14 - STASERA NON SIAMO NESSUNO
*** Prima di lasciavi alla lettura... lascio qui sotto i link delle canzoni presenti nel capitolo, non si sa mai che a qualcuna di voi venga voglia di farsi la lettura con la stessa musica annessa 😂
Sarei potuta essere in un cinema a guardare un bellissimo film horror o magari a pattinare sul ghiaccio. E invece no. Avevo dato buca a Ramones per essere lì, quella sera, nel locale meno organizzato al mondo. Ma il Count sembrava essersi evoluto. Era cambiato molto dall'ultima volta che ci avevo messo piede. L'enorme stanzone era stato diviso in più stanze e al centro di ogni pista campeggiavano dei cubi quadrati alti da terra di almeno un metro e larghi due per due. Enormi abbastanza da farci stare sopra anche più di una persona. E da quello che potevo vedere, erano capitanati dai più disparati esibizionisti.
C'era più gente perfino della prima volta, alla serata d'apertura.
Eve e Beth si strinsero tra loro ridacchiando sommessamente. Avevano l'espressione stralunata di chi vede troppo "ben di Dio" e non sa dove partire a mettere mano. Un po' le capivo. Il Count era pieno di ragazzi e molti erano davvero niente male.
Beth sondò avidamente la pista. Cercava una vittima sacrificale... o qualcosa di simile. Ci aveva già annunciato di volersi dare alla pazza gioia. «Se stasera non trovo qualcuno che mi faccia passare la mia cotta per Lattner... giuro che mi incazzo!» Ecco. Come pensavo. Non le era passata.
«Oh. Mio. Dio!» biascicò Eve, scandendo ogni parola con enfasi. Mi afferrò per un braccio, facendomi voltare di scatto. Takeru alzò la mano in saluto e ci venne incontro. Io lo avevo già visto e avevo già espresso la mia dose di sorpresa e perplessità ma le ragazze ancora no e quella sera meritava davvero di essere guardato con quegli occhi fuori dalle orbite. Niente occhiali, capelli scompigliati dal gel, una maglietta bianca dalle maniche a tre quarti con disegnato un enorme teschio e dei jeans che gli stavano su per miracolo visti tutti gli strappi. Sembrava la versione più seducente del Takeru Ogawa sempre posato e castigato del Missan. Anche la camminata sembrava aver qualcosa di più. Più sicuro, più padrone di sé, più spavaldo. Come se avesse imparato ad affrontare il mondo.
Eve continuò a scuotermi per un braccio. «Quello è... è il nostro... lui è Ogawa?» Risi. Io l'avevo presa peggio. Avevo aperto la porta e gli ero quasi collassata di fronte. Un cambio così radicale doveva come minimo essere annunciato. Lattner era uscito di casa un attimo dopo posandogli una mano sulla spalla e dicendogli qualcosa, veloce. Un complimento? Una raccomandazione su di me? Sapevo solo che tra i due c'era stata un'occhiata intensa che non mi era sfuggita.
Takeru ci raggiunse con un ghigno seducente. Puntellò i piedi davanti a Eve, si piazzò le mani sui fianchi e la fissò divertito. «Allora, Miss Roches... cosa aveva detto tempo fa? Che sto bene anche senza occhiali?»
Eve si girò a guardarmi in una muta richiesta di aiuto, aveva il viso rosso e la bocca schiusa. Le risi in faccia. «Spiacente. Non è il Takeru che conosco... sembra tutt'altra persona... anzi, sembra quasi...» lo fissai. E lui fissò me.
Sembra quasi...
Una folgorazione.
Merda. Sembra quasi Lattner!
Per poco non proruppi in una parolaccia estremamente colorita. Lo afferrai per entrambe le braccia e lui fece una smorfia di dolore, sorpreso. «Chi ti ha aiutato a vestirti, giappo-minchia?»
Roteò gli occhi. «Mi vesto da solo da quando ho cinque anni. Grazie per l'interessamento.»
«Non scherzare, Take! Sono seria.» Che cosa c'era tra lui e Lattner? Come avevo fatto a non notare quel loro improvviso avvicinamento?
Non se la fa con Beth di nascosto, no.
Se la fa con Lattner!
«Un amico!»
«Quanto amico?» Cos'altro gli aveva insegnato oltre che vestirsi da sciupa-femmine?
