11 - OGNI COSA A SUO TEMPO
Ero nervosa. E io lo so, che quando sono nervosa, non dormo. Insomma, non dormo nemmeno quando sono tranquilla... figuriamoci quando sono nervosa.
Mi ero rigirata nel letto per un'ora intera e poi, sconfitta, avevo deciso di alzarmi e andare in sala. La litigata con il Re – o meglio – con quello stupido di Lattner, mi aveva lasciato un retrogusto amaro in bocca che non andava giù. Proprio non riuscivo a digerire il modo in cui mi aveva liquidato. Anzi, il modo in cui aveva liquidato qualsiasi cosa esistesse tra noi.
Mi baciava, sembrava essere geloso e poi non voleva confidarmi la sua identità. Che io, tra parentesi, già sapevo. Ed era questo a lasciarmi basita, a confondermi. E forse anche a spaventarmi. Il fatto che lui dividesse la sua vita in due.
C'era il Re. C'era Lattner. E sembravano due figure ben distinte.
E allora quel sentimento di trasporto e passione che provava quando era il Re, cosa significava quando invece era Lattner?
Il fatto che si ostinasse a mantenere il segreto mi faceva pensare che forse non era nulla di serio, niente di abbastanza impegnativo o che valesse la pena di essere condiviso con me al cento per cento. Ed era questo a farmi paura. Il fatto che stesse giocando, che giocasse con i miei sentimenti avvalendosi di una maschera.
Strinsi il pacchetto di sigarette e mi lasciai cadere sul divano. Non sono mai stata una tipa insicura con gli uomini, eppure Lattner era riuscito a stravolgere ogni definizione di me stessa. Vicino a lui mi sentivo immatura, infantile. Era come se gli fossi sempre dietro, mai al pari, mai abbastanza.
Non ero mai abbastanza. Non lo ero mai stata.
Né per i miei, né per la banda, né per me stessa. Questa era l'unica costante della mia vita e non me ne riuscivo a liberare.
Accesi una sigaretta, lanciando il pacchetto sul tavolino. Ero arrabbiata. Con me, con lui, con tutti. Fanculo. «Diavolo, Rob! Ti stai davvero auto commiserando per un uomo? Merda! Ma quanto sei messa male?»
Bè, mai quanto parlare da sola in una stanza vuota.
Non potevo credere di essermi ridotta così per un uomo. Per Lattner, dannazione! Che passava la maggior parte del tempo a trattarmi come una sorellina molesta e il restante a farmi dispetti come un ragazzino.
Finii la mia sigaretta e la spensi nel posacenere sul tavolino. Non amavo fumare in casa ma non sarei uscita a congelarmi le chiappe, proprio no.
Fissai l'ora sul cellulare. Le quattro di notte. E lui non era ancora tornato. Sentivo uno strano magone. Il timore che gli fosse successo qualcosa. Avevo imparato a fare tutto da sola, a cavarmela senza dipendere da nessuno; eppure ora che Lattner era entrato nella mia vita, mi veniva automatico preoccuparmi anche per lui. Non capitava più dai tempi in cui abitavo sotto lo stesso tetto di Adam e Lin. Da una parte era seccante, dall'altra piacevole; mi dava l'idea di casa, di famiglia.
Comunque non avevo alcuna intenzione di incrociarlo. Ero ancora troppo arrabbiata per essere sicura non mi sfuggisse qualche parola di troppo.
Fissando un'ultima volta l'ora mi alzai dal divano pronta per tornare in camera e cercare di dormire ma non feci nemmeno in tempo a raggiungere il corridoio che sentii girare la chiave nella toppa. Trasalii. Immobile come un gatto quando vede i fari di un auto in piena notte. Non potevo nascondermi, né fingere di fare qualcosa. Quindi trattenni il respiro.
La porta si aprì su Lattner, aveva i capelli spettinati e qualcosa stretto tra le mani. Mi vide prima lui perché sgranò gli occhi e imprecando in maniera piuttosto colorita lanciò dietro di sé ciò che teneva tra le mani, fuori casa. Richiuse la porta con un colpo secco, facendo un sorriso tirato.
