22 - LITIGI

Dopo la soddisfacente vittoria ottenuta contro Lattner quella mattina, andare al Missan fu quasi... e dico quasi, piacevole.

Appena misi piede nella struttura Beth ed Eve mi raggiunsero pigolando novità come pulcini. A quanto pareva, Ramones aveva dato di matto per non essere stato avvisato della morte di Lin e non essere potuto venire con me al suo funerale. Mea culpa. Avrei dovuto dirglielo, sì. Ramones conosceva bene Lin e la considerava un po' come la nonna che non era mai riuscito a conoscere.

Ad ogni modo, lui e Takeru avevano discusso aspramente e ora erano tipo nemici dichiarati.

Bene.

Avrei dovuto occuparmi anche di quella cosa e sedare il loro eccessivo testosterone.

Beth mi passò una rotella di liquirizia. Amavo la liquirizia. «Ma sai che Mr.Lattner si è preso due giorni di permesso? Proprio dal giorno dopo che sei andata via tu.» Ridacchiò ma le sue parole trasudarono di allusioni. «Alcuni dicono che è venuto a spassarsela con te.» E nel suo sguardo lessi una punta di malizia.

Questo era uno dei motivi per cui non volevo che Lattner mi accompagnasse al funerale di Lin. Oltre al triste ricordo che poteva rievocargli, riportandogli alla mente il funerale di Samuel; c'era anche l'inconveniente che la sparizione di entrambi destasse sospetti. Soprattutto perché negli ultimi tempi in parecchi ci avevano visto battibeccare come due idioti in mezzo ai corridoio del Missan.

Magari nessuno pensava veramente fosse possibile, e quindi erano semplici pettegolezzi; ma alla Wood – che sapeva la verità – non doveva essere sfuggito. E volevo evitare che si ripetesse il casino del mese scorso, quando aveva tentato di tutto pur di frapporsi tra noi.

«Oh, sì. Abbiamo scopato selvaggiamente sulla tomba di mia nonna. Sai, a New York funziona così... chiedi a un professore giovane e figo della tua scuola di accompagnarti per fare sesso sulla tomba del tuo parente defunto. È tradizione. Tipo rituale di buon auspicio.»

Beth avvampò di colpo ed Eve starnazzò una risata, coprendosi la bocca con la mano. L'altra non l'aveva presa altrettanto bene. «Scusa, Rob... non volevo essere così indelicata. È stata un'uscita di pessimo gusto.» L'umiliazione dipinta sul suo volto mi fece credere che non ne avrebbe mai più fatto parola.

Bene. E anche questa cosa era sistemata. Scrollai le spalle. «Tranquilla. Ho sentito di peggio nella mia vita.» Le accennai un sorriso. «E comunque se avessi fatto davvero sesso... ora non sarei così frustrata.»

Le due risero e la tensione si stemperò, per fortuna; ma non mi sarebbe sempre andata così bene. Una cosa era certa: io e Lattner non potevamo sparire negli stessi momenti.

Avrei dovuto dirgli di farsi gli affari propri la prossima volta che mi crepava qualcuno in famiglia. Non che ci tenessi a ripetere l'esperienza così presto... ma sapete, non si sa mai, per precauzione. Anche gli stronzi come mio padre tirano le cuoia, prima o poi.

«Per caso avete visto Takeru questa mattina?» Cambiai discorso. E non appena lo domandai il mio giappo-minchiometro radar lo individuò come per magia contro un armadietto, mentre leggendo qualcosa sul cellulare si stava sbellicando dalle risate.

«Non ci credo! Dio, quanto sei sfigato!» lo sentii borbottare mentre ci avvicinavamo, con ancora un ghigno divertito sulle labbra. Rispose rapido al messaggio e quando sollevò la testa e ci vide per poco non gli cadde di mano il cellulare.