Si liberò con uno scatto. «Abbastanza amico... perché?»
«Bé... perché... perché...» Fui sul punto di vuotare il sacco ma guardandomi attorno capii che non era né il momento né il posto giusto. Mettersi a parlare seriamente con quella musica sparata a tutto volume era un'impresa impossibile. Soprattutto con Eve e Beth presenti. Quindi feci un profondo respiro e ingoiai un macigno di delusione e agitazione, scossi il capo e cercai di sorridere. In fondo allo stomaco andò a depositarsi una paura granitica, brutale. «Niente.» Ma non finiva lì. No. Avevo bisogno di sapere cosa stava succedendo tra quei due. Non perché non mi fidassi di Thomas, ma perché temevo che Takeru, con il suo animo gentile, finisse per cacciarsi in affari troppo grossi per uno come lui.
A scuola. Lo prenderò da parte e ne parleremo...
Devo sapere. Devo assolutamente sapere che succede!
Anche perché di certo non avrei potuto parlarne con Lattner visto che in teoria io sarei dovuta essere all'oscuro di tutto. Le bugie, i segreti, a volte non portano altro che complicazioni.
«Andiamo a prenotare un privè» annunciò Eve, stanca di restare ferma lì immobile, a fissarci senza capire di cosa parlassimo. Beth le si accodò subito, trepidante.
Takeru mi guardò ancora un attimo, cercando di capire se fosse tutto a posto, poi annuì. «Vi seguo.» Mi sfiorò la spalla. «È tutto okay, Rob?»
No. Sì. Più o meno.
Ero solo spaventata e preoccupata. E non potevo parlarne con nessuno se non con lui. Ed ero costretta ad aspettare per farlo. E io odiavo aspettare. Dannazione!
Mi limitai ad annuire e lui imitò il mio gesto.
«Comunque...» Sorrise e si chinò verso il mio orecchio. «Thomas è arrivato con Märten proprio ora... se vuoi cercarlo e farci un ballo è il momento giusto.» Quella battuta riuscì ad allentare la tensione. Riuscì perfino a strapparmi una risata.
Ballare con Lattner... sì, certo, come no...
Non ce lo vedevo proprio. Sì, okay, era il motociclista e aveva buon gusto nel vestire ma dubitavo sapesse anche ballare. Insomma, non poteva ballare. Non doveva.
C'erano cose che era meglio non le sapesse fare. Per la mia sanità mentale più che altro.
«Allora? Non vai?» Sorrise sornione.
Assottigliai lo sguardo rifilandogli un'occhiata sospettosa. Che sapesse qualcosa che io non sapevo? Bé, come sempre d'altronde, nulla di nuovo. Decisi così di assecondarlo, stanca dei suoi giochetti. Per quella sera avevo accumulato fin troppe informazioni frustranti. E preoccupanti. Mi serviva davvero un po' di svago prima che detonassi come una mina antiuomo. «Forse allora è meglio se li cerco» borbottai, guardandomi attorno. E improvvisamente mi accorsi che volevo vederlo.
Volevo davvero vedere Lattner versione discoteca, senza freni, senza inibizioni, senza che vestisse i panni da professore, senza doverlo trascinare nel bagno dopo avergli versato un drink addosso. Volevo confrontarmi con lui ad armi pari, spogliandoci dei nostri ruoli, diventando altri, diventando nessuno.
Takeru mi lanciò un'ultima occhiata e poi raggiunse le ragazze. Aspettai si allontanassero verso i privè prima di mescolarmi tra la folla. Il solito senso di oppressione mi strangolò crudelmente non appena venni circondata da corpi su corpi. Decine e decine di ballerini che si scatenavano tra loro.
Odiavo i posti affollati, odiavo gli spazi stretti. Odiavo gli odori, le puzze, la gente sudata che ti sbatteva addosso, l'impossibilità di movimento qualora ne avessi avuto bisogno e il buio. Odiavo a morte il buio. Ma non potevo negare che una parte di me amava ballare e quando mi infilavo in un locale con l'intenzione di divertirmi mi trasformavo in un animale da festa, non c'era verso di fermarmi. Ero capace di ballare per ore, trasportata solo dalla musica, con il cervello sgombro dai pensieri. Per questo, un tempo, ci andavo spesso in discoteca. Mi aiutava a non pensare, a isolarmi, a staccare la spina. Nell'aria venne diffusa una versione molto remixata di Dessert di Dawin, il dj annunciò che a breve saremmo entrati nel vivo della festa e, come da programma, sarebbero scoppiati gli erogatori di acqua. Era un water party e io nemmeno lo sapevo.
