18 - IL FUNERALE DI UNA SCORPION

Lin era morta. Morta per davvero.

Non lo avevo voluto capire finché non avevo messo piede nel cimitero. E allora, tutto mi era sembrato più reale e la consapevolezza che non c'era più mi era piombata addosso, scavandomi un cratere al posto del cuore.

C'erano tante cose che avrei voluto dirle, o chiederle, ma ora mi rendevo davvero conto che non ci sarebbe stato un dopo. Il nostro "dopo" Lin ce lo aveva tolto e io ero rimasta piena di domande, di insoddisfazione, di dolore, di tristezza. E nemmeno sapevo come e dove convogliare tutto.

Mi morsi l'interno della guancia, restando immobile vicino a Lattner, con i tacchi che affondavano nell'erba soffice accanto alla tomba di Lin. Battevo i denti e non ero sicura fosse per il freddo. Nel mio petto sentivo un tumulto di emozioni che non riuscivano a darsi pace. Le lacrime erano sull'orlo degli occhi, pronte a scendere giù; erano ancora tenacemente ancorate solo per non dare ai presenti la soddisfazione di vedermi spezzata, fragile. Era uno spettacolo che non meritavano. Né loro, né mio padre.

Tornai a guardare la tomba e deglutii.

Le avevano fatto una bara bianca, mi venne da sorridere: Lin odiava il bianco. Suo figlio, mio padre, non la conosceva affatto. E dopo le ultime scoperte probabilmente nemmeno io. Ma forse, quello era solo l'ultimo smacco che voleva darle prima di buttarle sopra tre metri di terra.

Serrai le labbra e istintivamente strinsi la presa sulla tracolla della piccola pochette che avevo sotto mano. Avevo le dita gelate.

Lattner rimase immobile. Sempre al mio fianco. Mi chiesi se essere lì in qualche modo gli rievocasse ricordi spiacevoli sul funerale di Samuel. Questo era uno dei motivi per cui avrei preferito fosse rimasto a Detroit ad aspettarmi. Anche se avrei mentito a dire che non ero felice di averlo lì.

Con la coda dell'occhio guardai attorno a noi. La gente aumentava pian piano, come la marea. Arrivavano, stringevano la mano a mio padre, gli facevano le condoglianze e restavano immobili in attesa che il prete prendesse parola e dicesse le sue quattro stronzate prima di far calare la bara nel buco.

Un buco.

Mettono nonna Lin in un fottuto buco.

Un sapore acido mi risalì in gola e distolsi lo sguardo. Mi veniva da piangere, da vomitare, da gridare. E non per forza in questo ordine.

Di almeno una cosa però potevo essere grata: nessuno mi aveva rivolto parola. Sì, certo, si erano accorti di me. Tutti, tutti quanti. Mi notavano subito, mi guardavano e bisbigliavano. Occhi che giudicano, occhi che trasudano disgusto. Le loro malelingue ormai non mi scalfivano più, le sentivo scivolarmi addosso come acqua; eppure lo sentivo, quel mormorio crudele e inadeguato, che faceva da sottofondo ai miei pensieri e al mio dolore. I loro pettegolezzi sciamavano nel silenzio del cimitero. Non avevano rispetto nemmeno in un momento come quello.

Quando il prete iniziò la sua omelia, le voci si interruppero e rimase solo il basso singhiozzare di Adam. Mia madre e mio padre, lontani da me anni luce, rimasero immobili, stoici come montagne, impassibili. La mia presenza fu accettata tacitamente e quello fu l'unico mio sollievo. Nessuno tentò di negarmi quel momento, l'ultimo, con mia nonna. Anche se lei lo avrebbe odiato.

Lin avrebbe odiato quel silenzio, avrebbe odiato quelle lacrime, avrebbe odiato l'ipocrisia di certe facce stravolte a cui in realtà non fregava un cazzo di lei.

Lin avrebbe odiato quel posto, quel buco, quel corteo solenne, quella finta perfezione, quella finta disperazione. Troppa roba falsa, avrebbe detto. Meglio poca, ma buona.

E ora capivo meglio le sue parole. Inutile accerchiarsi di facce finte, se poi nei momenti veri e significativi, non avevi qualcuno con cui poter condividere anche le tue sconfitte. Son tutti bravi a starti accanto quando tutto va a gonfie vele.

Le parole del prete si dissolsero nei miei pensieri. Smisi di ascoltarlo dopo qualche minuto, persa con lo sguardo nelle rifiniture bianche di una bara che ero certa starle troppo stretta. Se non ricordavo male, nonna Lin, parlava di cremazione. Non voglio finire mangiata dai vermi, diceva. Ma anche in questo mio padre non le aveva dato scelta.

Strinsi i pugni e digrignai i denti.