Quel dannato affare sembrava restargli per la maggior parte del tempo incollato alle mani ed era un po' che volevo chiedergli cosa lo avesse portato a diventarne tanto dipendente. Dopo tutta la faccenda di Sullivan, era cambiato. Dopo aver scoperto che Lattner era il motociclista, era cambiato.

Avevo un sacco di sospetti a riguardo ma lui manteneva bene il segreto. Non mi aveva ancora accennato niente.  Nemmeno una allusione. Eppure, quei suoi comportamenti strani ed evasivi, mi facevano credere che in realtà mi nascondesse ben più di questo. E l'ipotesi che si affacciava nei miei pensieri, era così spaventosa che non avevo coraggio nemmeno di prenderla in considerazione.

«Allora? Che si dice?» Cercai di sembrare disinvolta.

Sorrise. «Oh, niente di che. Il solito. Le solite cose.» Parlava in fretta, divorando le parole. Aveva la stessa frenesia di chi cerca di dissimulare qualcosa.

«Stavi leggendo una barzelletta?» azzardai, allungandomi verso il cellulare che ancora stringeva in pugno.

Takeru si mise subito sulla difensiva, come temevo. «Perché?» si affrettò a chiedere.

«Bé, ti ho visto ridere come un matto e... niente. Ero solo curiosa. Tutto qui.»

Le sopracciglia gli schizzarono in alto e si sistemò gli occhiali come faceva di solito quando era nervoso. «Non sono un tipo da barzellette» rispose, lapidario.

«Oddio... non mi dire. Io non... no  credevo che...» Mi finsi accigliata e imbarazzata al posto suo. «Ti prego, non dirmi che stavi guardando uno di quei porno strani che girano nel web. Non ti credevo il tipo ma... insomma, a volte certe esigenze lo richiedono.» Una tinta rossastra si fece strada nel suo pallore e presi la palla al balzo per fugare i miei dubbi. «Fa' vedere! Sono curiosa anche io ora!» Mi slanciai in sua direzione, cercando di afferrargli il cellulare dalle mani.

Normalmente me lo avrebbe lasciato fare.

Normalmente mi avrebbe detto che ero una stupida, una baka... e poi sarebbe diventato paonazzo mentre lo abbracciavo tediandolo con le mie solite molestie mattutine.

Normalmente non mi avrebbe spinto indietro con scortesia. Assolutamente.

Ma... lo fece.

Le sue mani si abbatterono contro le mie spalle con una forza che non mi aspettavo. Barcollai indietro, costretta a indietreggiare di alcuni passi. Lo fissai stralunata, trovandomi a corto di parole.

«Che diavolo fai, eh?» sbottò, scuro in volto. Non avrei saputo descrivere la sua espressione, sembrava un misto di panico e collera. Era strano vederla su di lui. Soprattutto nei miei confronti.

Mi colse alla sprovvista. Il mio Takeru non era questo. Balbettai qualcosa, deglutendo. «Io pensavo che...» Che cosa pensavo? «Non credevo che...»

«Non credevi cosa? Di fargli gli affari miei?» domandò tagliente. «Bé, lo stavi facendo.»

Non mi aveva schiaffeggiato, eppure mi sentii male come se lo avesse appena fatto; con tanto di gomitata invisibile ben assestata nello stomaco. «Non volevo, Take. Mi – mi dispiace.»

«Ti dispiace, eh? Dici sempre così e poi fai comunque quello che ti pare.» Infilò frettolosamente il cellulare in tasca. «Non ti rendi nemmeno conto che a volte fai cose che potrebbero dare fastidio.»

Trasalii. Quindi gli davo fastidio? I miei dispetti lo disturbavano? Perché non me ne aveva mai fatto parola? «Io non credevo che... cioè, avresti potuto dirmelo e...» E, cosa? Avrei stravolto il nostro rapporto? Cercai il suo sguardo in cerca di una spiegazione. Teneva la testa china, come se non volesse nemmeno guardarmi.