Mentalmente imprecai verso Eve e Beth che non avevano pensato bene di avvisarmi. Rimpiansi anche di non essermi vestita con qualcosa di più coprente, pesante e non aver portato un cambio da lasciare al guardaroba. Accusando quella novità con un certo cipiglio, continuai a farmi strada tra la folla. Fu solo dopo aver sgomitato l'intero locale che avvistai il granitico metro e novanta di Märten. Era appoggiato a un tavolino, in mano una birra e sulla spalla una canottiera nera non sua. Sapevo di chi era e dovetti fermarmi un attimo per permettere al mio cervello di registrare l'informazione: in giro, per il Count, c'era un Lattner senza canottiera. Diavolo! Come se già non bastasse saperlo vestito a quel modo. Non ero sicura di essere preparata a tutto questo.
«Va bene! Vai lì e fai solo un saluto. Fine.» Dirlo a voce alta non lo rese più facile. Quando di mezzo c'era Lattner tutto sembrava complicarsi. Feci un respiro profondo e mi sistemai il vestito prima di raggiungere Märten. Quando gli arrivai sotto il naso lo dovetti tirare per la camicia perché mi vedesse.
«Ehi, ragazzina! Sei arrivata!» gridò per sovrastare la musica, picchiettandomi più volte sulla testa con la mano. Avevo visto qualcuno far qualcosa di simile con un cane. «Ti avevamo dato per dispersa.»
Avevamo. Quindi anche Lattner. Solo che lui non c'era. Mi guardai un po' attorno. «Thomas dov'è?» Dritta al punto. Tanto sapeva che ero lì per lui. Non era certo un mistero.
Sul viso di Märten spuntò un sorrisetto che non mi piacque affatto e con un'alzata di mento mi segnò il centro della pista. Girai il viso e assottigliai lo sguardo. C'era tanta gente, troppa. Lo cercai nella folla senza risultato e quando Märten vide che mi stavo spazientendo mi afferrò per il mento puntandolo dritto davanti a noi. Trasalii.
Signore... no. Non è lui.
Non può essere lui.
Ma a parte la canottiera abbandonata a Märten, riconoscevo perfettamente la sua figura, i suoi lineamenti, il suo corpo. Lo avrei riconosciuto tra mille.
«Lo hanno drogato?» farfugliai, sentendo il viso prendere fuoco. Dovetti appoggiarmi allo stesso tavolo di Märten perché improvvisamente una vampata di calore mi diede un capogiro. Quel posto iniziava a essere un inferno da quanto faceva caldo e forse Lattner era il mio diavolo personale.
Lui rise. «Affatto. È sobrissimo.» Allungò un braccio indicandolo con la canna della birra. «Ti presento T in discoteca.»
Mi tremarono le gambe.
Lattner era su uno dei cubi e si muoveva come... bé, si muoveva! Dio, se si muoveva! Come solo Satana può fare. O un pornoattore. O il fottuto sogno erotico di qualsiasi femmina etero.
E tu da quale cazzo di porno sei uscito? Cristo!
Ballava a ritmo, la bocca socchiusa che ogni tanto muoveva sussurrando parole della canzone, gli occhi chiusi, la lingua che ogni tanto si passava sulle labbra per poi mordersele subito dopo. La camicia aperta con il petto in bella vista imperlato di sudore, le mani che si muovevano sul corpo mentre muoveva il bacino come se stesse scopando qualcuno di invisibile. Si passò le mani nei capelli bagnati.
Deglutii a fatica. Così a fatica che la saliva mi restò strozzata in gola. Il cuore mi sprofondò nel petto e il corpo sembrò prendere fuoco. Il calore divampò come un incendio. In un attimo mi sentii le gambe ridotte a gelatine e l'eccitazione si tese come una corda dentro di me, giù, in profondità. Strinsi le gambe, imbarazzata e boccheggiai cercando di riprendere controllo di me, di quel corpo sfuggito alla razionalità, caduto in tentazione. «Bene. Sì, bé... di - digli che sono... sono passata a salutare.» Balbettavo. Ed ero così turbata che quello mi parve addirittura il male minore. «Meglio che vada.» Mi staccai dal tavolino testando la solidità delle mie gambe e la fermezza del mio equilibrio. Dovevo andarmene, scappare. Mossi solo un passo prima che Märten mi stringesse un polso. Non gli servì nemmeno una sollecitazione affinché mi bloccassi sul posto. I miei piedi sembrarono inchiodarsi al suolo.
