosse stato per quelle occhiate capaci di trapassarmi forse mi sarebbe anche piaciuta. Insomma, come sapete ho un debole per gli orientali. «Ahh... curiosa di sapere le brutte cose che dicono sul tuo conto?» Incrociò il mio sguardo e ghignò. Si stava proprio divertendo quella piccola vipera. «Peccato che non abbia alcuna voglia di parlare con te. La tua conoscenza è stata molto deludente... ma forse avevo aspettative troppo alte.»

Aspettative? Ma di che diavolo sta parlando?

Mi strinsi la base del naso cercando di mitigare l'insorgere di un mal di testa da urlo. Non comprendevo ancora la sua presenza in casa mia e soprattutto questo smodato odio nei miei confronti ma non avevo alcuna intenzione di restare in silenzio a prendermi un'altra spalata di merda da una completa sconosciuta. Così mi piazzai le mani sui fianchi e le rivolsi una delle mie più glaciali occhiate. La stronza la so far bene, no? «Senti, piccola sottospecie di cosplay lillipuziana... cosa vuoi per la precisione da me? Sei in casa mia e-»

«Non è casa tua. È casa di Thomas» mi interruppe subito lei. «Sei qui per sua grazia.»

«Sì, certo, grazia... al cazzo! Pago un affitto, non è che sto qui come te a fare la parassita sui divani altrui, rubando le felpe altrui.» Il dettaglio sulla felpa la fece arrossire. «Quindi, messo in chiaro questo, cosa vuoi da me? Di solito vado d'accordo con i giapponesi... ma ultimamente quell'angolo di mondo sembra odiarmi.» Il ricordo del litigio con Takeru mi bruciò al pari di una ferita ancora fresca. Subito insorsero le lacrime che ricacciai indietro con una punta d'orgoglio.

«Io non sono giapponese!» si infervorò lei. «Sono cinese. E odio i giapponesi. Soprattutto quelli con la lingua lunga e che portano gli occhiali.» Aveva il viso rosso ma carico di collera. Sembrava sul punto di scoppiare o a piangere o a spaccarmi casa.

Rimasi un attimo interdetta. I dettagli così minuziosi che aveva elencato mi riportavano alla mente un unico giapponese. Lo conoscevo bene. Parecchio. E ultimamente si stava comportando in maniera davvero bizzarra, perfino per i suoi soliti standard. Che lei c'entrasse qualcosa?

Avrei voluto chiederle di più, chiederle se e come conosceva Takeru, sincerarmi che fosse ancora sano di mente e non posseduto da qualche alieno testa di cazzo ma dal suo sguardo truce capii che quel discorso sarebbe stato un grosso buco nell'acqua. Non le avrei cavato di bocca nessuna informazione utile. Sembrava troppo inviperita per rispondere anche solo a qualche semplice domanda. Quindi passai alla scortesia, in quello me la cavavo piuttosto bene. E senza nemmeno dovermi impegnare. «Sì, okay, fregacazzo... giapponese, cinese, coreana... sii quello che ti pare. Ma veniamo al dunque... cosa vuoi? Cosa ci fai qui? Chi sei? Ti serve un passaggio per l'asilo più vicino? I tuoi genitori ti hanno perso strada facendo?»

Lei non si scompose, sebbene una ruga le solcò il viso. «Mi chiamo Lexie Gao. Sono qui per Thomas, ovvio. Non certo per te.» Agitò la mano, dando maggior enfasi a un tono già di per sé altezzoso.

Stava per partirmi una sonora parolaccia. Sentivo il sangue ribollire. E quella era proprio la giornata meno indicata per farmi incazzare. «E Thomas dove sarebbe allora? Non lo sa che non si lasciano i bambini incustoditi?» Nella pancia sentivo animarsi uno strano sentimento, un misto di ansia e dispiacere. Cresceva e si aggrovigliava come una serpe.

Ghignò. «È andato a fare una doccia. Ha sudato parecchio.» Il tono allusivo non mi sfuggì. E nemmeno quel leggero movimento delle mani, le dita che pizzicavano il bordo della felpa, unica cosa di cui era vestita.

