2 - FACCIAMO FESTA

Bastò il primo colpo incassato a farmi rimpiangere di non aver continuato ad allenarmi anche a Detroit. Il piede mi scivolò indietro e il ginocchio sbatté in terra. Dovetti parare un pugno sollevando un braccio sulla testa. Lo scagnozzo indietreggiò e un altro si fece sotto.

Tre ne avevo già buttati giù, erano ancora in terra a trascinarsi sulle gambe e a tenersi lo stomaco. Altri quattro mi stavano attaccando.

Mi risollevai in fretta, consapevole che in quella posizione ero un bersaglio facile. Un uomo mi afferrò per le spalle cercando di bloccarmi e un altro venne avanti arretrando il braccio per colpirmi lo sterno. Feci leva contro quello che mi bloccava e sollevai le gambe impiantando la punta di un piede proprio sotto il mento dell'altro. Fu un colpo veloce ma abbastanza forte da farlo rotolare sul terreno. Si afflosciò come una bambola gettata lontano da un bimbo capriccioso. Intanto, il peso del mio corpo sbilanciò il ceffo che mi tratteneva e crollammo entrambi a terra; lui di schiena, io sopra. Ne approfittai per liberarmi dalla presa e sferrargli una gomitata. Restò immobile, con gli occhi sgranati e la faccia di uno che stava lottando per respirare.

Bene. Altri due a terra. Due in piedi. Troppi in piedi.

«Ti diverti O'Neil?» La voce giocosa di Sullivan mi fece serrare i pugni. Continuava a videoregistrare e ridere. Sembrava così divertito da quello spettacolino che l'impulso di scavalcare tutti quegli scagnozzi per mirare a lui mi stava facendo perdere lucidità. Ma non dovevo perdere la calma. Avrebbe pagato anche lui. A tempo debito. Non appena sarei riuscita a crearmi un varco in quell'ammasso di delinquenti.

Lo ignorai. Non c'era bisogno che gli riservassi una risposta. Le parole non servivano con uno così, presto avrebbero parlato i miei pugni.

Cercai con lo sguardo Takeru, era ancora chino in terra ma non gli vedevo il viso e sentivo l'urgenza di accertarmi che stesse bene, che respirasse. Quella distrazione però mi costò cara, percepii un fruscio ma non feci in tempo a spostarmi. Un calcio mi arrivò dritto allo stomaco, scivolai in terra e la mano si posò sul tirapugni.

Lo avevo buttato ma... nessuno mi ha vietato di usarlo, no?

Infilai le dita in un attimo, serrando il pugno e colpendo il delinquente che mi stava di fronte proprio nei testicoli. La faccia gli divenne viola e mi venne il dubbio che a breve sarebbe imploso. «Ho fatto un favore all'umanità a renderti impotente, stronzo!» biasciai, alzandomi e sferrandogli una ginocchiata al setto. Si ribaltò indietro e più si mosse.

«Hai recuperato un tirapugni, Scorpion Queen?» cantilenò Sullivan. «Forza, prendi anche l'altro... in fondo, sei sola contro tanti... prendilo e facci divertire ancora un po' prima di schiattare.»

Uno dei tanti uomini me lo lanciò. Lo afferrai al volo e indossandolo acquistai quel briciolo di sicurezza che mi serviva per non sprofondare nello sconforto. Tutto ricominciò da capo.

Erano troppi. Uno dietro all'altro. Uno dopo l'altro. Arrivavano a fiumi. Senza intervallo. Senza respiro. Continuavo a colpire e prendere colpi. Da ogni lato, troppi. Dai e prendi. Infliggi e ricevi. Più ne buttavo più, più ne arrivavano.

Un destro mi fece sputare un getto di sangue. Vedevo offuscato. La vista appannata da altro sangue. Qualcuno mi aveva colpito al sopracciglio, il taglio colava sull'occhio come una tenda. Questo sì che sarebbe stato un problema.

