15 - CASA O'NEIL E I SUOI SEGRETI
Era singolare come il tempo giocasse con i miei sentimenti. Sembrava allinearsi alle turbe del mio animo e dar voce a ciò che restava sigillato dietro le mie labbra e i miei occhi. Proprio come in quel momento, mentre i fiocchi di neve continuavano a cadermi sulla testa trasmettendomi un gelo che non aveva abbandonato il mio cuore dalla notizia di Lin.
Mi sentivo anch'io così: fredda e distante, pronta a svanire in un attimo con il semplice calore di un corpo, sola. Ero certa che l'abbraccio di Adam, quel giorno, mi avrebbe distrutto. E non ero pronta né a quello né a vedere i miei genitori.
Restai ancora qualche minuto in piedi davanti l'entrata del vialetto di casa, quella di New York, quella che per anni avevo considerato la mia prigione. Casa O'Neil.
Quella mattina avevo preso il primo volo a disposizione e ora mi trovavo proprio lì, davanti all'origine di tutto, dove non avrei mai voluto essere. E la serata passata con Lattner nemmeno una manciata di ore prima mi sembrava lontana anni luce. Era come se improvvisamente fossi stata catapultata indietro a qualche anno prima.
Serrai la presa sulla maniglia del piccolo trolley e mi accorsi che le dita erano gelide e sbiancate dal freddo. Non avevo coraggio a entrare e forse avrei fatto ancora in tempo a far dietrofront e tornarmene a casa mia. Sì, casa mia. Quella con Lattner.
Avrei dato qualsiasi cosa per averlo lì. E invece, quando ero partita quella mattina, gli avevo detto di restare a casa e non preoccuparsi. Ce la potevo fare anche da sola. Ce la dovevo fare anche da sola. Ci ero sempre riuscita in fondo, no? Eppure mentre fissavo le finestre ancora buie della mia vecchia casa, non ne ero più così sicura.
Presi fiato.
Le labbra fremevano per l'assenza di nicotina. In realtà scesa dall'aereo mi ero sparata una sigaretta dietro l'altra ma una volta arrivata davanti casa avevo messo via il pacchetto. Mamma odiava il fumo. E io mi ero infilata una gomma da masticare alla menta in bocca.
Diavolo! Sto ancora cercando di far bella impressione su di lei.
Quanto sono patetica!
Sfregai le suole sui ciottoli cercando di darmi un tono, o un contegno, e sfilai lungo il vialetto di casa. Quando arrivai davanti alla porta sentii l'impulso di scappare e non trovai coraggio di bussare ma qualcuno l'aprì ancor prima che sollevassi la mano.
Adam.
Mi fissava con gli occhi gonfi e rossi di chi ha perso l'intera nottata a piangere. «Pensavo che... non saresti entrata» farfugliò, guardando prima me e poi il trolley. «È più di mezzora che sei ferma immobile lì fuori.»
Mi aveva visto. Tutto abbastanza patetico.
«Non sai quante volte ci ho pensato ma Lin...» Distolsi lo sguardo. Faceva male anche solo pronunciare il suo nome.
«Adam, tesoro, chi è?» La voce di mia madre, calda e affettuosa, tagliò l'aria come un coltello. Un attimo dopo la vidi spuntare poco dietro mio fratello, le braccia strette al corpo come se avesse freddo. Era sempre lei, sempre bella, sempre elegante e irraggiungibile. Lo sguardo altezzoso ma così simile al mio, i fluenti capelli castani che le incorniciavano un viso dai dolci lineamenti e la figura slanciata che la faceva sembrare un'aristocratica. Quando ero piccola dicevo in giro che mia madre era figlia di una Regina misteriosa. I miei compagni ci credevano. Bastava vederla per crederci.
Vedermi non la fece esplodere in un attacco di urla isteriche e questa, per me, fu già una silenziosa vittoria.
Mi guardò però come si può guardare un fantasma e le labbra le tremarono visibilmente. Se fosse corsa a farsi un bicchiere di vino già alle otto di mattina lo avrei capito. Insomma, quando c'ero io nei paraggi era sempre così.
