13 - NUOVI LOOK, NUOVI REGALI

Ci era voluto tutto il pomeriggio per farmi passare l'incazzatura. E più di una volta ero stata sul punto di irrompere nella camera di Lattner con il solo intento di innescare un litigio che alla fine si sarebbe rivelato inutile. E controproducente. Litigare non avrebbe risolto niente.

L'idea che non mi prendesse sul serio, o non volesse, o non potesse, mi faceva incazzare; la voce struggente con cui mi aveva chiesto di aver pietà di lui precisando che ancora non poteva farlo inoltre mi faceva ipotizzare che forse era combattuto. Magari si sarebbe voluto lasciar più andare, cedere a qualche tentazione; avrebbe spiegato il motivo per cui nei panni del motociclista si sentisse più slegato da questi vincoli. Ed era proprio su questo che volevo puntare.

Avrei distrutto la sua corazza da imperturbabile bravo ragazzo politicamente corretto a suon di seduzione. Sì, lo avrei sedotto. O meglio, ci avrei provato. Mi riusciva bene? Una volta, forse. Con lui mi sentivo sempre alle prime armi. E dire che di ragazzi ne avevo avuti abbastanza da potermi definire "una che ci sa fare". Ma Lattner sapeva mandare all'aria ogni mia previsione. Con lui mi sembrava tutto nuovo.

Ad ogni modo, volevo giocarmi le mie carte migliori, o peggiori se vogliamo, e vedere se questo suo essere combattuto poteva trasformarsi in qualcosa di più. Di più interessante per entrambi.

Mi passai l'ultimo filo di rossetto e osservai la mia immagine riflessa nello specchio del bagno.

Niente male, Rob. Davvero niente male.

Takeru sarebbe passato a prendermi tra un'ora e io ero già pronta. Avevo detto a Lattner di non aspettarmi sveglio visto che andavo al Count ma a quanto pare non ero la sola ad essermi programmata la serata. Lui e Märten sembravano aver avuto la nostra stessa idea. Ironico, eh?

O era un altro modo per tenermi d'occhio oppure il destino giocava brutti scherzi. Speravo solo non fosse così idiota da farsi vedere da Eve e Beth. Per Takeru non c'era problema. Lui sapeva tutto, o quasi. Ancora dovevo dirgli che anche io sapevo che Lattner era il motociclista ma, diavolo!, ultimamente era più impegnato e sfuggente di un uomo d'affari.

«Bene. Vediamo che ne pensa Mr.Non-ti-prendo-sul-serio.» Con il vestitino che mi ero messa non sembravo più il buon vecchio Robert, nemmeno se avevo ancora i capelli corti. Avevo la mia dose di fascino e l'avrei usata tutta. O almeno ci avrei provato.

Raggiunsi la sua camera. Ci era chiuso dal pomeriggio.

Che diavolo starà facendo chiuso lì dentro da tutto il giorno?

Bussai.

«Vieni pure, Rob» lo sentii gridare dall'interno.

Aprii la porta aspettandomi fosse abbandonato sul letto tipo cadavere e invece per poco non mi venne un infarto. «Che diavolo stai indossando?» berciai, indecisa se coprirmi gli occhi o meno.

Si girò di scatto e fui costretta a sorreggermi allo stipite della porta per non crollare in terra a causa delle gambe molli come gelatine. Il cuore mi perse diversi battiti. Ero fortunata a non aver problemi cardiaci.

Signore degli Otaku... aiutami tu!

«Sto male?» Allargò le braccia e la camicia a scacchi bianchi e neri ancora del tutto aperta si allargò come un mantello, rivelando la canottiera nera infilata sotto i jeans. In realtà non era quella ad avermi costretto a una deglutizione forzata, ma i pantaloni.

«Verrai a... cioè... andrai a ballare con quelli?» Li indicai con un dito, ancora attaccata allo stipite della porta.

«Ripeto: sto male?»

Diavolo, no! Ma chi ti toglierà più gli occhi di dosso con quelli?

Anzi, ogni femmina vedente e pensante nel circondario non te li toglierà! Cazzo!

«Ecco... sono davvero... davvero...»

Erotici? Degni di un porno? Perfettamente perfetti per il tuo fottuto corpo?

Deglutii.