Il tonfo che sentii dal corridoio esterno, fui certa fosse del casco.
«Robin!» gracchiò, mentre appiattiva i palmi sulla porta come se tenesse a bada un mostro. Guardava me, la porta, me, la porta, me, la porta... «Che – che ci fai sveglia?» Infilò una mano in tasca e sfilando il cellulare digitò velocemente qualcosa. Lo intascò subito dopo. «Non riesci a dormire?» chiese, cauto. Sembrava tastasse il terreno per capire come stava veramente la situazione.
Nel frattempo sentii chiaramente la porta dell'appartamento accanto aprirsi e la voce di Märten imprecare in tedesco. Con ogni probabilità era dovuto andare a recuperare la roba.
Fu davvero faticoso non scoppiare a ridere. Dovetti mordermi la lingua. «Già. Colpa dell'insonnia» mentii, buttando lì la prima scusa che mi venne in mente.
«Oh! L'insonnia... giusto... tu soffri di... insonnia...» Si passò una mano nei capelli, arruffandoli ancor di più. «Pensavo che...» Scosse il capo. «Niente.» E scoppiò a ridere.
Oh, sì... ti sei cagato in mano, eh?
Pensavi che fossi sveglia ad aspettarti per dirti che so tutto, eh?
«Già. Insonnia.»
«Già» ripeté lui. E allentando la presa sulla porta, si staccò avanzando verso il salotto.
Solo in quel momento notai il viso. Un rivoletto di sangue gli colava dallo zigomo lungo tutta la guancia, perdendosi fino al mento.
Sentii una stretta al petto, una fitta. In un attimo gli fui accanto. «Ma che diavolo hai fatto, eh?» Gli afferrai la faccia con una mano, girandola per veder meglio il taglio. Sentivo il cuore marciare una corsa tutta sua. Per un attimo, la paura che gli avessero fatto male sul serio era schizzata alle stelle mandando a puttane la regolare cadenza delle mie palpitazioni.
«Oh, quello? Non è niente... semplice disattenzione! Sono andato a sbattere contro un... un...»
Un pugno... sì.
«Forza, vieni... curiamo questa tua disattenzione!» Afferrandolo per la camicia lo trascinai verso il bagno. Con la coda dell'occhio lo vidi roteare gli occhi e ghignare divertito. Fece un po' di resistenza, strappandomi alcune imprecazioni e facendosi tirare più del dovuto.
Quando lo spinsi sulla tavoletta del water mi scaricò addosso un'occhiata che riuscii a farmi arrossire fin sulla punta dei capelli. Allargò le gambe e si stravaccò come se non aspettasse altro che lo medicassi. «Ecco... vado bene così? Puoi abusare di me quanto vuoi... sono esausto» biascicò a occhi chiusi.
Posso abusare di lui quant... No!
No, Rob! Non sta dicendo per davvero!
Avvampai e per l'imbarazzo gli rifilai un calcio.
Anziché accusare il colpo aprì un occhio e le labbra si arcuarono in un sorrisetto malizioso. «Non si picchiano i pazienti, non lo sai?»
«Thomas» ringhiai, afferrando dalla mensola il kit del pronto soccorso. Ero indecisa se picchiarlo usando il kit come arma o medicarlo per davvero. Trascinai lo sgabello che tenevamo nel bagno davanti a lui, sedendomi con uno sbuffo che lasciava trasparire ogni fibra di frustrazione che avevo accumulato da quando abitavo con lui.
Passavo dalla rabbia alla cocente voglia di baciarlo. Non era sano questo alternarsi di sentimenti contrastanti. Mi fotteva il cervello, più di quanto già non fosse messo male.
Iniziai a preparare tutto l'occorrente, focalizzandomi sulla piccola scatola che tenevo in grembo.
Quanto eravamo sinceri l'uno verso l'altra? Perché tra noi dovevano esserci tutti questi segreti? Era un pensiero che mi demoliva, l'idea di non esser abbastanza meritevole della sua fiducia. O forse ero solo paranoica.