Tra di noi ci fu una lunga e intensa occhiata che mi mise a disagio, lo ammetto. La vidi allungare la mano verso il braccio di Adam e tirargli il tessuto della felpa. «Adam... tuo padre, lui... lo sai che lui...»
Tuo padre.
Non mio. Solo di Adam.
Io in qualche modo ero finita fuori da quella famiglia. Come può esserlo la pubblicità indesiderata che ti lasciano nella buchetta della posta o uno sgradito regalo da qualcuno di altrettanto sgradito.
Adam sollevò la mano mettendola a tacere. «Se ne farà una ragione. Anche lei ha diritto di essere qui. E poi, Lin non glielo perdonerebbe.»
Mamma divenne una statua di cera, assottigliò le labbra in una linea dura ed esangue e annuì, rigida. Quando si rivolse a me parlò frettolosamente: «Porta le tue cose in casa, Robin. La tua camera è...» Mi guardò ancora a lungo e girandosi si allontanò a passi svelti. Bé, sapevo dov'era camera mia. Non avevo bisogno di un tour turistico.
Adam tentennò ancora un attimo sulla porta ma pensò bene di non abbracciarmi. Mi conosceva. Sapeva che avevo bisogno di tempo per metabolizzare tutto quanto. A partire dalla morte di Lin a finire con l'essere ancora una volta sotto lo stesso tetto dei miei genitori. E sapeva anche che mi serviva la dose necessaria di coraggio per scavalcare la soglia di quella casa, così si limitò semplicemente ad aprire la porta.
E lo feci. Entrai.
La prima impressione, una volta dentro, fu di un tepore piacevole. L'odore di incenso mi solleticò le narici e non potei far a meno di prendere una grossa inspirata. A mamma piaceva accendere l'incenso. Anche a me. Era una cosa che avevamo in comune.
L'odore era di casa. Quello di sempre.
Un attimo dopo, la solita sensazione di clausura e prigionia tornò ad affollare sordamente i miei pensieri. Quella casa era stata la mia gabbia. Era stato il mio manicomio.
Adam si avviò lungo le scale e si guardò indietro aspettando lo seguissi. Sollevai il trolley e lo tallonai, camminando lungo i piccoli corridoi che tanto conoscevo bene. Quando arrivammo di fronte alla mia camera, Adam si fermò con la mano sulla porta. «È rimasta uguale a come l'hai lasciata tu» disse, cercando forse di rassicurarmi o magari farmi credere che in realtà non mi avevano totalmente dimenticato. «Papà vorrebbe usarla per farci uno studio privato ma mamma... bé, lei dice che è la tua camera.» Tirò fuori dalla tasca una chiave e la girò nella toppa.
Una stanza chiusa a chiave in casa propria. È un po' come quando si ha un angolo buio nella mente: non lo si vuole dimenticare ma non si va mai volontariamente a rievocarne i ricordi.
E forse ero così per loro. Qualcosa legato al passato, qualcosa di vecchio e che non si voleva aver sotto il naso nel presente. Mi sentii annodare lo stomaco ma restai impassibile. In questa casa mostrarsi deboli o mostrare i propri sentimenti era pericoloso. C'era sempre qualcuno in agguato pronto a giocare con il tuo cuore come il peggiore dei burattinai.
Il cigolio della porta mi fece pensare che era parecchio che nessuno l'apriva. O forse, per assurdo, veniva aperta troppo.
Impossibile. La tengono chiusa a chiave.
Adam accese la luce e si fece da parte. E quando sollevai lo sguardo, il mio cuore perse un battito e improvvisamente mi sentii di nuovo al punto di partenza, come se quei mesi a Detroit, al Missan College, nemmeno fossero esistiti.
«È davvero rimasta uguale» dissi, con un filo di voce, facendo alcuni passi avanti con una certa reverenza.
Le pareti bianche tappezzate di poster e foto, i libri sparsi, la scrivania incasinata e il letto. Tutto uguale. Il letto era stato fatto ma sembrava caldo, quasi fosse stato usato da poco.