Per poco non cedetti all'impulso di afferrarla, strattonarla per quelle treccine e buttarla fuori. Mi spiaceva solo per la felpa. Adoravo quella felpa. Amavo quella dannatissima, fottutissima felpa... soprattutto per come stava a Lattner, di quel grigio che dava luce ai capelli mori e illuminava l'azzurro dei suoi occhi. Dannazione! Ora l'avrei sempre associata a lei.

«Comunque puoi star tranquilla... ho ventuno anni e tutte le cose da grandi che faccio, le faccio perché mi vanno... mi vanno tanto. Se capisci quello che intendo...» Sghignazzò, rifilandomi un sorrisetto malizioso che andò a infilarsi proprio lì, in quel groviglio di ansie e dolore che si agitava tra cuore e petto.

La mia sorpresa e il mio evidente turbamento la fecero gongolare. Non l'avrei mai detto che quel microscopico concentrato di stronzaggine fosse addirittura più grande di me di tre anni, e invece... a quanto pare i cinesi si mantengono bene. O magari aveva solo fatto un patto con qualche sottospecie di Oni. Diciamo che sui demoni cinesi non mi sono mai interessata quanto quelli giapponesi.

Strinsi i pugni con evidente disagio. Mi faceva male il petto. Mi sentivo un peso lì. Faceva un male pazzesco, da togliere il respiro. Era come se ci avesse appena affondato un pugnale.

Vedendo che non rispondevo, si animò sul divano, il sorriso le si allargò maggiormente. «Che succede? Ho detto qualcosa che ti ha ferito?» Lo sapeva. Lo vedeva bene.

Era così palese ciò che provavo per Lattner? A quanto pare...

Indietreggiai di un passo, decisa improvvisamente ad andarmene da lì. La cartella mi sfuggì dalla spalla cadendo in terra con un tonfo. Tagliai il contatto visivo solo per cercare la porta della mia camera. Al momento sembrava l'unico posto in cui ritagliarmi uno spazio sicuro. Lontano da tutti. Lontano dai dispiaceri.

Mossi qualche passo in quella direzione, pronta a congedarmi con disonore, senza trovare adeguata battuta scortese con cui ribatterle.

Mi veniva da piangere. Di nuovo.

Eccheccazzo... ma che succede oggi, eh?

«Ehi, piccola... per caso è lì la mia felpa?» La voce di Lattner ci raggiunse dal corridoio e un attimo dopo spuntò in sala. Era a petto nudo, la pelle imperlata di acqua; i capelli sciolti gli incorniciavano il viso, ancora bagnati e gocciolanti. Armeggiava con un bottone dei jeans e quando sollevò lo sguardo e mi vide per poco non gli venne un colpo. Subito si addossò alla parete, nascondendo la schiena.

Ma certo... io il tatuaggio non devo vederlo.

Immagino che lei però lo abbia visto in parecchie occasioni.

A quella reazione le mie labbra si assottigliarono come il filo di una lama. La stessa che sentivo affondare e girare in petto.

Piccola.

La chiama perfino piccola.

Mentre io ero solo una "ragazzina" per lui... e d'altronde con i nostri otto anni di differenza non poteva essere altrimenti, no?

«Ehi! Ciao, Robin. Cosa - cosa ci fai qui? Sei tornata presto.» No. Affatto. Ero tornata in orario, come sempre. «Vi siete già presentate?» Aveva un'aria colpevole. Come un marito colto in flagrante con l'amante. Eppure noi non eravamo niente di tutto questo. Ma immagino che la sensazione di malessere di una donna ferita e tradita somigliasse molto alla mia.

Raccolsi da terra la mia borsa. «Vado in camera mia.»

«Aspetta!» Si staccò bruscamente dal muro ma non appena lo guardai fece un passo indietro. Con la coda dell'occhio fissò Lexie. «Picc... Lexie, la mia felpa. Ora.»

L'altra però sembrò deliberatamente ignorarlo. Continuava a sorridere a testa bassa, giocando con l'orlo delle maniche. Vedevo quanto tutta quella situazione la compiacesse e per quanto fossi pronta a prenderla a schiaffi fino a farle cadere ogni singolo capello c'era un'altra parte di me che volevo solo sparire dalla loro vista, chiudersi in camera e... bé, non è qualcosa di cui andare fiera. In fondo odiavo piangere.

Lattner allungò la mano verso Lexie con una certa impazienza e tra i due ci fu uno scambio di sguardi intenso e carico di significato. Quel genere di scambio di segreti silenziosi che con me non avveniva mai.