«Non credo proprio, ragazzina. Vuole ballare con te.»
No. No. No. Non esiste.
«Che?» gracchiai. «Con me? Che diavolo dici, eh?»
«Ha detto di dirti che dovevi raggiungerlo.» Mi lasciò andare il polso. Lo massaggiai nervosamente con l'altra mano. «Ha detto che devi concedergli un ballo... fa parte della tua punizione.» Imprecai a denti stretti e Märten rise. «Non sapevo foste già arrivati a questi giochetti sadici.»
Non lo degnai nemmeno di una risposta. Girai il viso verso la pista e tornai a guardare Lattner proprio mentre faceva una giravolta su se stesso e la camicia si alzava abbastanza da farmi gemere come se fossimo soli in un privè a toccarci. La mano gli scese dalla gola, al petto, per finire sul cavallo dei pantaloni; lui lo strinse con provocazione, io strinsi le cosce.
No, no... io non posso andarlo a recuperare in quelle condizioni. Sono umana, cazzo!
Nemmeno Madre Teresa di Calcutta avrebbe tanto autocontrollo. Pietà!
Non appena riuscii a distogliere gli occhi da Lattner, che faceva passi che io avevo visto solo in qualche cazzo di film stile Step-up, Märten scoppiò a ridere. «E quindi?» gli ringhiai addosso, completamente rossa. In quel momento nessuna maschera sarebbe riuscita a nascondere le mie emozioni. Ero così trasparente da rendermi conto che la mia espressione rivelava tutto di me, del mio cuore, dei miei sentimenti. Ero un libro aperto sulla pagina più intima, più bella, più personale.
Chinai lo sguardo sulle decolleté, cercai di respirare. Quando pizzicai l'orlo del vestito notai che le dita mi tremavano.
Märten si portò la birra alla bocca e sorrise sorseggiandola. «Mi stai dicendo che Scorpion Queen... non ce la fa?» domandò, di getto.
Sollevai lo sguardo sorpresa e lo guardai in cagnesco. Questo era un colpo basso. Ed era una scoperta da aggiungere a tutte le altre di quella sera. «E tu come sai di Scorpion Queen?» Sicuramente glielo aveva detto Lattner.
Rise. «Ho le mie fonti. Ma tu non cambiare discorso.» Indugiò con le labbra sulla canna della bottiglia e inarcò un sopracciglio. «Mi stai forse dicendo che una come te ha paura ad affrontare un tipo come quello?» Lo indicò con la birra. «In fondo... è solo un professore di matematica, no?»
Certo... come no...
Con la coda dell'occhio lo guardai mentre oscillava il bacino, gli occhi chiusi, le mani sollevate sulla testa. Sembrava catapultato in un mondo a parte. Mi chiesi se anche a lui piacesse ballare per spegnere il cervello. Sicuramente doveva essere così. Spesso avevamo molte cose in comune.
«Allora? Che farai?» chiese Märten, abbassandosi contro il mio orecchio. «Perché se resti qui con me potrei trovare qualcosa di molto più interessante da farti fare.»
Scacciai la proposta con la mano sentendo le gote bollenti. Märten aveva il vizio di flirtare con tutte, lo faceva senza nemmeno accorgersene, una sorta di dote naturale. E pensavo che lo facesse anche con me solo per abitudine, non per chissà quale particolare interesse. «Io sto solo... ecco...»
«Tergiversando? Morendo di vergogna?» Sapeva come provocarmi.
«No.» Lo disintegrai con lo sguardo. Non mi sarei messa certo a spiegare a lui le emozioni che Lattner riusciva a suscitarmi. Era tutto troppo imbarazzante. Anche solo pensarlo.
«E allora cosa aspetti?» Mi rifilò qualche gomitata prima che esplodessi, scattando in avanti come una molla.