Avanzai fino al centro e mollai il trolley. Allungando una mano toccai il comodino. C'era una cornice con una foto di me, Adam e Lin. E poi un'altra con me e Francine, la mia ex migliore amica. Vederla mi rimescolò lo stomaco. La presi tra le dita e la fissai. «Tu l'hai più vista?»
Adam annuì. Era ancora fermo sulla soglia. «Ogni tanto, quando vado a fare volontariato nel St.Paul. Sta meglio, sai?»
Certo, come può esserlo una imprigionata dai familiari in quel posto!
Il St.Paul era una struttura per vittime di abusi, malati di mente e pazienti con le più svariate psicosi. Ti mettevano lì per "sistemarti", dicevano. Nonna Lin invece sosteneva che ci rinchiudessero i matti, quelli irrecuperabili.
Francine, secondo le mie fonti, ci era finita di recente, dopo alcune crisi particolarmente forti, per fare un percorso di recupero. Dopo quello che le aveva fatto Joker non si era più ripresa. Ed era tutta colpa mia. Strinsi la foto tra le dita con un certo spasmo e la riposi notando la mano tremare.
«Ti lascio disfare i bagagli, sarai stanca e...» I nostri sguardi si incontrarono e Adam fece un passo avanti, e un altro ancora. E in men che non si dica mi trovai tra le sue braccia, in una stretta fatta di sussulti e pianti sommessi, di carezze e frasi sussurrate, di scuse, promesse e rassicurazioni.
Stringerlo di nuovo fu bello e doloroso al contempo. Mi ricaricò come può farlo una giornata di sole dopo tanta pioggia.
«Scusa se sono stato un po' assente nell'ultimo mese... in Africa, dov'ero io, non prendeva la linea e le poche chiamate che ho fatto le ho fatte a Lin. Sai, per non farla preoccupare.» Affondò il viso nell'incavo del mio collo e mi carezzò più volte la nuca. «Sembri più piccola con questo taglio di capelli» disse, per cambiare discorso, per non rendere tutto troppo triste e doloroso.
Sorrisi. «È pratico. L'ho fatto per comodità.»
Si staccò da me e mi carezzò ancora. Se lo avessi lasciato fare probabilmente lo avrebbe fatto per il resto della giornata. «Senti, che ne dici se ti aiuto e poi passiamo del tempo insieme?»
E così facemmo.
Sebbene il trolley fosse minuscolo, e al suo interno vi fosse un solo cambio abiti, ci mettemmo tutta la mattina per svuotarlo. Passammo più tempo a parlare, rievocare momenti, ridere e scherzare piuttosto che a tirare fuori quei quattro stracci che mi ero portata dietro.
Per pranzo Adam preparò due panini che mangiammo al volo, sfogliando album di foto qua e là e riportando alla mente stupidi e imbarazzanti aneddoti che mi riguardavano. Adam mi ricordò tante cose. Tante anche di Lin.
Nonna Lin era una donna meravigliosa. Aveva sempre ostentato una sicurezza che le invidiavo e una carica che mi aveva spinto a dare il meglio e il peggio di me. Ma sempre al massimo di quanto potessi, come se tenessi sempre spinto il piede sull'acceleratore.
Mia madre non si fece vedere per tutto il giorno. Sparita. Volatilizzata.
Non gliene facevo una colpa. La mia presenza le faceva male. Con ogni probabilità era uscita di casa per non avermi attorno. Era doloroso ma lo capivo. Anche se ancora faticavo ad accettarlo.
«Ah, dimenticavo!» disse ad un tratto Adam, alzandosi dal mio letto. Era ormai pomeriggio inoltrato e lo avevamo passato quasi tutto il tempo lì, in camera mia, sul mio letto. Come ai vecchi tempi. Io e lui. Sempre insieme. «Lin mi aveva detto di darti una cosa, un giorno.» Si passò una mano nei capelli sciolti, erano così lunghi e lisci che ero certa avesse una fila di ammiratrici solo per quel dettaglio. Per un attimo mi venne voglia di fargli una treccia, come le faceva lui a me. «Ultimamente continuava a ripetere che te l'avrei dovuta dare una volta che ti fossi sposata ma... bé, dopo quello che è successo... credo sia arrivato comunque il momento, no?»