Lexie sbuffò. «E va bene! Tienitela!» Si alzò stizzita e aprì la zip con uno scatto rivelando un micro abbigliamento che era al pari di niente. Un misero top che le copriva l'inesistente seno e dei pantaloncini che parevano delle mutande. Quindi i vestiti li aveva. Non era nuda sotto. Comunque poco importava in quel momento.

Non aspettai oltre. Mi sentivo decisamente il terzo incomodo. «Bé, meglio che vada. Ho molto da studiare oggi.» Fiondandomi verso la mia stanza e lo sentii dire qualcosa a bassa voce. In realtà il tono tagliente mi diede l'idea che fosse incazzato.

Non feci però nemmeno in tempo a chiudere la porta che lui la fermò con un piede in mezzo. «A - aspetta, Robin... lasciami spiegare» disse, affannato, cercando di aprirsi un varco.

No. Non mi andava. Non volevo sentire nessuna spiegazione anche perché non era tenuto a darmene. Tra noi non esisteva nulla che lo obbligasse a giustificarsi in merito alla presenza di donne in casa nostra. Non avevamo quel tipo di rapporto. Punto.

Era ora che me lo mettessi in testa. Più per un bene mio che suo.

Appoggiandomi con tutto il peso tentai di tenerlo bloccato fuori da camera mia. Il problema è che Lattner, salvo le apparenze, è forte. Decisamente forte.

«Robin, ti prego.» Spinse. «Lexie è una amica.»

Sì, certo. E io sono Cappuccetto Rosso.

«Lasciami in pace, Thomas. È tutto okay. Voglio solo mettermi a studiare.»

«Ma se tu non studi mai» mi rimbeccò lui, dando una spallata che mi fece barcollare indietro.

La porta si aprì di scatto, sbattendo contro il muro; a sua volta, un'altra si richiuse con un colpo secco. Come se qualcuno, stizzito, ci si fosse accanito contro. Entrambi guardammo verso l'uscita. Lexie doveva essersene andata.

Bene. Ciao. Addio e a mai più rivederci.

Quando Lattner tornò a guardare verso di me la sua espressione mi agitò. Aveva il viso arrossato, la felpa ancora aperta, e i capelli che gocciolandogli sopra ne scurivano il tessuto nei punti dove l'acqua cadeva. Era bellissimo. Come sempre.

Distolsi subito lo sguardo. «Senti, non c'è bisogno di agitarti tanto. Siamo coinquilini. È normale potarsi a casa della gente, no? Oggi è capitato a te, domani potrebbe capitare a me...» La facevo sembrare una cosa da niente eppure dentro mi bruciava come l'inferno. Stavo solo cercando di essere ragionevole, anche se qualche minuto prima avrei fatto fare alla piccola - ma stronza - Lexie un volo d'angelo fuori dalla porta.

«Cosa? Vuoi portare qui dei ragazzi?» La voce gli uscì tagliente, seccata.

«Bé, non vedo perché no. C'è una regola a riguardo?» Mi ravviai i capelli. Ero esausta. «Insomma... non ne abbiamo mai parlato ma pensavo di poterlo fare.»

Il suo viso si indurì e un guizzo della mascella mi fece intuire avesse appena digrignato i denti. «Presumo sia normale, sì.» Sputò le parole una a una, con freddezza. Non era un discorso che gli piaceva, a quanto pare. «Persone... o meglio, ragazzi tipo Ogawa, se vuoi. Loro sono i benvenuti. Ma non ti porterai gente da scopare qui, proprio no... tassativo.»

Stiamo scherzando?

Lui si porta le sue amichette e io devo far la vita di una Monaca di clausura?

«E da quando sei mio padre, eh?» sbottai di colpo, alzando la voce. «Pago un fottutissimo affitto. E se voglio scoparmi qualcuno in camera mia non sarai certo tu a impedirmelo. La castità non c'era scritta nel contratto che ho firmato, sai?»

Se gli avessi dato uno schiaffo forse lo avrebbe accusato meno. Indietreggiò di un passo, gli occhi sgranati. «Hai intenzione di... di uscire con qualcuno?»

Ma di che diavolo stiamo parlando?

Come ci siamo finiti a parlare di questo?