Una folata di vento mi costrinse a stringermi nel cappotto. Sospirai rumorosamente e alcuni mi rivolsero sguardi pungenti e cattivi come aghi. Li ignorai. Lasciai vagare la mente, navigai in ricordi autodistruttivi, mi persi. E mentre credevo che presto sarei scoppiata in un pianto incontrollato, un frastuono assordante mi fece trasalire sul posto. Per poco non balzai in avanti, cadendo.

Riconobbi subito quel rumore, così familiare, così vicino e amico. Sembrava il ronzio di tante api, sincronizzate insieme in un'unica voce, in una danza perfetta. Preannunciava tempesta, un cataclisma... un ciclone.

Sollevai il capo di scatto, guardandomi attorno, guardando Lattner. In un attimo il mio cuore accelerò la corsa, come se avesse messo la quinta per scalare una salita, come se si fosse unito a sua volta in quel frastuono. Lattner non disse nulla ma sulle labbra notai l'incresparsi di un sorriso. Conosceva bene anche lui la provenienza di quel rimbombare.

Mi girai verso la provenienza di quel boato. Tutti ci girammo, a dir il vero. Perfino il prete smise di recitare le sue stucchevoli lodi verso una donna sconosciuta e che, probabilmente, se fosse stata presente gli avrebbe riso in faccia. Il dissenso e lo sgomento generale mi suscitarono una risata, l'unica che si liberò nel silenzio vuoto delle loro espressioni turbate. Mio padre fu l'unico a restare impassibile, inespressivo; il pallore però si accentuava di minuto in minuto.

Il rumore sembrò amplificarsi, allargarsi, abbracciare completamente quel luogo di pace.

E loro apparvero. Come una nube nera, come una tempesta.

Scivolarono lungo la strada che costeggiava il cimitero.

Erano decine, anzi no, molti di più. Mi si perdeva lo sguardo.

Tutti in sella a una moto. Facce conosciute e sconosciute.

I bolidi rombavano con forza sotto i loro corpi, fasciati di pelle, forgiati sulla strada a suon di botte.

Trattenni il fiato. Così tanto che mi bruciò il petto.

Gli Scorpion.

Gli Scorpion erano qui.

Si fermarono in file, con i motori accesi, le mani che battevano sui serbatoi come su un tamburo.

Una ragazza si alzò in piedi tra i tanti, la riconobbi, era Gena, una mia carissima amica. Aveva preso il mio posto quando avevo mollato. Sapevo di aver lasciato tutto in buone mani. Si infilò due dita in bocca e fece un fischio puntando l'indice verso il cielo. «Un saluto per Lin!» gridò. E gli altri fecero un fischio di risposta. «Un saluto per la prima Scorpion Queen!»

E tutti sgassarono. Con forza, chiassosamente, facendo stridere le ruote; fino a che un fumo bianco non li avvolse in una nube densa, quasi corposa. E a quel punto si attaccarono ai clacson, lanciando in aria i giacchetti e riprendendoli al volo. Si levarono grida e fischi, un applauso forte come lo scrosciare della pioggia.

Mi ritrovai a piangere, senza nemmeno essermi resa conto di quando avevo iniziato a farlo. Lanciai un'occhiata alla mia famiglia, stretta in un silenzio pesante a lanciarmi sguardi di rimprovero per qualcosa di cui non avevo colpa e non dipendeva da me. E poi capii.

La famiglia non è un legame di sangue. La famiglia è un legame di cuori, di complicità, di momenti belli e brutti passati insieme, di accettazione e presenze, di mani tese, di mani prese, di abbracci e rimproveri ma soprattutto... di amore. E io, ora, sapevo bene qual era la mia famiglia.

Sfilai i tacchi e corsi giù per la strada, calpestando l'erba fredda e bagnata, libera. Mi sentivo libera. Come se qualcuno mi avesse appena aperto la porta della cella.

Quando li raggiunsi Gena mi corse incontro e ci abbracciamo scoppiando a piangere in contemporanea. Al nostro abbraccio si aggiunsero tanti, tanti altri. Fu qualcosa di travolgente, che mi riempì di un calore e un amore così traboccante da togliere il respiro. Restammo un po' così, in un tempo che si prese altri secondi da aggiungere a ogni minuto, quasi volesse prolungare quell'attimo.

«Come sapevate che...» chiesi, singhiozzando. Mi tappai la bocca con la mano, scuotendo la testa.

Shane, uno dei primi Scorpion che avevo arruolato, mi ripulì le guance dalle lacrime. «Hood.» Segnò con un movimento del capo un uomo alle sue spalle, era parecchio su di età, forse dell'età di Lin. Ora che ci facevo caso ce n'erano parecchi che non conoscevo, grandi, fin troppo adulti. «Era uno dei primi Scorpion... di quando c'erano Lin e tuo nonno.»

«Io pensavo che...»