«Io non devo sposarmi, Adam» rimbeccai, arrossendo.
«Sì, ma hai un ragazzo. E non me lo avevi nemmeno detto» mi rimproverò lui, uscendo di fretta dalla camera.
«Che? Io non ho nessun ragazzo» strillai, paonazza. Che diavolo di idea si erano fatti di me? O meglio, non c'era nulla di male nell'avere un ragazzo... piuttosto mi chiedevo come gli fosse venuta questa balzana idea.
Quando tornò aveva uno scatolone in mano e un pacchetto natalizio. «Sì, bé... ci ho parlato al telefono. Non fingere di no.»
Avvampai ancora. «Quello è... è il mio coinquilino. Non stiamo insieme.»
Adam si lasciò cadere sul letto. «Solo un coinquilino?» Ammiccò, dandomi qualche gomitata. Mi venne da ridere. Sembravamo tornati indietro di anni. «Puoi dirmelo, Rob. Lo sai che mi va bene se è un tipo a posto.»
Come glielo dicevo che Lattner era tutto meno che il mio fidanzato?
Era il mio professore, il mio coinquilino, il motociclista... ma no, non era il mio fidanzato. E, diavolo!, quanto avrei voluto lo fosse.
«No, davvero. Cioè... mi piace ma...» Mi abbandonai sul letto, intrecciando le dita sulla pancia. «È complicato.»
«È sposato?»
«Diavolo, no!» Saltai a sedere fissandolo stralunata.
«E allora cosa? Ha sessant'anni? Dalla voce non sembrava.» Posò il regalo di natale sul comodino e la scatola tra noi, la fissai con una certa tensione. Non sapevo cosa c'era al suo interno ma se Lin me la voleva dare solo in un momento tanto importante della mia vita come un matrimonio, forse era qualcosa che non andava aperto ora.
«Ha ventisei anni» borbottai, iniziando a giocare con un angolo dello scatolone. Non ero sicura di volerlo aprire. Forse avrei dovuto aspettare.
«Va bene, no? Insomma... tu ne hai diciotto, vai verso i diciannove. Otto anni di differenza non sono così tanti.»
Lo guardai. Sapevo l'avrebbe presa male ma... non avevo segreti con lui. Non potevo e non volevo tenerglielo nascosto. Non questo. Non a lui. «È un professore del Missan. Non del mio corso ma... resta pur sempre un professore del mio college!»
Adam ci mise un po' a fare due più due poi sgranò gli occhi e balzò in aria come se qualcuno gli avesse posizionato una molla sotto il culo. «Cosa? Che cazzo, Rob! Un tuo professore? Diamine! Oh, cazzo! Oh, merda!» Gli tappai di slancio la bocca mentre gli occhi rischiavano di schizzargli fuori dalle orbite.
«Zitto. Zitto. Zitto» sibilai. «Vuoi che ci sentano anche i vicini?» Mugugnò qualcosa di incomprensibile contro il mio palmo. Non lo lasciai. «E poi non abbiamo fatto nulla di nulla, ti giuro!» Bé, più o meno. «Lui mi considera come una sorellina.» Circa.
Sembrò calmarsi e solo allora lo mollai. Si ridiede un contegno tirando e sistemando la maglia, con un certo cipiglio. «Lin non me lo aveva detto questo» biascicò a denti stretti. Era contrariato.
Lin era stata più sveglia di me. Questo sicuro.
«Forse perché ti conosceva bene» ringhiai, fissandolo tanto male da fargli mettere il broncio. «Dovresti essere felice che qualcun altro si occupa di me senza strane pretese. È il mio professore... non farebbe mai nulla di sconveniente. Che ti salta in testa, eh?»