Stavo per dargli un'altra delle mie risposte cattive quando sospirai stancamente e la mia voglia di litigare si sgonfiò come un palloncino bucato. Mi stropicciai gli occhi. «Senti, Thomas... ho mal di testa, non è giornata. Potresti per favore andare via e lasciarmi riposare?»

Strabuzzò gli occhi, confuso. Era abituato ad azzannarsi con me, non a questa arrendevolezza. «Cosa? Come? È per Lexie?»

«No, non è per Lexie... non è per la tua piccola, tranquillo.» Afferrai la maniglia della porta, aprendola e indicandogli l'uscita. «E ora... se permetti...»

«Cosa? Dici davvero, allora!» Incrociò le braccia al petto e gli spuntò un broncio grazioso. Odiavo trovarlo grazioso anche quando stavamo litigando. «No, cazzo, no! Non me ne vado.»

«Sei serio?» la voce mi uscì stridula.

«Sì, serissimo. Anzi, adesso ci sediamo e parliamo per bene.»

«Non mi va di parlare, dannazione! Come te lo devo dire?» sbraitai, aprendo ancor di più la porta. Ero così al limite delle lacrime che temevo di scoppiargli a piangere in faccia e allora sì che sarebbe stato davvero difficile da spiegare. «Voglio solo che te ne vai, cazzo!»

Avanzò di un passo, afferrandomi per un polso. Non strinse nemmeno, il suo tocco fu delicato, eppure in qualche modo mi ferì lo stesso. Forse perché nel farlo mi venne in mente che con quelle mani, prima, aveva toccato lei. E l'idea faceva troppo male. «Diavolo, Robin... ma che ti prende? Come devo dirtelo che tra me e Lexie non c'è niente, eh?»

«Davvero? Quindi chiami tutte piccola?» Strattonai il braccio, liberandomi dalla presa. «Guarda, lasciamo perdere. Non me ne frega un cazzo, okay? Se non esci tu da qui, esco io.» Ne avevo abbastanza. Non sarei rimasta un solo minuto in più nella stessa stanza con lui. Non in quel momento. Non con il cuore che mi faceva ancora così male e il petto che minacciava di scoppiare da un momento all'altro. «Me ne vado!» sbraitai.

Prima che però riuscissi a fiondarmi fuori dalla camera, lui riuscì ad appoggiare una mano sulla porta che, sotto il peso della sua pressione, si chiuse con un tonfo. Rimbalzai contro il suo petto e anche se tirai la maniglia con entrambe le mani non si mosse di un millimetro.

«Dannazione, Thomas! Mi vuoi lasciare sì o no?»

«Ma chi ti lascia a te» borbottò, con la faccia affondata nell'incavo del mio collo. Il respiro mi solleticava la pelle, scendendo come caramello fuso fin dentro i vestiti, sensuale tanto da scuotermi e riempirmi di brividi. Sentivo le sue labbra sfiorarmi il collo debolmente. Il tocco mi dava alla testa e quel corpo premuto contro il mio non faceva altro che ampliare l'opprimente assillo di quei sentimenti travolgenti e soffocanti. La tentazione di toccarlo, di girarmi e baciarlo, di prendermi qualcosa che forse nemmeno voleva darmi balenò nella mia mente per un istante e dovetti appoggiare la fronte alla porta per non cedere. Strinsi gli occhi e cercai di convincermi che i baci che c'erano stati tra noi... erano solo baci. E io, un tempo, di baci ne davo un'infinità, anche a gente che poi non avrei mai più rivisto.

«Lexie è come una sorellina per me. La conosco da quando sono piccolo. Era nostra vicina di casa e nel tempo, crescendo, abbiamo frequentato le stesse compagnie.»

Diavolo! Come ho fatto a non capirlo... è una Skulls.

Ma dove ce l'ha il tatuaggio se prima era mezza nuda e non gliel'ho visto?

Okay... questo forse è meglio non saperlo...

«La chiamo piccola per dispetto, per via della statura, del fisico minuto che la fa sembrare una bambina e per il seno assente. Lo odia quando lo faccio ma io mi diverto comunque a punzecchiarla.» Si schiarì la voce. «Non è un vezzeggiativo romantico... o qualcosa di simile. Anzi, non credo di averla mai guardata come un uomo può guardare una donna. Per me lei è e resterà sempre e solo la bambina rompipalle della porta accanto che veniva a interferire nei giochi di lotta miei e di mio fratello. Nulla di più.»