Erano un tripudio di strappi, borchie, pezze e catenacci che partivano da un'asola per sparire agganciati a un'altra nel fondoschiena. Sembrava appena uscito da uno di quei film di bande dove c'è il solito badboy di turno, figo più dell'immaginario collettivo. Quel genere di ragazzo che ti basta vedere una volta sola e già ti ci immagini insieme, sposata, con figli e ricche dosi di sesso grandioso. Sesso con sculacciate e parole zozze sussurrate all'orecchio, non carezze e complimenti, per intenderci.

«So – sono di pelle?» rantolai. Improvvisamente il mio vestito super sexy non mi sembrava così tanto sexy a confronto.

Rise. «No, ma ne ho un paio anche di pelle se vuoi.»

Per carità! Sennò dopo chi la raccoglie la mia bava?

Mi staccai dalla porta e feci alcuni passi nella sua stanza. Sembrava essere esplosa una bomba, i vestiti erano sparsi ovunque. Ecco cosa aveva fatto tutto il pomeriggio, aveva svuotato l'armadio.

«Non mi hai ancora detto come sto.»

Eh! Come stai...

Ma come vuoi stare, eh?

Non aveva gli occhiali, i capelli erano spettinati e selvaggi, i pantaloni lo fasciavano così tanto che nemmeno c'era bisogno mi provasse quanto fosse dotato. E il culo, buon Dio... ma era legale un culo così? Che avevo fatto di male per meritarmi questa tortura?

E fortuna che dovevo essere io a sedurre lui. Dannazione!

«Vuoi toccare?» domandò, togliendosi il primo orecchino al lobo e sostituendolo con un lungo pendente che terminava a punta di freccia.

«Che?» gracchiai.

«Sì, bé... vedo che guardi le borchie. Non pungono così tanto, eh!» Allungò il braccio acciuffandomi per una mano e se la posò su un fianco. Istintivamente trattenni il fiato.

Tu sei Satana.

Tu sei il Male.

Tu sei la Perdizione... la Devianza.

Ma come si fa? Come si fa?

Deglutii rumorosamente e cercai di non sembrare la maniaca che invece ero. Il mio cervello aveva ripreso a incepparsi. Povera creatura innocente ormai del tutto compromessa.

«Pungono?» domandò, inarcando il bacino verso le mie dita.

A morte, pungono!

Gli passai i polpastrelli sulla tasca borchiata e li lasciai scendere sulla cinghia che gli fasciava la coscia qualche centimetro più in giù. Satana vestiva più pudicamente.

«Li ho trovati nell'armadio. Sono un rimasuglio di quando vestivo in maniera un po' più dark.»

«Hai delle foto?» chiesi di getto.

Scoppiò a ridere. «Non credo. Ho sempre odiato farmi fotografare. Ma ho ancora tutti i vestiti e a quanto pare... anche se fasciano un po' di più sembrano entrarmi tutti.»

E ci credo che fasciano... sei cresciuto! Cresciuto nei punti giusti, maledetto!

Deglutii ancora. Quella sera la saliva sembrava non scendere bene. O forse ne producevo troppa. «Hai fatto la muscolatura da uomo.»

Molti muscoli da uomo.

Troppi muscoli da uomo.

Ma dove li nascondi quando indossi i completi a scuola?

Stavo sbavando? Dio, no. Ti prego.

«Sì, bé... merito dell'attività fisica. Diciamo che mi tengo in allenamento, dai.»

Diciamo che non vuoi perdere il tuo smalto da teppista!

Allungò le braccia sulla testa e si stiracchiò. Aveva finito la terapia al braccio e ora era come nuovo. Per un breve istante una striscia di pelle sfuggì dalla canottiera, rivelando una sottile strisciolina nera di peli che spariva nei boxer. Volevo morire.

Quando riabbassò le braccia mi squadrò dalla testa ai piedi e sorrise. «Bene! Vatti a vestire, su. Takeru sarà qui tra poco, no?»

Lo fissai divertita. Avevo ancora tra le dita la cinghia che gli stringeva la coscia. Ne aveva altre disseminate lungo tutte e due le gambe dei pantaloni. Volevo lasciargliela ma la mia mano sembrava non seguire i miei comandi. Restava lì, a toccare, a immaginare. No, quello era il mio cervello perverso. «Ma veramente io vengo così.»

Strabuzzò gli occhi e si tirò di qualche passo indietro per osservarmi meglio. Lo vidi inalare a fondo, rumorosamente. Sembrò cercare nella testa la parvenza di un controllo che perse non appena parlò: «Scherzi, spero!» sbottò. Il suo sguardo ora mi faceva sentire nuda. «Credevo fossi senza pantaloni ancora.»