Okay, forse ero un po' stronza a voler far sentire Adam in colpa. Forse stavo dicendo un sacco di bugie. Forse Lattner non era così santo né senza pretese come lo dipingevo. Forse stavo puntando proprio a fargli commettere cose sconvenienti.
Dannazione, Lattner! È sempre colpa tua.
Adam si grattò la nuca. «Sì, bé... hai ragione ma... non è quello che mi preoccupa. Continuo a dirlo: ha ventisei anni e come età sarebbe anche okay se voleste mettervi insieme. Però...»
«Però, cosa?» Mi piazzai le mani sui fianchi.
«Se vi scoprissero, Rob... lo licenzierebbero. E tu verresti espulsa.» Si abbassò afferrandomi per le braccia. «Ma ci pensi a mamma e papà se lo scoprissero? E se venissi buttata fuori anche dal Missan?» Mi lasciò andare, camminando su e giù per la stanza. Due falcate in avanti, due falcate indietro. E di nuovo tutto da capo. «Cristo! Dove ti manderebbero dopo? In Alaska? Su Marte?»
Capivo le sue preoccupazioni. Erano anche le mie. Ma ormai era troppo tardi. Non volevo andare da nessun'altra parte se non lì, nel mio appartamento a Detroit, insieme a Lattner. Ci avevo messo un po' per capirlo e per un momento ci avevo quasi rinunciato a causa della Wood, ma ora, ero certa che avrei lottato con tutta me stessa per quel posto. E forse un po' anche per Lattner. «E quindi che devo fare? Andare a dormire sotto un ponte?»
Restò a battere il piede in terra per qualche minuto, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo contratto in un'espressione pensosa. Vedevo già la sua mente volare verso mille scenari diversi. Poi mi guardò, inarcando un sopracciglio. «Hai detto che è un tipo serio, vero?»
«Sì. Assolutamente. Serio al quadrato. Anzi, serio da noia mortale a volte. Una vera pizza.»
«E non ti vede come una donna ma come una sorellina, vero?»
«Sì. Assolutamente. Sorellina piccola a cui deve badare come fratello maggiore.» Stavo per giocarmi una carta brutta ma, insomma, dovevo: «Sai, ha perso un fratello quando aveva la mia età. Credo che proietti su di me l'immagine del fratello perso.» Okay, usare Samuel per questo era una cosa da veri infami ma avrei fatto di tutto pur di rassicurare Adam abbastanza da non fargli fare un'improvvisata a casa Lattner con tanto di scenata isterica. In ogni caso, Samu avrebbe approvato. Quale altra pazza sennò si sarebbe presa cura del suo fratello complessato? Di certo non la Wood.
Adam sospirò e annuì. «Okay, va bene. Non mi piace molto la cosa ma... va bene. Però... vi prego, fate attenzione.» Si rimise a sedere al mio fianco, accarezzandomi più e più volte il viso. Ero sicura che non sarebbe finita qui. Non finché non lo avesse incontrato di persona, per lo meno. Conoscevo mio fratello e il suo animo iperprotettivo. Lo avrebbe voluto vedere per capire se c'era davvero da fidarsi. «Sono solo preoccupato. Lo sai.» Mi limitai ad annuire e lui cercò di cambiare discorso scuotendo la scatola. «Forza, dai! Aprila. Sono curioso anche io» disse, euforico, cercando di non sembrare più preoccupato. Anche se sapevo che mentiva.
La presi posizionandomela sulle gambe e le mani presero a tremare. Dovevo aprirla proprio ora? Nonna Lin aveva detto altro. Lisciai la superficie con le mani, esitante e poi tolsi lo scotch con uno strappo. «Adam... se è un vestito da sposa ti giuro che...» Ma quando lo aprii, rimasi a fissare il suo interno di stucco.
Lo guardai per così tanto che mi salì un groppo in gola e scoppiai a piangere senza nemmeno aver visto tutto il suo contenuto. Adam rimase immobile al mio fianco, dandomi tutto il tempo per guardare, per assimilare, per capire, per accettare.