«Lei non sembra pensarla così, a quanto pare.»

Sospirò e lo sbuffo sembrò una carezza rubata. Mi venne la pelle d'oca. «Che ti ha detto di preciso?»

Glielo avrei dovuto dire? Era imbarazzante. Sembravo una fidanzata gelosa alle prese con la mal sopportata migliore amica di turno. Quelle invadenti, che si accollano al tuo moroso con la scusa che gli sono amiche. Solo che dai loro sguardi capisci che non vorrebbero essere solo quello. «Cose che... bé, insomma... ha lasciato intendere cose» risposi, vaga.

«Credo di piacerle.»

Mi scappò una risata. «Credi?»

«Sì, bé... non me lo ha mai detto chiaramente» borbottò. «E diciamo che non sono un gran esperto in amore. Quello capace è Märten.»

Ma come puoi essere così tonto e cieco?

Si vede lontano un miglio che quella ti vuole...

«Quindi voi...» Non ebbi il coraggio di terminare la frase.

«No, mai. Nemmeno un bacio.» Rabbrividii. Il piacere di quella notizia si diffuse nel mio corpo sotto forma di scossa. La tensione si sciolse, quasi istantaneamente, e la mia schiena cozzò contro il suo petto. Il piercing al capezzolo mi solleticò al contatto, un puntino duro da cui partivano una rete infinita di brividi e scariche. Il suo respiro si fece più pesante. «Vuoi... cioè, puoi girarti, Robin? Ti prego.»

Proprio ora? Col cavolo!

«No. Decisamente no.» Il rossore del viso mi avrebbe tradito. Ero un libro aperto. Soprattutto per lui.

La sua bocca si posò sul mio collo, indugiando un momento. Il tempo di un respiro trattenuto, infinito. Sentii la sua lingua tracciare una scia bollente lungo la linea della collana che mi aveva regalato e poi con un leggero risucchio l'afferrò tra i denti. Tirò poco, quel tanto che basta affinché il lucchetto mi picchiettasse sulla gola. Questa volta toccò a me respirare con affanno. «Ricordi cosa ti ho detto quando ti ho dato questa, vero?» Le sue labbra si muovevano piano, mimando le parole una a una, contro la pelle, a base della nuca. Espirai.

«Che mi dovevo far crescere i capelli?» azzardai.

«E poi?» Una scia di baci, lenti, calcolati, lungo tutto il filo d'oro. Sentivo i brividi corrermi su e giù per le braccia.

«Che - che una volta chiuso non avrei più potuto tirarmi indietro?» balbettai.

«E poi?» Lo sbuffo di un suo respiro mi solleticò dietro l'orecchio. Istintivamente piegai un po' indietro la testa, pronta a cedere a qualsiasi cosa mi avesse chiesto. In quel momento avrei potuto accettare ogni compromesso.

Chiusi gli occhi. Deglutii. «Che tu avresti...» Il suo piercing alla lingua ticchettò sul filo della collana e mi sfuggì un gemito. Ansimai. Non sapevo come ci riusciva. Lattner passava da freddo a bollente in tempo zero. E io con lui. «Che tu avresti tenuto la chiave?»

«Ci sei vicina, Robin... ci sei vicina.» Un altro bacio. E ancora uno. Meno delicato, più rude, l'accenno dei denti mi procurò un altro brivido. Le gambe tremarono mentre la mano che teneva sulla porta scivolava sulla mia, poi lungo tutto il braccio, fino a raggiungere il mio fianco. La pressione che fece fu minima, quanto basta per far schizzare la mia libido in paradiso, pronta per ricevere una Grazia. «Riprova di nuovo, Robin.» Quando diceva il mio nome gli usciva sempre con una pronuncia indecente, sconcia. Così audace che mi trovavo a stringere le gambe senza accorgermene.