Merda. Qui ci resto secca davvero.

Tre uomini. Altri quattro di lato. Cinque dietro.

Avanzavano sempre di più, in numero sempre maggiore.

Se prima il flusso era stato costante ed ero riuscita in qualche modo a tener a bada tutti gli attacchi, ora il fomento della lotta li aveva spinti ad agire in massa. E io ero ancora una. Sola.

Uno dei delinquenti estrasse un coltello e la lama scattò fuori con un sibilo mentre fendendo l'aria tentava di colpirmi. Gli parai la stoccata con la mano, sentendo il coltello incidere la carne del palmo. Il rivolo di sangue mi colò lungo il braccio, fino al gomito, le goccioline caddero a terra disegnando una danza macabra. Senza preoccuparmi dell'ennesimo taglio lo disarmai con un colpo e il serramanico volò in terra. Lui lo seguì con lo sguardo e mi bastò quella sua distrazione per finirlo. Un pugno al fianco, uno alla mandibola e afferrandolo per le spalle lo tirai avanti per piazzargli una ginocchiata tra le costole. L'aria gli uscì con uno sbuffo, crollò in terra e ci restò. Uno in meno. Uno di troppi.

Avevo il fiatone e le gambe tremavano. Non volevo credere di essere arrivata al mio limite ma il mio corpo chiedeva a gran voce una pausa, del riposo.

Ne avevo buttati giù abbastanza ma non abbastanza.

«Sei stanca, Scorpion Queen? Vuoi una bottiglietta d'acqua? Vuoi un massaggio alle spalle?» berciò Sullivan, latrando una delle sue risate irritanti. Molti uomini lo seguirono a ruota.

Mente sgombra. Calma.

Stai calma, Rob. Ce la puoi fare. Non cedere. Non ora.

Sì, bé... sarebbe stato più facile convincersene se il numero degli stronzi presenti in quella stanza fosse diminuito. E invece sembravano aumentare, come scarafaggi, come luridi insetti brulicanti.

Mentre cercavo di valutare una possibile strategia da attuare, due tipi si fecero sotto in contemporanea.

Ero stanca, provata. Avevo preso botte, anche se ne avevo date altrettanto. Espirai aria con un ringhio e mi spostai all'ultimo, schivando entrambi i colpi per un pelo. Mi feci sotto subito, per non dar loro tempo di riorganizzarsi. A uno diedi tre gomitate nello sterno in sequenza ravvicinata, seguite da un pugno dello stesso braccio ancora impiantato nelle sue costole. Lo lasciai che stava scivolando in terra con lo sguardo riverso indietro e il bianco della sclera ben visibile. Scattando verso l'altro lo afferrai per la faccia, piazzandogli le mani sulle guance con due sonori colpi. Restò sgomento quando mi avvicinai abbastanza da poterlo baciare e non trovò il tempo di ritrarsi quando usai la mia testa dura come una ariete per colpirlo con la fronte al naso. Barcollò indietro, coprendosi la faccia con le mani, il sangue a colargli lungo i palmi e il mento.

Con un gesto stizzito mi ravviai i capelli usando entrambe le mani e sollevai lo sguardo. «Non importa quanti siete, non importa quanti arriverete.. Vi butterò giù tutti... uno ad uno, uno dopo l'altro.» Fissai quelli di fronte a me, a lungo, ferma immobile, inchiodando i loro occhi ai miei. Alcuni indietreggiarono, altri biascicarono imprecazioni, ad altri ancora sfuggì un risolino nervoso. Un crescente brusio si propagò per il sotterraneo, negli occhi di molti lessi il timore che cercavo di instillare sin dall'inizio. C'era una sorta di reverenza e rispetto in quegli sguardi sottomessi. Un tentennamento che mi avrebbe dato un vantaggio, forse. Nella mente sentivo scolpite le parole di mia nonna Lin, me le diceva sin da piccola, anche prima di partire: "Credici. Credici in ogni situazione, Robin. Credici anche quando hai la merda che ti galleggia sulla testa. Credici, perché se ci credi... funziona."