Quando affondai le dita nello scatolone, la prima cosa che incontrarono fu la ruvida pelle di un giacchetto. Lo sollevai sentendo gli occhi pizzicare, mentre me lo rigiravo tra le mani e scuotevo la testa. Era vecchio di anni, decenni, eppure sulla sua schiena aveva cucito uno scorpione e una rosa che conoscevo molto bene. «Quando... quando me lo avrebbe detto, eh?» singhiozzai. «Quando?» Tremavo.
«Che era stata la prima Scorpion Queen? Che era stata lei a fondare la banda? Non saprei. Io lo scoprii per caso, un giorno che sfogliava delle foto.»
La gola mi si strinse in una morsa. Il cuore tremò. Guardai quel giacchetto così simile al mio, così vicino a me, così conosciuto. Eppure era un cimelio inestimabile. Qualcosa di antico e che in qualche modo creava solide fondamenta nel mio animo, nella mia persona. Sapevo della sua esistenza ma pressoché nulla della sua proprietaria. E invece, era lì, a un palmo da me, così vicina, così uguale.
Nonna Lin mi aveva sempre difeso. Sempre. E aveva sempre creduto a ogni mia parola. Sempre. Forse proprio perché lei stessa aveva, prima di me, camminato un percorso simile.
Ci affondai la faccia singhiozzando. Annusai il suo profumo e per un attimo mi sembrò di stringerla tra le braccia. «Poteva dirmelo» gemetti, tra le lacrime. «Doveva dirmelo. Doveva raccontarmi la sua storia. Doveva... doveva...» ...impedirmi che facessi i suoi stessi errori.
«A me disse che non era ancora il momento giusto, che dovevi fare la tua strada e che un giorno avresti capito.» La mano di Adam prese un plico di lettere, trattenute da un filo di spago. «Qui c'è tutta la corrispondenza che si scambiò con nonno quando fece il servizio militare. Ma qui...» Prese un altro plico di lettere. «Queste sono tutte per te. Le ha iniziate a scrivere quando sei entrata negli Scorpion.»
«E tu come lo sai?»
«La spiavo» disse, candidamente.
Gliele sfilai di mano con una specie di gelosia perversa e me le misi in grembo poi continuai a rimescolare nello scatolone. Alcuni diari. Anzi, decine di diari. E foto. Tantissime foto. Foto su foto. Ma una mi colpì in particolare. La sollevai fissandola sorpresa e dalle labbra mi uscì una risata. Secca e forte, tanto che mi premetti la mano sulla bocca.
Nonna Lin sapeva tutto di me e Lattner. Sapeva perfino che lui non è proprio un semplice professore.
E mi voleva mandare un messaggio, chiaro e forte.
«E questa cos'è?» chiesi.
«Il suo matrimonio, no? Non si vede?»
Si vedeva benissimo. La cosa assurda erano il luogo, gli invitati e i vestiti.
Nonna Lin sorrideva raggiante e giovane. Mi assomigliava davvero un sacco, aveva ragione quando lo diceva. Indossava un vestito da sposa con sopra il suo giacchetto da Scorpion Queen e teneva a braccetto un uomo, che sembrava mio nonno, dall'aria tutt'altro che onesta. Anzi, sembrava in tutto e per tutto un teppista. Anche lui aveva il vestito elegante e tipico dei matrimoni ma anziché la giacca del completo indossava un altro giacchetto di pelle. Con delle borchie perfino. Attorno a loro una distesa di moto e decine e decine di persone dall'aria scapestrata ma felice. Gli Scorpion. Una banda. Ed erano in un parco. Nonna Lin si era sposata in un enorme parco all'aperto. Ed era addirittura scalza.
Ribelle. Libera.
Lo è sempre stata.
«Questo è...» Indicai lo sposo.
«Nonno, sì» rispose Adam, imbarazzato. Si grattò la nuca e ridacchiò. «Era un teppista. Ci credi? Nonno!»
«Non ho molti ricordi di lui.»