«A - avevamo detto che... che...» Cercai di respirare. Sentivo l'eccitazione pulsare in ogni fibra, in ogni recesso di me. L'intensità di quel piacere riusciva ogni volta a destabilizzarmi. Mi invadeva come una marea, mi possedeva senza darmi tempo di reagire. Non ero mai preparata a lui. Mi umettai le labbra e ripresi a parlare: «che era un progetto a lungo termine e poi... poi avrei scelto se tenerla per sempre oppure no.» Ma quando lo dissi, in parte mi resi conto che la collana non c'entrava niente, non era mai c'entrata niente. Lui parlava d'altro. Parlava di noi, di lui. Aveva sempre parlato di noi, come avevo sospettato e segretamente sperato.

«Già. Questo significa che non ti libererai tanto facilmente di me, non credi?» La mano sul fianco lo strinse e carezzò. Una scossa e un brivido. Trattenni il respiro e lo buttai fuori. «Quindi sappi che ho molto tempo da sfruttare tenendoti qui contro la porta prima che ti ricrescano di così tanto i capelli.» La sua risata mi vibrò lungo la schiena.

«E la chiave?» chiesi, tutt'un tratto, ricordando un dettaglio non da poco.

«Non l'hai vista? Dici davvero?»

«Ero... ecco, diciamo... concentrata su altro.» Tipo lui appena uscito dalla doccia, a petto nudo, completamente bagnato. O Lexie e le sue allusioni. Quella dannata cinese che me l'avrebbe pagata cara.

«Allora hai un motivo in più per girarti e sincerartene con i tuoi stessi occhi.»

Sospirai. Aveva vinto. Vinceva sempre. E poi non potevamo certo restare così in eterno. E lui era uno che non mollava mai.

Si allontanò abbastanza da permettermi di voltarmi pur restando intrappolata tra le sue braccia, ora a lato del mio corpo, con i palmi sulla porta. Quando lo feci i nostri petti si toccarono e tenni gli occhi abbassati, senza incontrare i suoi, troppo imbarazzata. Il mio sguardo si soffermò sul capezzolo con il piercing. Era eccitante. Gli dava un'aria trasgressiva e meno ordinaria. Tutto diverso da come si presentava al Missan, e forse, era anche per questo che preferivo la versione casalinga di lui. Era un modo di essere che si concedeva solo tra quelle quattro mura, solo a me.

Però non mentiva. La collana era lì. Un filo di oro bianco sottile e lungo che gli scendeva fino agli addominali e ondeggiava una spanna sopra l'ombelico. E la chiave imbucata al suo posto.

Era un legame forte. Intimo. Vederla costrinse il mio stomaco a una capriola.

«Visto?»

«Già.» E senza rendermene conto allungai la mano e i polpastrelli si posarono sulla collana. Scivolarono lentamente su tutta la lunghezza, fino a soffermarsi sulla chiave. Lo sentii irrigidirsi e i suoi muscoli guizzarono sotto le mie dita. Un brivido si trasmise a entrambi, rimbalzando dal mio corpo al suo. O forse era stato viceversa.

«Ti sta davvero bene» rantolai. Ed era la verità.

Gli vidi i bicipiti tendersi un attimo prima che abbassasse le braccia, mettendomi le mani sui fianchi. Una presa forte e decisa, non opprimente né troppo eccessiva. «Piace molto anche a me, sì.» Sollevai il capo, volevo vedere la sua espressione, volevo cercare di leggere un po' di verità nei suoi occhi. Quando però i nostri sguardi si incrociarono si bloccò di colpo, accigliato. «Hai pianto.» Non era una domanda. La sua espressione diventò in un baleno un groviglio nero di emozioni. «È stato prima? È stata Lexie? Che diavolo ti ha detto per-»

Scossi energicamente la testa. La litigata con Takeru ribollì nella mente, risalì verso il bordo degli occhi già carichi di lacrime. «Ho litigato con... con...» Scossi di nuovo la testa, tormentando il labbro con i denti. Non volevo dirglielo, mi sembrava un po' come fare la spia. E se in qualche modo Takeru era invischiato con lui non volevo nemmeno che si prendesse un cazziatone a causa mia. Anche se gli sarebbe stato davvero bene visto come mi aveva trattato. «Io non... non mi va di parlarne. Per favore.»