Avvampai. «Ma che cazzo dici? E ti pare che vengo in camera tua senza pantaloni?»

«Ti ho visto nuda. Pensavo avessi improvvisamente superato quella soglia di imbarazzo.»

«Superato, un cazzo» gridai, lasciando scattare le braccia lungo i fianchi e serrando i pugni stizzita. «Ma per chi mi hai preso, eh? Mica sono una bambina che gira per casa nuda perché priva di malizia.»

«Sicura che non sei ancora una bambina?»

In uno scatto di rabbia lo afferrai per la cinghia sulla coscia, scuotendolo. Inavvertitamente i nostri corpi si scontrarono. «Ti sembro davvero una bambina?»

Questa volta fu lui a deglutire. Abbassò lo sguardo sulla mia scollatura e il viso gli si tinse di rosso, abbastanza da fargli infuocare perfino le orecchie. Fu imbarazzante. Più di quanto credevo. Si allontanò con un guizzo scompigliandosi nervosamente i capelli. «Bé, poco importa. Tu non esci così.»

«Cosa? Tu sei matto! Io ci esco eccome! È un vestito stupendo.»

«Diavolo, no! Guardalo...» Lo indicò con la mano, scuotendola freneticamente. Sembrava agitato. «È un vestito o il completo per una sessione di bondage?»

«Ma se è più lungo di quello che ho messo al Count l'ultima volta!» ringhiai. Ricordavo bene come si era lamentato a quel tempo. Troppo corto, troppo succinto, troppo tutto. Avevo passato il resto della serata a tirarmi giù la microgonna.

Questo invece era un bel vestito.

Sexy ma non volgare e nemmeno troppo appariscente visto che era tinta unita, nero. Avevo la schiena scoperta e un bello scollo a V, okay... ma era lungo fin quasi al ginocchio. Insomma, che dovevo mettermi per andare a ballare? Un vestito lungo fino ai piedi? Se non mettevo ora questi vestiti, quando lo facevo? A novant'anni?

La faccia di Lattner si scurì e scuotendo il capo incrociò le braccia al petto. «Assolutamente no! Non ti lascerò andar via da questa camera con quel vestito addosso.» Rimase zitto un attimo elaborando l'ultima parte della frase, sollevò gli occhi al cielo e mimò un'imprecazione colorita. «Sì, bé... hai capito cosa intendo.» Era rosso. Così rosso che il vestito di Babbo Natale a confronto sfigurava.

«E allora... allora tu non uscirai con quei pantaloni che... che... che...» Li indicai con un dito e avvampai ancora. «Che ti mettono in risalto il pacco» dissi tutto d'un fiato, sentendo il viso scottare.

L'ho davvero detto? Merda!

«Non lo risaltano, Robin. C'è. Ce l'ho. È diverso. Che ci posso fare?»

«Sì, che lo risaltano... con i completi che metti al Missan non è così in evidenz-» mi ammutolii di colpo e il mio cervello iniziò a vomitarmi una scarica di insulti.

Baka, baka, baka, baka!

No, ma tranquilla... digli pure che gli osservi costantemente il pacco. Idiota!

Sul volto di Lattner spuntò il solito sorrisetto malizioso e fetente. Quando mi sorrideva a quel modo sentivo le ginocchia diventare burro fuso e iniziavano a tremare peggio di un budino. «Stai forse dicendo che mi guardi il pacco a scuola?»

«Cazzate!» berciai, agitandomi. «Ti pare che... cioè... ma figurati! Io, poi! Con te! Pff!»

Diavolo, perché l'ho detto?

È così palese che lo guardo, ora!

Signore... se devo morire a breve... questo è il momento giusto per accogliermi tra le tue braccia...

«Diavolo, ragazzina! Mi sfinisci!» Si massaggiò la base del naso e abbandonò le braccia lungo i fianchi.

Gonfiai le guance inchiodando gli occhi sulla punta delle décolleté. «Sei tu che hai iniziato.»

«Touché.» Con la coda dell'occhio lo vidi continuare a sorridere e spostarsi per la stanza. Era scalzo e la pianta dei piedi schioccava sul pavimento. Quando raggiunse il comodino si fermò un attimo lì davanti e poi lo aprì tirandone fuori una scatolina rettangolare lunga. «Volevo dartelo in un momento migliore ma penso sia meglio fartelo scartare ora... un po' anche per farmi perdonare per oggi a scuola.»

«Cos'è?» Ero curiosa.