Non potevo nemmeno essere franca, dirgli quanto sapevo e gustarmi la sua espressione; perché ero consapevole che farlo avrebbe cambiato molte cose e non ero del tutto certa di esserne pronta o di volermi giocare tutto così, un po' come alla roulette russa. Poteva andare bene come no. Chi mi assicurava che una volta detto non mi sarei di nuovo trovata punto e a capo, con magari la necessità di trovarmi un'altra casa?
Mi rabbuiai e presi a mordermi il labbro.
«Ehi, sicura che è tutto okay?»
Scossi il capo. «Non proprio.» Strinsi le labbra in una linea dura, reprimendo l'istinto di alzarmi e uscire dal bagno. Sarei solo sembrata stupida e immatura. E patetica.
«Ne vuoi parlare?»
Era divertente l'idea che parlassimo di lui, come se non fosse lui. Forse persino folle. Presi un respiro e decisi di fare un tentativo. «C'è una persona...»
Aprì gli occhi e mi guardò. Mi ero appena allungata verso di lui, a tamponargli lo zigomo con del cotone idrofilo imbevuto nel disinfettante. Quella vicinanza e quegli occhi color cielo in piena estate mi fecero trasalire. «Quel mezzo teppista?» chiese.
Mi venne da sorridere e per poco non gli diedi la risposta sbagliata, quella che mi sarei dovuta tener incastrata in gola per chissà quanto altro tempo. «Già, lui.»
«Che succede?» Era prudente con le domande. Non si sbilanciava mai.
Sbuffai. «Non so, Thomas. È tutto così sbagliato tra noi...»
Lo vidi vacillare. Prese una grossa boccata d'aria ed espirò piano, passandosi la lingua sulle labbra. Fui quasi sul punto di sentire gli ingranaggi del suo cervello, veloci e frenetici. «Raccontami.» Una sola parola. Gli uscì dai denti stretti, come se si sforzasse a non dir oltre.
Eravamo entrambi dei pessimi attori. Forse persino delle pessime persone. Quale buon samaritano mente con questa forza e questa costanza?
«Lui mi piace. Lo avrai capito, no?»
Deglutì. «Sì, lo avevo intuito.» Fece una smorfia mentre gli pulivo la ferita, immersa totalmente nei dettagli più impercettibili del suo viso. Era bello come sempre. Bello e dannato.
Gli passai due dita sotto il taglio, aveva la pelle gonfia. I polpastrelli sembrarono restar incollati lì, su quella guancia calda e arrossata. Lattner li raggiunse coprendoli con la propria mano, stringendo la mia. «Puoi dirmi tutto quello che vuoi, Rob. Lo sai questo, no?» aggiunse, guardandomi con più insistenza.
Era singolare come le sue due parti di lui non combaciassero proprio per niente. Una parte era così politicamente corretta da farmi desiderare di essere migliore; l'altra sporca e oscura, in grado di riportare a galla una vecchia me che cercavo di dimenticare. Era quell'ultima parte di lui e scombussolarmi tutta, a rendere tutto più difficile.
«Credo di non piacergli abbastanza.»
Strabuzzò gli occhi. Mi sembrò davvero sorpreso. «E cosa te lo fa credere? Te lo ha detto lui?»
Lo sai cosa mi hai detto. Lo sai...
Scossi il capo. «Non proprio. Cioè... insomma... ha lasciato intendere che quello che c'è tra noi potrebbe essere tutto un gioco. Non lo ha negato.» Mi passai una mano nei capelli. Ero imbarazzata. Come si poteva parlare di qualcuno così chiaramente fingendo che non fosse chi si aveva di fronte? Io proprio non lo sapevo. E non lo sapevano nemmeno le mie guance, che ormai erano tinte irrimediabilmente di rosso. «Ci sono stati dei baci... ma non vuole dirmi chi è. Non si vuol rivelare... non si fida abbastanza di me.» Deglutii. «Insomma, Thomas... ho baciato un completo sconosciuto, una maschera, un'ombra.»