E se lo dice quella vecchia testa calda di Lin... deve essere per forza così.

«Che cosa cazzo fate lì impalati?» gridò Sullivan, sporgendosi dal soppalco con il viso paonazzo. Brandiva la videocamera come un'arma, la muoveva in aria furiosamente. «È solo una donna. Una fottutissima donna. Ed è sola! Sola, cazzo!» Sferrò un calcio a Takeru, ancora abbandonato in terra, e quella rabbia si propagò ai suoi uomini come un'onda che assale la riva e gli scogli. Si riscossero da quel turbamento e seguendo la scia di quella furia mi furono addosso in un attimo.

Mi ritrovai sovrastata, oppressa, chiusa da tutti quei corpi.

Troppi. Erano troppi. Ovunque.

Capelli tirati. Botte nello stomaco, nei fianchi, sul viso. Calci nelle costole, pugni, graffi, perfino morsi. Sputai un getto di sangue mentre afferravo il primo a portata di mano e gli spaccavo un braccio facendoglielo schioccare dietro la schiena. Lo gettai avanti, alcuni caddero in terra sotto il suo peso. Mi divincolai dalla stretta di due mani attorno al collo, colpendo il tizio con una ginocchiata alle palle. Svenne. Ma ne arrivano altri. Sempre di più. Troppi perfino per me, che di solito me la cavavo bene nelle risse di massa.

Merda. Merda. Merda.

In due mi afferrarono per il giacchetto. Uno da una parte, uno dall'altra. Il tessuto avrebbe ceduto se non mi fossi liberata. Mi abbandonai indietro di peso e si scontrarono tra loro mollando la presa.

Crollai in terra ritrovandomi piegata in un piccolo ritaglio dove mi sembrava impossibile perfino respirare.

È fatta, Rob. È finita. Questa volta non ce la fai. Sono troppi.

Venti. Trenta. Quaranta. Ne contavo tanti. Troppi. Ammassati sopra quel mio unico corpo. Una sola verso tutti. Impossibile perfino per la tanto temuta Scorpion Queen.

Sopra il tramestio delle botte, la risata di Sullivan sembrava la colonna sonora di quella lenta discesa nell'inferno.

Sputai un altro getto di sangue e afferrai qualcuno per i capelli usando la sua testa per colpire quella di qualcun altro. Se dovevo morire, qualcuno lo avrei portato con me, cazzo!

Un rumore simile a un boato echeggiò in tutto lo stabile, le finestre vibrarono a tal punto che per un attimo temetti sarebbero esplose in una miriade di schegge. Sollevarono tutti la testa, me compresa, sebbene restai a terra con ancora il sangue a colarmi lungo il mento e il collo.

Il fragore sembrò aumentare, amplificato in quel vuoto, allargandosi come un mostro, esplodendo tra i presenti. Aveva una cadenza regolare, come qualcuno che batte con forza sugli innumerevoli scalini che mi avevano portato fino a lì, come un tornado che scende fino all'inferno.

E quando i battenti della porta si aprirono con un tonfo non fui sorpresa di vedere un'enorme moto nera entrare a tutta velocità tagliando a metà la folla. Un casco, degli occhialoni enormi vintage, una bandana con il disegno di un teschio, un giacchetto di pelle.

Inchiodò vicino alla mia faccia con uno stridere di freni e nessuno mosse un solo muscolo, nemmeno quando spense il motore. «È qui la festa?» biascicò il Re dei Teschi, abbassando la bandana e rivolgendomi un sorriso sghembo che avevo imparato a conoscere fin troppo bene e che ora mi sembrava inconfondibile perfino in quella penombra. «Ehi, ragazzina... allora ho ragione quando dico che ti cacci sempre nei guai, eh?»

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