«Il tuo regalo di Natale. Con tutto quello che è successo alla fine non ce li siamo scambiati.»

Oh, giusto.

Il mio lo avevo ancora in camera. Era arrivato da poco a dir il vero. Gli avevo preso una agenda di quelle professionali ad anelli. Dentro gli avevo fatto fare dei refill personalizzati che potessero tenere organizzato il suo lavoro e le sue giornate. C'era anche un angolo dedicato alle attività sportive che faceva. L'idea mi era venuta guardando la Wood. Ironico, vero? Sembrava ossessionata da quella agenda.

«Anche io ti devo dare il mio» farfugliai, strizzandomi le dita mentre si avvicinava. Improvvisamente mi sentivo agitata.

«Me lo darai, tranquilla. Non vedo l'ora di vedere cosa hai pensato per me. Ma intanto...» Lasciò cadere la scatolina nei miei palmi e notai che le mani mi tremavano. «Apri questo. Non morde. Giuro.»

«Non è niente di stupido, vero?» borbottai, fissando la scatola con sospetto. Lui era solito far dispetti, non mi sarei stupita se da un momento all'altro il pacco mi fosse esploso in mano.

«Dipende cosa intendi per stupido...»

«Eddai, Thomas... non fare il misterioso.» Iniziai a strappare un angolo della carta.

Scoppiò a ridere, rifiutandosi di darmi una risposta e per spronarmi mi diede uno spintone con il bacino. Decisi di non fare altre domande. Qualunque cosa fosse l'avrei comunque scoperto a breve.

Sono. Fottutamente. Agitata.

Si può essere agitati solo per aprire un regalo? Diavolo!

Prima di sollevare il coperchio feci un lungo respiro e poi lo tolsi di colpo. Veloce e indolore.

Rimasi immobile a fissare il suo contenuto senza saper bene cosa dire. Il silenzio era calato nella stanza e mi sembrava di sentire solo lo scalpitio del mio cuore.

«È... è...» Che dire?

«Ti piace?» domandò.

Annuii, senza parole.

Nessuno mi aveva mai fatto un regalo simile. Nessuno. Nemmeno Lin, o Adam, o i miei genitori. Nessuno.

Dentro la scatola c'era una collana in oro bianco con un lucchetto e una chiave. Fissai nuovamente la scatola e il regalo. Ero così sorpresa che non trovavo nemmeno le parole giuste per esprimere la mia riconoscenza.

Era bellissimo.

«Sembra un regalo molto... intimo e... e costoso» bisbigliai, posandomi una mano sul petto, il cuore batteva così forte che mi vibrava contro il palmo. Era quel genere di regalo che fai alla fidanzata, credo. O magari a una parente stretta che vuoi far sentire carina.

Non volevo e non dovevo dimenticare che la nostra differenza di età poteva farlo pensare a me come si può pensare a una sorellina. Non dovevo farlo perché sennò sarei esplosa nelle illusioni. E già senza, il mio cuore aveva i suoi problemi a mantenere la calma.

«Potrebbe, sì... ma quando l'ho visto ho pensato a te. Ed è valsa la pena prenderlo... ho ottenuto qualcosa di unico.»

«Oh, sì... sicuramente ne è valsa. È davvero stupendo» farfugliai ancora scossa, ancora tremante, ancora impacciata.

«In realtà mi riferivo più alla tua reazione... ma sì, è davvero stupendo.» Le sue dita scivolarono sulla scatola, afferrando la collanina. «Posso?» chiese, sollevando lo sguardo in cerca del mio.

Le gambe mi tremarono.

Era assurdo il modo in cui cedessi a una sua semplice occhiata, il modo in cui il mio corpo si spezzasse o si addolcisse a ogni sua parola. Ogni sua frase riusciva a fare il bello e il cattivo tempo con me. Bastava un suo gesto per rendere la mia giornata un paradiso o un inferno. E per certi versi, odiavo questo potere che aveva su di me.

«Sì, sì... certo. Anche perché da sola sarebbe un casino indossarla.»

Sogghignò e quando guardai meglio il gioiello compresi il perché. In realtà non c'era bisogno che me lo mettesse lui, il lucchetto era anche la chiusura stessa della collana; bastava semplicemente inserirlo nei due ganci all'estremità e chiuderlo... e il gioco era fatto. Con il fatto che la chiusura restava sul davanti avrei potuto benissimo indossarlo anche da sola, di fronte a uno specchio.

E invece no. Voleva farlo lui.