Ed era vero. Fondamentalmente la prima volta che ci eravamo baciati non sapevo che il Re fosse lui. Eppure lo avevo baciato lo stesso. E l'intensità con cui lo avevo voluto non era stata minore di quando lo avevo baciato anche quella sera, solo poche ore prima.
Lattner strinse la presa sulla mia mano, lasciò aderire il proprio palmo contro il mio dorso e quella stretta sembrò trasformarsi in una carezza. «Ogni cosa a suo tempo, Rob.» E forse aveva ragione, ma io ero l'impazienza fatta persona.
«Già. E intanto io son qui come una stupida, a sperare in qualcosa che magari nemmeno esiste.» Feci una risata forzata. Uscì spiacevole perfino alle mie orecchie.
«Lo credi davvero?»
Scrollai le spalle. «Non lo so. A dir il vero non so più bene in cosa credere...»
«Eppure da quel che dici non mi sembra il tipo che va in soccorso di chiunque, no? Né che forse bacerebbe chiunque, non credi?»
«No... hai ragione ma... magari son io che ho capito male tutto quanto. Magari è uno che vive la vita alla giornata, che prende su quello che gli danno, che non sa dire di no a un bel visino.»
Inarcò un sopracciglio e non commentò l'infelice battuta sul Re e sulle pessime abitudini che gli avevo affibbiato. Sapevo che non era qualcosa da lui, eppure mi riusciva bene essere crudele a volte. Rimase in silenzio, assorto. Giocò intrecciando le sue dita alle mie, ancora saldamente posate sulla sua guancia. «Ti dirò un segreto...» disse d'un tratto. Alzai lo sguardo, attenta. «La gente ha paura. Soprattutto la gente che ha sofferto tanto.» E questo lo sapevo bene. Di paura ne avevo anche io. «La gente ha paura di essere felice, ha paura di farsi male... di bruciarsi. Quando qualcuno vive per molto tempo nel dolore, non riesce ad abbracciare la felicità con leggerezza. Pensa di non meritarla, di non esserne all'altezza, di rovinare tutto alla prima occasione.»
Gli sfilai la mano da sotto la sua, cacciandomela tra le gambe, stringendola in mezzo alle ginocchia. «Posso capirlo, sì.» Non era un discorso così insensato. Facevo i conti con le mie paure costantemente ma non avevo pensato alle sue, al fatto che anche lui potesse averne. «Quindi credi che... lui aspetti solo il momento giusto per dirmi che gli piaccio?»
Allungò le braccia e in un istante ritrovai il mio viso tra le sue mani. Mi attirò verso di sé e per un attimo pensai mi baciasse ma invece fermò quella corsa a un palmo dalla sua bocca. La punta del mio naso sfiorò la punta del suo. I nostri respiri si scioglievano e fondevano l'uno nell'altro. «Ne sono sicuro. Al cento per cento» rispose, con un certo affanno. Si passò la lingua sulle labbra e colsi il luccichío del piercing. Rabbrividii. «Devi capire che...» tacque, lasciando morire la frase a metà. Sgranò gli occhi e mandò giù le parole come se fossero una boccata di cibo stantio, il pomo d'Adamo balzò su e giù in gola. Non lo vidi, eppure fui certa che nel suo cervello si accendesse un allarme perché si staccò bruscamente, alzandosi con un guizzo dalla tavoletta. Aveva il viso rosso, in fiamme. Si portò il dorso della mano alle labbra, gli tremava. «Gra – grazie per la medicazione.» E si precipitò fuori dal bagno.
Mi afflosciai sullo sgabello, lasciando al cuore il tempo per tornare normale, sperando che non mi esplodesse dal petto. Sentivo il viso in fiamme e le gambe molli, non ero sicura che alzarmi da lì fosse la scelta più saggia.
Sollevai gli occhi verso il soffitto e sospirai. «Sì, ma quando arriverà questo momento? Quando?» Io non ce la facevo più ad aspettare, ad aspettarlo. Lo volevo troppo.
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