«E va bene! Ci vado! Okay? Ci vado» ringhiai. Mi pulii le mani sulla gonna. Erano sudate. E io sembravo patetica. La musica si abbassò per un secondo e subito dopo dalle casse si diffuse Believer, degli Imagine Dragons. Una delle mie canzoni preferite. Non era la serata fortunata, insomma. «È tutta una situazione del cazzo. Totalmente del cazzo. Assolutamente del cazzo. Fanculo!» continuai a borbottare mentre mi toglievo le scarpe e le sbattevo sul tavolino. Märten si morse un labbro reprimendo una risata. «Costano cento dollari, vedi di non perderle» gli berciai addosso, troppo agitata per valutare l'idea di farmi mezza pista scalza pestando dio solo sa cosa.
Strattonai la gonna con una certa psicosi e mentre mi lasciavo un Märten molto divertito alle spalle, avanzando verso la causa della mia imminente follia, mi presi il tempo per guardare meglio Lattner.
Era bello. E piaceva.
E ora che lo guardavo mentre si muoveva con provocazione, capivo che ne era totalmente consapevole. Lui sapeva di essere un gran figo. E sapeva anche che la metà delle ragazze sotto il suo cubo se lo sarebbero volute scopare. E lui, in qualche modo, voleva essere scopato. Con gli occhi per lo meno, visto che mentre lo raggiungevo ne aveva liquidate diverse che avevano cercato di salire.
Gli piaceva essere guardato, desiderato, supplicato. Non capivo se era un vanitoso del cazzo o solo uno stronzo esibizionista. In ogni caso, stavo cercando a tutti i costi di sostituire l'eccitazione e il desiderio con la rabbia. Se fossi stata incazzata, forse non avrei commesso errori troppo compromettenti.
I miei piani andarono in fumo un istante dopo.
Quando mi vide allungò le braccia indicandomi e continuando a oscillare i fianchi, poi muovendo gli indici mi invitò a salire. Il cuore sembrò andarsi a suicidare in una centrifuga da quanto mi sbatacchiò qua e là in petto. Esitai un attimo e i suoi occhi cercarono i miei.
Bene. O la va... o mi spacco, qui...
Afferrai con entrambe le mani il bordo del cubo e lui si abbassò a tirarmi su. Non feci in tempo nemmeno a far leva con le braccia che quasi mi sollevò di peso. Barcollai mentre mi stringeva a sé e una vampata di profumo misto all'odore della sua pelle mi si infilò nelle narici facendomi tremare.
«Certo che potevi dirmelo che sai ballare» lo rimproverai, spalmata contro di lui, accorgendomi di tutto ciò che avrei fatto meglio a ignorare. Le sue mani scesero fino ai miei fianchi e girandomi di scatto mi attirò contro il suo corpo. Cozzare contro di lui mi tolse il respiro. Chiusi gli occhi godendomi la sensazione di quel contatto. Era come allungare la mano sul fuoco: era bello ma faceva male.
«Ora lo sai» bisbigliò contro il mio orecchio, facendomi rabbrividire. Lentamente, con delicatezza, iniziò a muovere il mio corpo, a dirigerlo. Le sue mani sui fianchi mi condussero, mi piegarono. La musica scendeva su di noi come una pioggia, avvolgendoci e chiudendoci in una gabbia fatta solo dei nostri corpi.
«E poi, proprio su un cubo?» la voce mi uscì strozzata mentre mi perdevo in quei tocchi così gentili, leggeri. Si posavano sulla mia pelle piano, eppure riuscivano ad affondare fin dentro l'anima. Ero sopraffatta, dominata, persa. «Ci potrebbero veder tutti... Eve e Beth... loro sono qui e...» La sua mano scivolò sulla mia bocca, frenando quel farneticare e quel tentativo di occupare il silenzio dei nostri corpi così stretti l'uno all'altro o di riempire i buchi e le voragini delle mie paure. Schiusi le labbra e le dita di Lattner sfiorarono la mia lingua, risalendo e tracciando una scia bagnata fino a coprirmi gli occhi.
«Shh... zitta, ragazzina» bisbigliò così piano che mi parve quasi di essermelo sognato. «Stasera non siamo nessuno. Io non sono Lattner, non sono il tuo professore, né un'ombra... e tu... tu non sei O'Neil, non sei la mia studentessa, né Scorpion Queen.» Cieca, tra le sue braccia. Vittima dei miei sentimenti. Preda del piacere. Serrò la presa sui miei fianchi, scontrò il bacino contro il mio fondoschiena strappandomi un sussulto. Era eccitato. E lo ero anche io. «Avanti, Robin» mi supplicò. «Ripetilo. Dillo anche tu... dì che stanotte non avremo nome, non avremo etichette o ruoli.»