Lo sentii stringermi per un gomito, attirando così la mia attenzione. «Guardami, Robin.» Quel tono deciso e basso catturò subito la mia attenzione e quasi in automatico gli obbedii come un bravo ma patetico cagnolino addestrato.

Sollevai gli occhi e li impiantai nei suoi, accorgendomi di aver fatto il peggiore degli errori. Sostenere il suo sguardo era difficile. Mi bruciava, mi spogliava, mi faceva sentire fragile e forte al contempo.

Alzò la collanina e mi passò il laccio attorno al collo. Il freddo del metallo a contatto con la pelle mi strappò un brivido ed espirai. Lui era molto più concentrato su di me piuttosto che su ciò che stava facendo. «Sai, quando l'ho vista nella vetrina della gioielleria ho pensato fosse fatta per te. C'era il lucchetto anche a forma di cuore ma con il tuo carattere ho pensato che indossarlo ti avrebbe fatto sentire a disagio.» E aveva ragione, anche se in quel momento l'unico mio disagio erano le sue dita che sfioravano impercettibilmente la mia pelle nuda, in una lenta e agonizzante tortura. Lasciò pendere i due lembi di collana sopra le mie clavicole e prese il lucchetto. Lo passò nelle asole più grosse, quelle alle estremità della collana, ma non lo chiuse subito, lo strinse tra le dita e cercò i miei occhi accennando un breve sorriso. «Vuoi che lo chiudo? Una volta chiuso non si torna indietro.» L'occhio mi cadde sulla scatolina, sulla chiave. Il solo modo per aprire quella collana era usare quella chiave.

Non so come, ma la pelle iniziò a formicolare. Intense vampate di calore presero a irradiarsi in tutto il corpo. Il respiro mi divenne più pesante, forte.

Mi stava dando semplicemente il mio regalo di Natale eppure in quelle parole mi parve di leggere un doppio significato. Le sentii dense di aspettative, di occasioni, una proposta velata di qualcosa. Una promessa, un legame da saldare.

Il cuore mi schizzò in gola mentre lo vedevo lisciare con le dita la superficie del lucchetto. Semplice ma allo tempo così complesso.

Era qualcosa di più. Di più per me, per lui, per noi. Era un passo avanti, verso qualcosa che non sapevo. E forse non sapeva nemmeno lui. Era un silenzioso dirci qualcosa, ma cosa?

Annuii, abbassando lo sguardo nella speranza di non essere arrossita.

«Preferirei sentirtelo dire, Robin.» La voce bassa, arrochita. Rabbrividii. Trattenni il fiato.

Niente ragazzina, solo Robin.

Avevo scoperto che quando usava il mio nome tremavo e mi si accendeva una piccola e indecente fiammella nel bassoventre che pulsava fin quando non riprendevamo le distanze. Era imbarazzante? Sì. Era eccitante? Terribilmente. «S - sì» rantolai. Presi fiato. «Voglio che lo chiudi.»

Il click del lucchetto mi fece accapponare la pelle e deglutire.

Fui pervasa da una strana sensazione di possesso come se in qualche modo, mettendomi quella collana, mi avesse catturata e appeso un cartello al collo che ne rivendicava la sua proprietà. Una proprietà di entrambi, condivisa. Come se improvvisamente fossimo diventati l'uno un po' dell'altra.

Pensarci mi fece arrossire e lui se ne accorse perché sorrise soddisfatto. «Come vedi... è lunga ma non abbastanza da riuscire a sfilarla dalla testa.» Mi girò attorno, passando le dita sulla catenina, fermandosi con il polpastrelli sul mio collo, proprio al centro delle spalle. Quel tocco, per quanto immobile e impercettibile, sembrò scivolarmi giù dritto lungo la spina dorsale, correndo fino ai piedi e tornando fin sui capelli. Mi irrigidii e istintivamente serrai le gambe. Ero eccitata? Forse.

Non lo vedevo e non riuscivo a percepire la sua presenza se non per quelle due dita, posate proprio alla base della mia nuca. Non stava facendo niente eppure il mio corpo era scosso da fremiti. Avevo il fiatone. Lo sentii avvicinarsi e il suo petto aderì completamente alla mia schiena. Tanto bene che riuscii perfino a sentire la durezza del suo piercing al capezzolo. Allungò la mano e per un attimo fui convinta che mi avrebbe abbracciato, invece prese la chiave dentro la scatola e la sollevò in modo che la vedessi. «E visto che per togliere questa collana serve questa... questa la terrò io. Ne avrò molta cura, promesso.»