«Bé, eri piccola quando è morto. Era un brav'uomo. Faceva il medico.» Come tutti gli uomini della mia famiglia. Nonno, papà, Adam... tutti medici.
«Ma papà non ha mai accennato al passato di nonna.»
«E mai lo farà. Lo sai, per lui queste cose sono...» Non terminò la frase ma sapevo che cosa voleva dire. Queste cose per lui erano solo fonte di vergogna. Roba da dimenticare. «Vuoi che ti lascio un po' di tempo per guardare da sola il resto? Tanto mamma non penso verrà in camera tua e papà torna da un meeting domani.»
Scossi la testa e con attenzione rimisi tutto dentro la scatola. Anche il giacchetto, ripiegato con cura. «No, grazie. Penso che lo farò quando sono a casa. Ho bisogno di più tempo per... per...» Indicai lo scatolone con un ampio movimento e presi fiato. «Per tutto questo.» Rimasi immobile stringendo il cartone tra le mani e le lacrime che non volevano smettere di scendere giù. Non c'era verso di fermarle. Non ora che avevo aggiunto un tassello così importante a tutta la mia vita.
Adam non obiettò. Sapeva com'ero fatta.
"Ce l'abbiamo nel sangue, Robin. Hai lo spirito delle O'Neil che ti scorre nelle vene. Te la caverai perfettamente, noi ce la caviamo sempre, in un modo o nell'altro."
Lin me lo aveva detto così tante volte. Così tante.
E solo ora capivo perché.
Nonna e nonno non erano poi così tanto diversi da me e Lattner. E se tra loro era andata bene, chissà, magari potevo sperare che la fortuna si ripetesse, no? Era questo che voleva dirmi Lin, no? Che l'amore ti trova sempre, anche se deve passare per vie sterrate.
Aspettai che Adam uscisse dalla camera e mi lasciasse sola; poi infilai la scatola sotto il letto e mi chiusi in bagno.
E mentre l'acqua scorreva e riempiva la vasca, piansi ancora. Piansi tanto. Piansi tutto.
Solo quando mi trovai ammollo mi venne in mente di fare qualcosa che mi ero promessa di non fare, così afferrai il cellulare ignorando l'infinita lista di messaggi e composi un numero. L'unico che ora mi interessava.
Non fece nemmeno uno squillo che Lattner rispose subito. «Ehi, forestiera! Allora sei viva!»
Sentirlo fu una liberazione. Fu quella carezza, quel balsamo per le orecchie che ora mi serviva. Rilassai i nervi e mi spuntò un sorriso. «Ehi, ciao» lo salutai, strascicando le parole, in un sussurro. Con la mano libera mi passai la spugna sul corpo.
Lo sentii schiarirsi la voce. «Cos'è... cos'è questa voce erotica? Hai sbagliato numero e volevi chiamare un servizio di quelli a pagamento?» Sembrava a disagio. Forse il mio tono lo aveva imbarazzato. Era divertente vedere come si agitasse per nulla a volte. Quando riuscivo a prenderlo alla sprovvista usciva sempre questo lato di lui che trovavo adorabile.
«Bé, pensavo sarebbe stato lo stesso... ma gratis.»
Silenzio. «Mi stai prendendo in giro, vero?»
Sorrisi. «Forse sì. Forse no. Chi lo sa.» Mi sentivo sfinita. E avevo bisogno di stuzzicarlo e distrarmi. Avevo bisogno di provare qualcosa perché la voragine che sentivo crearsi nel mio petto sembrava un vuoto incolmabile.
«Sei sicura di stare bene?» Questa volta fui io a zittirmi. Mi asciugai frettolosamente delle lacrime e per poco il cellulare non mi cadde in acqua. «Ehi, ragazzina?»
«Come? Sì... ma certo. Sto bene.»
Rimase qualche attimo in silenzio. Ero sicura non se la fosse bevuta. Lattner aveva un sesto senso per i miei stati d'animo. Non era un tipo insistente ma nemmeno uno stupido. «Okay. Ti credo. Ma dimmi... dove sei ora? Ti sento strana. Come se fossi in una bolla. Avevi detto New York... non sulla luna.»