Noi. Solo noi. Solo io e lui. Niente di niente. Niente di nulla.
Dalle labbra mi sfuggì un ansito. Tremai. «Sì» gemetti, cercando una voce persa che non voleva uscire. «Nessuno. Stasera non siamo nessuno.» Mi strinse di colpo lasciando scorrere le mani lungo le mie braccia, i miei fianchi; lasciando che la canzone si fondesse ai nostri impulsi.
E il ritmo e il cubo fecero tutto il resto.
Ci tagliarono fuori dal mondo.
Il Count divenne solo nostro.
Le sue mani, il suo corpo, le mie mani sul suo petto nudo, i nostri respiri affaticati, il sudore, il suo movimenti esperti che sembravano nati per attraversarmi i vestiti. Era tutto nostro.
Mandai indietro la testa, sentendo il suo respiro contro il collo e la durezza del suo piercing al capezzolo strofinarmi la schiena. Mentre le sue braccia si chiudevano sul mio ventre mi spinse in avanti e come se fossi creta tra le sue mani, il mio corpo rispose al suo. Sollevai un braccio accarezzandogli una guancia e lui seguì la carezza con le dita, fino a quando la mano non mi tornò lungo il fianco.
C'era tutto un mondo in quei movimenti, in quella danza, in quel lento e continuo toccarsi, e cercarsi, e prendersi, e volersi.
Il ritornello mi stava scavando testa e cuore. Sarebbe stata la colonna sonora della mia intera vita.
You made me a believer. You break me down. You built me up.
«Chi è il vero Thomas? Dov'è ora? Dov'è nascosto?» chiesi, piano, posandogli una mano sul petto, cercando una verità in degli occhi carichi di altre necessità; carichi di un bisogno primitivo e selvaggio, un'urgenza simile alla fame, potente e devastante quanto una guerra. Mi afferrò il viso, faccia a faccia, i nasi vicini e il respiro unito, affamato. Infilò una gamba tra le mie e allargò la mano sul mio fondoschiena. Mandò il busto indietro, mosse il bacino come se mi entrasse dentro, come se fossimo nudi su quel cubo, come se non fosse una danza ma puro sesso. Mi stava scopando e al contempo non faceva nulla. Le luci gli baciarono il corpo imperlato di sudore e io catturai ogni dettaglio come un'assettata.
Questo ballo mi devastava. Il cuore si devastava. E più lo guardavo, più ero sicura di esserci caduta dentro fino al collo. E questa volta mi sarei fatta un gran male.
«Nessuno» rispose col fiatone, il petto si muoveva su e giù. La musica sembrò esplodere mentre mi sollevava e girava, stringendomi sotto le natiche. «Thomas non è nessuno» gemette, i denti contro il mio orecchio mentre mi faceva tornare con i piedi per terra. «Nessuno» ripeté. E usando il mio corpo come se fosse una estensione del proprio mi piegò indietro sino a fare un casqué.
Poi, silenzio.
La canzone era finita.
Quando mi tirò su ero ancora aggrappata alla sua camicia. «E se per me fosse diventato qualcuno?»
Mi carezzò una guancia e con il pollice le labbra. Lo stomaco si torse, fece una capriola, fu invaso da un esercito di farfalle. «Forse allora dovrebbe prendersi le sue responsabilità.»
«Sì. Dovrebbe.»
«E il tuo misterioso amico teppista?»
«Stasera non è la sua sera.»
Un sorriso ferino gli passò veloce sulle labbra prima che il suo viso scendesse sul mio. La sua bocca trovò la mia, la coprì, la completò. La prese con fermezza, avido, prepotente. Quando risposi al bacio senza esitazione mi afferrò con entrambe le mani il viso e un attimo dopo un fischio segnò l'inizio del water party. Gli erogatori si accesero tutti insieme e nel locale fummo tutti invasi dalla pioggia. Cadeva fitta come se fosse vera, impregnando i vestiti, incollando i nostri corpi, lavando via le paure e le esitazioni. Correva sulla nostra pelle, affondava dentro, ci legava e al contempo ci nascondeva, come una tenda che ti crea la giusta atmosfera e ti concede la giusta privacy. Ci ritrovammo avvinghiati, eccitati, con le mani che scivolavano ovunque e che tentavano di prendere tutto e niente.