La mia chiave. Lui. L'avrebbe tenuta lui.

«E se... se la volessi togliere, non so... domani? O dopodomani?»

Rise e la sua risata mi vibrò contro la schiena, suscitandomi un altro susseguirsi di vampate bollenti in tutto il corpo. «Non puoi. È la tua punizione.»

«La mia punizione?»

«Esatto. Per esserti tagliata i capelli.» Parlava piano, con deliberata lentezza e così vicino al mio orecchio che il suo alito solleticava la pelle del collo fin quasi farmi impazzire.

«Che – che cosa c'entra con questo?» Feci per voltarmi ma appoggiò la mano libera sul mio ventre, tenendomi compressa contro di sé, impedendomi di voltarmi ma lasciando anche che i nostri corpi combaciassero interamente. Una scarica d'eccitazione mi pervase quando sentii la sua erezione premuta addosso. Mi tappai la bocca con entrambe le mani e soffocai un gemito. Troppe, troppe emozioni tutte in una volta.

In quel momento i miei pensieri stavano sconfinando nel porno. Ero eccitata e sapevo che avrei dovuto riprendere possesso del mio cervello ma mai mi era sembrato tanto difficile. Soprattutto perché anche solo respirare era un po' come affogare in lui, nel suo profumo, nella sua colonia, nel suo odore.

«Potrai riaverla solo quando saranno abbastanza lunghi.»

«Qua – quanto lunghi?» chiesi, balbettando come una sciocca.

«Uhm... quanto... vediamo...» Restò zitto un attimo poi ritirò la mano, si allontanò da me, da quel contatto. Mi sentii spoglia, vuota. Ma un istante dopo sentii la chiave scorrermi sulla pelle. Trasalii per il freddo e la durezza del metallo. Lattner giocò facendola tintinnare contro la catenina e poi trascinandola sulla mia schiena scese più giù, sempre più giù, lungo la spina dorsale.

Il brivido sembrò seguire quel tocco graffiante, si accese dal collo e si gonfiò a ogni lembo di pelle toccata. Terminò la corsa proprio sul mio fondoschiena, proprio dove terminava anche la scollatura del vestito. «Fino a qui» mi bisbigliò all'orecchio, con una voce roca e pregna di un desiderio che avrei tanto desiderato placare. Nell'aria si respirava eccitazione, passione, voglia.

«È un... un bel po' di tempo... un progetto a lungo termine, direi» dissi, pensando a quanto ci avrebbero impiegato i capelli per arrivarmi fin quasi al culo.

«Lo so. E per tutto questo tempo terrò la chiave e aspetterò.»

Aspetterai... cosa?

Mi tormentai il labbro con i denti. «E dopo?»

«Dopo sarai libera di scegliere se toglierla o tenerla per sempre.» Sentii il suo pollice ripercorrere il percorso poi si staccò da me trattenendomi le mani sui fianchi. Subito dopo sentii le sue labbra calde posarsi nello stesso punto, sul fondoschiena; ci passò la lingua e il piercing rotolò sulle pelle già diventata sensibile. Baciò la zona con un leggero e poi più intenso risucchio.

Quando tornò su, tremavo come una foglia e strizzavo convulsamente le cosce. Le ginocchia mi sbattevano tra loro da quando le gambe vacillavano.

«Mi – mi hai... mi hai... fatto un succhiotto?» Non ebbi nemmeno il coraggio di girarmi e guardarlo in faccia. La sua presenza alle spalle mi sembrava già qualcosa di insopportabile per la mia sanità mentale.

«Sì, bé... pensavo ti sarebbe stato utile per ricordare meglio questa conversazione.»

Eccheccazzo!

E chi la scorda più!

Il citofono squillò e lui si staccò da me con un movimento brusco. Con la coda dell'occhio lo vidi uscire dalla stanza e la tensione si allentò così tanto che fui felice di trovarmi a portata del suo letto. Praticamente ci crollai a sedere sopra.

Avevo il viso in fiamme e il cuore in gola, tremavo, sudavo freddo, caldo ed ero eccitata all'inverosimile. Così eccitata che mi ero perfino bagnata.

Nascosi il viso nelle mani tremanti con il solo e unico desiderio di andarmi a fare una doccia fredda e magari darmi piacere sotto l'acqua.

Merda. Merda. Merda.

E fortuna che dovevo essere io a sedurlo!

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