«Che cosa? Che non saremmo venuti?» chiese Joe, il mio attaccabrighe preferito, sfilandosi di bocca lo stuzzicadenti. Mi raggiunse dandomi un colpetto sul naso. «Lo sai che non saremmo potuti mancare, capo.» Capo. Ancora mi chiamavano così. Sorrise. «E poi... ricordi cosa ci diceva Lin, vero? Tutta quella storia sugli scorpioni...»

"Sai, Robin... le famiglie di scorpioni sono molto unite, non lasciano indietro i propri compagni. Se uno scorpione viene attaccato, tutti gli altri corrono in suo soccorso. È fedeltà. È amore. È famiglia. E sai come si chiama una famiglia di scorpioni? Si chiama ciclone. E dimmi, bambina... tu e i tuoi Scorpion non siete forse un ciclone? Non siete forse una forza della natura?"

Quindi era così.

Quindi si erano radunati tutti. Per Lin. Per me.

Sollevai gli occhi al cielo e sorrisi. «Hai visto, Lin? La tua famiglia è venuta a salutarti» gridai, allargando le braccia. «È venuta a salutarti...» Tutti tornarono a far sgassare i motori e suonare i clacson.

Se ci fosse stata, Lin sarebbe morta dalle risate e si sarebbe divertita un sacco.

Lattner ci raggiunse un attimo dopo, con le mie décolleté in una mano e la pochette nell'altra. Aveva gli occhi lucidi ma un sorriso raggiante. Lo afferrai per un braccio e gli indicai i miei ragazzi, tutti quanti, compresi quelli di Lin e che ormai non erano più ragazzi da un pezzo. «Sono gli Scorpion... loro sono... sono venuti. Tutti. Tutti quanti.»

Lattner si passò la pochette sotto il braccio e mi carezzò il viso, togliendomi un'altra lacrima con il pollice. «Ho visto, ragazzina. Ho visto. Un po' me lo sentivo che sarebbero venuti, sai?» Mi passò circolarmente un mano sulla schiena, in una calda carezza che mi fece rabbrividire. Il sorriso che mi rivolse fu la luce in grado di illuminare giornate nere come quella, quando la sua presenza diventava essenziale. Per un attimo rimpiansi la notte appena trascorsa e che fosse rimasto tutto il tempo fuori dalla stanza, tornando a chissà quale ora, quando ormai dormivo già da un pezzo. Ma lo avevo capito, ormai. Era uno bravo a scappare dai propri sentimenti, soprattutto se gli facevano paura. E forse non voleva ammetterlo ma quello che c'era tra noi gli faceva paura... una paura dannata!

Joe ci fissò inarcando le sopracciglia. «Ti ho visto già da qualche parte, amico?»

Oh, no...

«No, credo di no... sono di Detroit, non sono di queste parti» si affrettò a rispondere Lattner, passandomi le scarpe e aspettando le indossassi. Improvvisamente sembrava aver fretta. E sapevo anche perché.

«Sicuro? Hai una faccia che non mi è nuova.» Joe inclinò il capo e poi sembrò illuminarsi. «Cazzo! Tu sei-»

Lattner lo afferrò per la mano, stringendogliela fino a vederlo trasalire. «Thomas Lattner, sì. Professore di matematica del Missan College. Proprio io. Sono proprio io.» Lo scosse con forza, forse troppo alacremente. «Piacere di conoscerti, amico.» Lo sguardo che gli rivolse non mi fu per nulla nuovo. Un misto tra motociclista e demone. Una silenziosa ma eloquente richiesta.

Joe si staccò barcollando e fissò prima lui e poi me. Si ricacciò in bocca lo stuzzicadenti borbottando qualcosa di incomprensibile. Faceva così quando veniva zittito, si trasformava in un vecchio brontolone.

Lattner mi toccò il braccio, attirando la mia attenzione. «Lo so che vorresti stare ancora qui con loro ma dobbiamo andare... è arrivato il taxi e se tardiamo perderemo l'aereo.»

Annuii. Aveva ragione. Dovevamo tornare a casa. Finalmente.

Abbracciai i ragazzi ancora un'ultima volta. Io e Gena ci scambiammo qualche parola di conforto all'orecchio e ci promettemmo di restare in contatto. Questa volta avrei risposto ai suoi messaggi e alle sue chiamate, non sarei più scappata dal mio passato, dalla vecchia me.

Li lasciai lì, mentre rinnovavano il saluto a Lin e io mi infilavo nel taxi prima che a mio padre venisse un infarto. Quando chiusi la portiera mi voltai a guardare il cimitero, la strada, gli Scorpion, la mia famiglia... o forse ex famiglia, quella che avevo per troppo tempo cercato di compiacere.

Nonostante il dolore e le delusioni, dovevo ammettere che quel viaggio mi era servito molto. Avevo capito molte cose e una tra tante mi era sembrata la più essenziale: la famiglia non è quella di sangue, ma è quella che ci scegliamo. E io, avevo scelto la mia famiglia.

Mi voltai a sedere meglio e sorrisi a Lattner che ricambiò.

Sì, avevo scelto la mia...

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