Sentivo di aver fatto qualcosa di sbagliato ma non riuscivo ad afferrare cosa. Noi eravamo sempre così. Eravamo sempre stati questo. Cos'era cambiato?

«Dirtelo sarebbe stato inutile. Tanto te ne saresti comunque fregata, no? In fondo a te non interessa davvero cosa pensano gli altri, no?»

Quando mi fissò in cagnesco inspirai l'aria con un sibilo, sentendo gli occhi pizzicare. Stavo per mettermi a piangere? Dannazione, no! Non era giusto. Non in modo così pietoso.

Eppure mi sentivo sull'orlo delle lacrime tanto che dovetti ricorrere a ogni briciolo di orgoglio per non farlo lì, in quel preciso istante.

Sembrò accorgersene perché la sua espressione si sgretolò, giusto un attimo, e mi parve riaffiorare il solito e conosciuto Takeru. «Senti, lascia perdere» borbottò, passandosi una mano sul collo e lisciando la suola delle scarpe sul pavimento. «Sono solo un po' stressato. E ci manchi solo tu con tutte queste domande e queste stronzate.»

Stronzate. Domande.

Nulla di tutto questo era mai stato un problema tra noi. Eppure sembrava esserlo diventato.

Quando vide che non sapevo cosa rispondere si agitò ancora di più. Evidentemente quel mutismo, proprio da parte mia, lo confondeva. In fondo, ero io quella con la lingua lunga tra i due.

«Ora è meglio che vada. Devo passare in biblioteca a prendere alcuni libri.» Afferrò da terra lo zaino e batté in ritirata senza nemmeno salutarci o darci il tempo per salutarlo.

Lo guardai sparire dietro l'angolo e il groppo alla gola divenne insostenibile, tanto che mi ritrovai più volte a deglutire bocconi amari. Improvvisamente la mia voglia di restare chiusa in quelle quattro mura scese sotto lo zero e la mia testa continuò a suggerirmi di scappare in bagno prima che fosse troppo tardi. Prima che tutti vedessero come anche Scorpion Queen può scoppiare a piangere come una ragazzina.

«Ma che testa di cazzo!» sibilò Eve, passandomi una mano sul braccio. «Deve essersi svegliato con la luna storta per essere così stronzo.»

Già. Non che la cosa mi risolevasse.

Io e Takeru avevamo da sempre avuto un rapporto diverso, speciale. Ci eravamo presi subito e tra noi si era sviluppato questo legame basato soprattutto sulla fiducia. Non esistevano segreti tra noi. I miei li sapeva tutti, dai più vecchi e navigati ai più recenti e pericolosi.

Io gli avevo affidato ogni parte di me, consapevole che fosse un rischio ma anche sicura che nelle sue mani fosse al sicuro.

Ecco perché questo comportamento mi spiazzava. Riusciva a ferirmi quasi più della cattiveria di mio padre, forse perché quella la conoscevo bene e ormai un po' ci avevo fatto il callo.

«Sicura di star bene?» Eve cercò di confortarmi non appena percepì che il turbamento non accennava a lasciarmi. «Forse... bé, forse Ogawa oggi era nervoso per i fatti suoi e se l'è presa con te per errore.»

Sì, certo, come no. E io sono Biancaneve.

Non appena tentò di essere ancora una volta carina, di carezzarmi, mi ritrassi di colpo; e ricordai il perché nella mia vita spesso avevo messo barriere tra me e gli altri: la gente mi feriva facilmente. Io venivo ferita facilmente. E basta un attimo perché tutte le mie corazze crollassero giù come un castello di carte e rivelassi a tutti la mia fragilità. Infatti, sarebbe bastata solo un'altra sua gentilezza per farmi sbloccare i freni delle lacrime che cercavo di ricacciare indietro da interi minuti. «Penso che... penso...» Frugai il corridoio con lo sguardo in cerca di un suggerimento. «Penso che andrò in bagno.»