Lattner si tese. La vene sul collo pulsò visibilmente, pronta a esplodere. Nello sguardo gli balenò una rabbia oscura, che ormai conoscevo bene. Il Re dei Teschi riaffiorò solo un istante mentre lasciava schioccare la lingua sul palato e la mascella si contraeva. Avrebbe indagato, ne ero sicura. Ma al momento sembrò preferire lasciar più spazio alla razionalità. Cosa non facile vista la sua espressione ancora omicida. Lo vidi però mandare giù un boccone di incazzature e sospirare. «E va bene.» Con un movimento fluido mi prese in braccio, voltandosi verso il letto. «Allora approfitteremo dell'occasione in un altro modo.»

«Cosa? Che? Che diavolo stai facendo?» Iniziai a dimenarmi. «Che intenzioni hai? Eh, Thomas? Thomas!» Non so se ero più agitata per ciò che aveva detto, per il tono allusivo o per il fatto che il mio corpo improvvisamente sembrava un fascio di terminazioni nervose scoppiettanti; molto simili alle lucine psichedeliche di un albero di natale strafatto.

Mi lasciò cadere sul letto e scivolò al mio fianco, afferrandomi per la vita e tirandomi contro di sé. Il naso mi andò a cozzare contro il suo petto mentre infilava le dita nei capelli e sentivo il suo mento appoggiarsi alla mia nuca. «Zitta e buona. Restiamo così per un po'.»

«Cosa? Ma - ma perché?» Aspirai una grossa boccata del suo profumo. Era buono. Così buono che mi ci sarei potuta abituare in fretta.

«Diavolo, ragazzina! Ci deve sempre essere un perché ogni volta che ti tocco? Non posso semplicemente farlo perché ne ho voglia?» Avvampai, resistendo all'impulso di sbirciarlo in viso. Di solito quando aveva uscite così esplicite arrossiva sempre, un po' come me. «Ti faccio un po' di coccole, no? Hai avuto una giornata del cazzo, pare!» aggiunse.

Non risposi e tacitamente accettai per una volta di farmi viziare.

Era strano stare così. Stesi vicini, con il mio viso premuto a lui e le sue mani indaffarate ad accarezzarmi la schiena e la testa. Lo sentivo giocare con le ciocche dei miei capelli mentre il suo respiro ci passava in mezzo. Non stavamo facendo nulla di sconcio eppure mi sentivo esplodere. Improvvisamente ero ben consapevole di ogni parte di me a contatto con ogni parte di lui. Tutto sembrava amplificato e per certi versi mi sentivo sopraffatta dalla sua presenza. Lattner era in grado di invadere i sensi, di catalizzare su di sé ogni attenzione, di eclissare tutto il resto.

Ben presto però mi rilassai. Il suo respiro scandiva il ritmo del mio. I problemi della giornata divennero banali e ordinari, la litigata con Takeru sembrò lontana anni luce e le preoccupazioni sparirono pian piano come una nuvola di fumo.

Lattner riusciva a regalarmi un sacco di emozioni, perfino la quiete. Quella che non avevo mai trovato da nessuna parte. Quella che avevo cercato disperatamente.

«È rilassante» dissi, dopo un attimo. Tenevo gli occhi chiusi, immersa nel suo profumo. Quella nota fresca e maschile era diventata parte del mio quotidiano. Sulla sua pelle, mescolata al suo odore, creava un mix dai toni inconfondibili. Probabilmente lo avrei riconosciuto ovunque, senza nemmeno bisogno di guardare.

Sospirai, rilassando le spalle e lasciai correre le dita lungo i bordi della zip della felpa, mi ci aggrappai sperando che quel momento durasse il più a lungo possibile.

«Sì, più o meno» rispose dopo un lungo silenzio.

Aprii un occhio e inclinando la testa lo guardai dal basso, ancora impiantata contro il suo petto. «Che vuoi dire con più o meno?»

«Non è facile rilassarsi con te vicino» borbottò. Le gote gli si tinsero di rosso all'improvviso, roteò gli occhi e fissò un punto alle mie spalle. Cercava di far l'indifferente ma tra noi era di nuovo calata quella tensione che ultimamente ci rendeva difficile ogni dialogo.

Era imbarazzo, era desiderio, era voglia di gettare all'aria ogni buon proposito e lasciarsi travolgere dagli eventi. Ma ognuno di noi restava buono al proprio posto, maturando tonnellate di frustrazione sessuale su tonnellate di frustrazione sessuale.

«Oh.»