Sorrisi. Sapeva dov'ero. Gli avevo perfino lasciato l'indirizzo, per sicurezza. Mossi appena le gambe, increspando l'acqua. «Sono in bagno. Nella vasca.»
«Nuda?» domandò di getto, con un tono a metà tra il sorpreso e il turbato.
Risi. «Oh, no. Vestita. Anzi, con una tuta da sub per la precisione. Sai, io faccio così il bagno, di solito.»
«Sì, bé... è che... ho – ho pensato che... insomma pensavo che... cioè, mi è solo venuto in mente...» iniziò a farfugliare.
Risi di nuovo. Diamine, quanto mi mancava. «Mr.Lattner stava forse ricordando quella volta che mi ha salvato da quel ragno?»
Altro silenzio. «Può essere» borbottò. E anche se non lo vedevo fui certa che questa volta fosse arrossito.
«È disdicevole.»
«Ho ventisei anni. È... normale.»
Quindi anche lui mi pensava come un uomo può pensare a una donna. Bé, dopo quello che era successo al Count un po' lo avevo anche immaginato.
Sospirai e mandando indietro la testa mi allungai. L'acqua fece un leggero sciabordio. «Mi manca casa. Mi manca Muffin. E ti sembrerà assurdo ma... mi manchi anche tu!» Arrossii.
Ecco. Lo avevo detto. Però al telefono era più facile.
Al di là della cornetta non si sentì nessun rumore, solo un lungo sospiro. «Mi manchi molto anche tu.»
Trattenni il respiro. Non pensavo mi avrebbe risposto. In realtà non mi aspettavo alcuna risposta. Sentirglielo dire a sua volta fu devastante.
«La casa senza di te è vuota. Ho il bagno tutto per me ed è noioso poterlo usare subito senza veder i limiti che la mia vescica può raggiungere prima che Vostra Signoria me lo ceda.» Risi. «Mangiare da solo è uno schifo. Oggi ho fatto da mangiare e apparecchiato per due... fa' te. Ho dovuto invitare Märten... e sai quanto lo trovi seccante.» Sospirò e io mi ritrovai a tormentare il labbro con i denti. «Stasera poi... avrò tutto il divano per me e potrò guardare i documentari che ti fanno tanto schifo. Starò comodissimo e non rischierò di svegliarmi incastrato al tuo corpo come un tetrix. E per casa, pensa!, non sento più nemmeno il tuo odore... anche se, bé... mi basta toccare qualsiasi cosa perché rispunti come una zaffata di profumo. È la prima notte che dormi fuori, lontana, sotto un tetto diverso dal mio. E non so, mi sento agitato... come se ci fosse qualcosa che manca. Insomma, sei seccante, molesta, un vero problema e a volte perfino stupida ma... ho perso l'abitudine di stare solo. O forse ho solo perso l'abitudine di stare senza di te.»
Ero paonazza. A livelli indescrivibili. Il cuore batteva così forte che a stento credevo che i suoi battiti non avessero trasformato l'acqua della vasca in un piccolo maremoto. Non riuscivo nemmeno a respirare. Era come se mi si fosse incastrato qualcosa in gola. Probabilmente il mio cuore, lo stesso che a breve avrei vomitato nella vasca.
Mai avrei pensato di sentirgli dire parole tanto dolci e significative. Perché avrebbe potuto negarlo all'infinito ma in quelle parole traspariva ben più del semplice affetto che un coinquilino può avere verso la propria coinquilina. E anche se non volevo illudermi era impossibile ignorarne l'importanza.
«Se – sei grande e grosso... te la caverai anche senza di me per qualche giorno» farfugliai dopo un po', sicura di non essere stata per nulla convincente.
Sospirò. «Già. Solo qualche giorno.»
«Solo qualche giorno» ripetei, socchiudendo gli occhi e lasciando che il suo respiro mi cullasse.
Qualche giorno lontano... eppure sembrava un tempo infinito. E a me già mancava.
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