Eve e Beth non commentarono. Accettarono quella mia ritirata strategica – ma non troppo – e con ogni probabilità ne compresero perfino il motivo.

Afferrai la borsa di slancio e quasi mi ritrovai a correre lungo il corridoio, finchè svoltando la mia faccia non si impiantò contro un petto marmoreo. Barcollai indietro. Era la seconda volta quella mattina.

«Ehi, guarda a dove diavolo metti i piedi» grugnii, pronta a prendermela con tutto il mondo.

Ramones mi fissò dall'alto al basso, con un bagliore a lampeggiargli nello sguardo, una scintilla di rabbia repressa che però non sfociò in nulla. Si spostò di lato, lasciandomi spazio per passare e tirò dritto per la sua strada. Mi aveva deliberatamente ignorato.

Lo afferrai per il braccio prima che se ne potesse andare. «Ram, possiamo parlare?»

«Per dirci cosa, capo?» Scrollò le spalle e si voltò a guardarmi. Era seriamente ferito. Glielo leggevo nello sguardo. In quel momento mi sentii un vero schifo a non averglielo detto. Quella giornata sembrava andare di male in peggio. «Non era importante avvisare uno come me. Tranquilla. L'ho capito.»

Le lacrime minacciarono nuovamente di traboccare. «Ho sbagliato, okay? Lì per lì ero scossa e... non riuscivo a pensare a nient'altro che – che...» Esitai. «Non ho pensato ad avvisarti. Hai ragione. Sono stata una cogliona, lo so. So quanto tenevi a Lin.» Erano le scuse più patetiche che avessi mai sentito. «Mi dispiace, Ram. Davvero. Mi dispiace.» Forse nemmeno sembravo convincente, non so. Il peso sul cuore in compenso era sempre più reale. E le lacrime dietro l'angolo, pure.

Ramones rimase immobile a fissarmi, la mano stretta attorno alla tracolla dello zaino che aveva issato sulla spalla. Dopo un attimo, che mi parve lungo un'eternità, il suo braccio si allungò fino a carezzarmi una guancia con le dita. «Va bene. In realtà lo capisco, è solo che...» Lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e l'amarezza gli deformò i tratti del bel viso. Cercò di sorridere ma gli uscì qualcosa di simile a una smorfia. «Devo solo farmene una ragione, suppongo. Mi serve solo un po' di tempo per digerire tutto e metabolizzare la delusione.»

Lo avevo deluso. Ed era ovvio. Aveva ragione ad esserlo.

Nel periodo in cui io e Ramones stavamo insieme si era trovato spesso a scorazzare per casa mia, e di conseguenza, aveva fatto amicizia con Lin. Tra i due c'era stata una buona intesa sin da subito e alla fine, ogni volta che gli chiedevo di venirmi a trovare, lui era ben felice di rivederla. Per lui Lin era una nonna, una confidente e una simpatica e arzilla vecchietta con cui scambiarsi battutacce. Si divertivano molto insieme. Ogni tanto le portava dolci o regali. E questo mostrava il buon cuore di Ramones.

Ero stata crudele ad avergli negato la possibilità di andare al suo funerale e piangerne la sua morte. Ero stata egoista. Avevo pensato solo al mio, di dolore.

«Capisco» borbottai.

Lui si limitò ad annuire e mi voltò ancora le spalle, questa volta per andarsene davvero.

«Mi – mi perdonerai, vero?» La mia domanda risultò più infantile e patetica di quanto avessi voluto ma lui non me lo fece notare, si limitò a sorridere.

«Tu che dici?» Mi scompigliò i capelli con una mano. «Non potrei vivere senza farlo.» E detto questo, mi lasciò lì, con una voglia pazzesca di riempirmi di insulti e piangere.

Quella mattina avevo sbagliato tutto. Tutto quanto.

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