Lingua, denti, respiri. Un mix perfetto di noi. Un cocktail proibito. Mi inclinò indietro la testa aprendomi la bocca, impaziente; usando le proprie labbra come arma per sfondare ogni mia barriera. Baciava bene. Ma io questo lo sapevo già. E il piercing era la ciliegina sulla torta. La sua lingua mi faceva rimpiangere di non trovarci soli per davvero.
Eppure, sebbene circondati da tanti volti che per noi erano nessuno, per un attimo restammo solo noi. E i minuti rallentarono, il tempo sembrò fermarsi.
Gli lasciai scorrere le mani sul petto nudo e glabro, bagnato, fremente. Affondai le dita nei capelli, strinsi, tirai. La testa gli scattò indietro e mi scaricò addosso un'occhiata famelica prima di gettarsi ancora sulla mia bocca. Gli uscì un verso gutturale, dal fondo della gola, mentre riprendeva a baciarmi e le sue mani scivolavano sotto il vestito bagnato, sulle cosce, sulla pelle nuda e fredda. Biascicò qualcosa contro la mia bocca, qualcosa che conteneva un'imprecazione e la parola "difficile". E, diavolo!, se era difficile in quel momento resistergli. Difficile non afferrarlo per la camicia, trascinarlo in bagno e lasciargli fare ciò che più voleva. qualcosa che sicuramente volevamo entrambi.
«Robin. Robin. Robin.» Cantilenò il mio nome, lo sussurrò, lo trasmise alle mie labbra come una preghiera o una supplica. Frenò le mani a un palmo dal mio interno coscia, così vicine all'orlo di un precipizio in cui sarei volentieri caduta insieme a lui; smise di baciarmi senza staccare la bocca dalla mia. Sembrò ricorrere a tutta la forza disponibile per sfilare le mani da sotto l'abito e riposizionarle sui miei fianchi. Era una tortura, un castigo.
Ansimò. Un po' per la fine del ballo. Ma più per me, per noi, per quello che c'era appena stato.
Appoggiò la fronte alla mia. «Io non ce la faccio ad andare avanti così.» E sapevo bene come. E anche io volevo dirgli che, no!, non ce la facevo più nemmeno io. E forse era anche arrivato il momento per dirgli che sapevo tutto, che non c'era bisogno fingesse di essere nessun altro con me.
«Senti, Thomas...» La minuscola tasca del vestito mi iniziò a vibrare. Tormentai il labbro con i denti cercando di non pensare a chi potesse chiamarmi a quell'ora della notte, in quel momento così importante. Di tutte le persone possibili ne conoscevo davvero poche che lo avrebbero fatto. «Io vorrei dirti che... insomma...» Come dirglielo? Come far sembrare tutto... normale? Il cellulare riprese a vibrare in tasca e istintivamente lo afferrai tra le mani. Non avevo ancora staccato gli occhi da quelli di Lattner, temevo che facendolo avrei perso l'occasione, avrei perso l'attimo, perso tutto.
«Forse... forse dovresti rispondere» disse lui, alla fine, con un tono basso e ancora arrochito da un desiderio che non lasciava andare nessuno dei due.
«Se hanno bisogno richiameranno.» E infatti, un istante dopo, il cellulare riprese a vibrare. Abbassai lo sguardo sullo schermo e la paura si strinse come un serpente attorno alle mie viscere. Rimasi a guardare il cellulare per minuti indefiniti, tanto che la chiamata si interruppe di nuovo. «Io credo che... credo...» Tremavo. E ora per ben altri motivi. Il cellulare vibrò ancora. Lo guardai come si può guardare una belva inferocita mentre ti punta e ti carica. Era Adam. Lo strinsi forte tra le mani, tremai. Adam non chiamava mai a orari del genere, se lo faceva doveva essere successo qualcosa di veramente importante per farlo. «Devo... devo rispondere.» Mi staccai da Lattner barcollando. Sapevo cosa stavo lasciando in quel momento: una possibilità. Forse l'unica. La possibilità di dare una svolta a quel nostro rapporto. Scesi con un balzo dal cubo, scalza. Corsi fuori dal Count con il cellulare che vibrava impazzito tra le mie mani.