Lattner si schiarì la voce. «Comunque potremmo fare pratica... sai, per prenderci la mano» azzardò. E nella voce percepii una sfumatura maliziosa. Aveva ancora il viso arrossato ma sulle labbra gli comparve uno di quei sorrisetti da delinquente, quelli che mi facevano dimenticare di respirare.

«Potremmo, sì» risposi, beccandomi un'occhiata di traverso, sorpresa. Forse non se lo aspettava. Sentii che il cuore gli aveva aumentato i battiti, sembrava una tempesta. Schiuse le labbra per dire qualcosa ma subito le richiuse e io mi accorsi che in quel momento non volevo altro che quelle. «Senti, Thomas... posso...» Esitai. «Posso chiederti un favore?»

«Ma certo.»

«Chiuderesti gli occhi per un istante?» Ero egoista, forse. Eppure volevo prendermi qualcosa di suo, affinché il ricordo mi restasse dentro per un po', scaldandomi nei giorni dove tutto andava a rotoli. Tipo questo.

Mi guardò con sospetto. Forse intuì qualcosa. Ma non ne fece parola anche se lo sentii irrigidirsi contro il mio corpo, così teso che mi parve avesse smesso perfino di respirare. Negli occhi balenò una scintilla di qualcosa. Un desiderio infuocato, un bisogno trattenuto.

Quando chiuse gli occhi mi presi un momento per guardarlo bene. Lo memorizzai con la mente e col cuore. Ogni dettaglio di lui. Inciso dentro di me. Dai capelli mossi e neri che gli conferivano un'aria ribelle, agli zigomi alti e la mascella definita o alle labbra rosee e invitanti. E fu proprio verso quelle che mi sporsi. Senza riuscir più a resistere.

Un bacio. Bocca contro bocca. Niente lingua. Fu un soffocare di gemiti. Gli presi il labbro tra i denti. Accorciai la distanza dei nostri corpi tirando i bordi della felpa e le sue mani, sui miei fianchi, irrigidirono la presa.

Ansimò, inarcandosi, piegandosi sotto il piacere di quel bacio che stava sgretolando entrambi.

Le mani mi scivolarono sul suo petto, sul collo, nei capelli. Li strinsi tirandogli indietro la testa e il suo bacino si premette contro il mio. Una sua gamba mi inchiodò al materasso. L'erezione crebbe al pari di quel desiderio, strofinandosi e andando a tormentare certi miei punti a cui avrei voluto dargli completo accesso.

Duro. Grosso. Pronto.

E con un piercing sulla punta predisposto per toccare ogni angolo del mio corpo in una carezza diversa, più stimolante ma anche più rude. Un dettaglio simile non poteva essere dimenticato.

Si staccò prima che uno dei due usasse la lingua, prima che scavalcassimo quel confine che stava facendo impazzire entrambi. Ansimavamo rumorosamente.

Lattner rabbrividii. Lo sentivo. Mi voleva. Tanto quanto io volevo lui. «E questo... per cos'era?» riuscì infine a domandare, il petto che si muoveva ferocemente su e giù, sbattendo contro il mio.

«Per ringraziarti.» Mi passai la lingua sulle labbra e lui ne seguì il percorso attirato come una falena dalla luce. Fu una riprova di quel desiderio bruciante.

«E di cosa?» domandò, a corto di fiato.

«Diavolo, Mr.Lattner! Ci deve sempre essere un perché ogni volta che la tocco? Non posso semplicemente farlo perché ne ho voglia?» lo canzonai, ritorcendogli contro una delle sue stesse frasi.

Quella scintilla famelica e lussuriosa gli illuminò di nuovo lo sguardo e agguantandomi per la vita mi girò di schiena, costringendomi ad appoggiarla contro il suo petto. «Ehi, ma che-»

«Zitta, ragazzina» mi parlò contro l'orecchio, la voce arrochita e bassa, le labbra che creavano un contatto impercettibile tra noi. Per un attimo, quando mi aveva girato di forza, mi era sembrato brutale, selvaggio. Appannato dal desiderio. E, sempre per un attimo, avevo sperato che uno dei due cadesse in errore e scivolasse un po' più in là, proprio oltre quel confine a cui restavamo aggrappati. «Zitta o qui non rispondo di me.»

E io non vedo l'ora Mr.Lattner.

Non vedo proprio l'ora.

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