Solo quando fui nel freddo della notte, lontano da musica e gente, risposi: «Adam?» Al di là della cornetta sentii un risucchio nasale. «Adam!»
«Robin, io...» Silenzio. «Scusa. Scusa se ti ho chiamato nel bel mezzo della notte ma...» Gli tremava la voce. Singhiozzò.
Guardai l'ora sullo schermo. Erano le tre. Mi strinsi i gomiti incastrando il cellulare contro la spalla. Bubbolavo. Era gennaio e io ero fuori casa, bagnata fradicia, scalza. E avevo paura. Non ero sicura di voler sentire ciò che mio fratello aveva da dirmi. «Tranquillo... faticavo a prendere sonno.» Strinsi le braccia, arpionai la pelle nuda. Una giacca mi venne posata sulle spalle e un tenue calore si diffuse dove il tessuto mi avvolse. Mi girai incontrando gli occhi di Lattner, accennò un sorriso tirato. Era preoccupato. «È tutto a posto?» domandai infine. No che non lo era. Altrimenti non mi avrebbe chiamato in piena notte. Non era da Adam.
«Robin... Lin è... nonna Lin è...» Non finì la frase ma già sapevo. Lo avevo capito. Lo sentivo. Il cuore si era raggrinzito in petto.
«No, Adam! No.» gridai, arrabbiata. «Non Lin.»
No. Non lei. Non Lin.
Lin è una tosta, una dura. Lei non lo farebbe mai. Lei non...
Mi coprii la bocca con la mano. «Ti prego, Adam... non... ti prego.» Strinsi i denti e deglutii mentre le lacrime presero a colarmi lungo le guance. Sentivo un dolore, nel petto, così forte che non riuscivo a respirare, così straziante che temevo si fosse rotto qualcosa.
No. No. No. Non potevo accettarlo. No.
Ci dovevamo vedere. Lo aveva promesso.
Ci dovevamo incontrare. Mi voleva dare il regalo di natale. Voleva conoscere Thomas. Voleva vedermi felice. Doveva vedermi felice... finalmente felice. Proprio come voleva lei.
«Io non so come è successo... sono tornato a casa da una cena di lavoro e...» Scoppiò a piangere e in quel momento odiai tutti quei kilometri di distanza, odiai non poterlo abbracciare. Odiai me, quella che ero stata, quella che mi aveva portato a essere cacciata lontano dalla mia stessa famiglia. «È morta nel sonno, Rob. Sulla sua poltrona.»
Morta.
Lin è morta.
La mia Lin. La mia nonna. La mia unica nonna.
Le forze scivolarono via come sabbia tra le dita. Scivolai in terra, tra le braccia di Lattner; mi teneva stretta quasi temesse che da un momento all'altro potessi disintegrarmi in milioni di pezzi. Raccolsi le gambe al petto, strinsi il cellulare così forte da farmi male. Lattner mi tirò i capelli indietro, cercò di cullarmi tra le sue braccia.
«Quando...» Non lo volevo dire. Non lo volevo pensare. Strinsi gli occhi sperando fosse un brutto sogno. Cercai di respirare, di calmarmi, di raccogliere un briciolo di razionalità. «Quando faranno il... il funerale?» la domanda mi uscii in un rantolo, flebile, distrutta.
«Quando l'hanno portata via hanno detto...» Singhiozzò di nuovo, perdendosi nell'ennesimo attacco di pianto.
Portata via.
La mia Lin.
La mia nonna.
Lattner mi attirò contro il proprio petto lasciando che nascondessi la faccia. Appoggiai una mano sul suo addome e usai l'altra per affondare le unghie nella carne della mia coscia. Fino a farmi male. Fino a sentir tagliare la carne. «Cosa, Adam? Cosa hanno detto?» Ero disperata, arrabbiata. Avevo bisogno di scaricare tutta quella rabbia contro qualsiasi cosa, perfino me stessa.
«Dopo domani, comunque» rantolò. Lo sentii soffiarsi il naso.
«Torno a casa.» Lo dissi di getto. Senza alcuna esitazione.
«No. No. No. Rob! Lo sai che mamma e papà... loro, sono...»
«Ho detto che torno a casa. Cazzo!» gridai. Non mi avrebbero impedito di andare al funerale di mia nonna. Non ci avrebbero provato o gli avrei scatenato contro l'inferno. «Parto domani.»
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