10 - HAREM REVERSE
Il Joily era vuoto. Dopo le festività l'afflusso di clienti era calato parecchio e c'era molto meno lavoro. Avrei potuto benissimo fare il turno da sola ma Nate non aveva voluto sentire ragioni e quindi avevamo trascorso il servizio per lo più seduti, annoiati e a parlare del più e del meno.
Aveva detto di essersi preoccupato molto per quello che mi era accaduto. Non immaginava che Detroit pullulasse di delinquenti e che una povera e ignara studentessa, insieme al proprio migliore amico, potesse di punto in bianco essere aggredita per strada.
Questa versione edulcolorata della rissa con Sullivan mi lasciò perplessa e divertita perché non riuscivo a spiegarmi come avesse potuto partorire una simile idea... bé, almeno fin quando Nate non mi spiegò che era venuto a casa mia preoccupato per la mia assenza e Lattner gli aveva aperto, lo aveva fatto entrare e mentre gli serviva un caffè gli aveva raccontato questa triste quanto strappalacrime storia. Nate gli aveva creduto. Lattner doveva aver un Master per raccontare in maniera così convincente certe balle.
Ad ogni modo, sotto le pressioni di Nate, il capo del Joily mi aveva dato tutte le festività per stare a casa e riposare. E questo primo giorno non era stato affatto pesante, soprattutto con la sua costante e soffocante supervisione.
«Chiudiamo, Rob.» Mi passò la scopa e andò dritto verso la porta. Passò il cartello da APERTO a CHIUSO. Non girò la chiave nella toppa solo perché mancavano ancora quindici minuti a fine turno e se fosse passato il capo a fare un controllo avrebbe fatto storie. «Da' solo una spazzata mentre faccio la chiusura... stasera avremo avuto sì e no venti persone.»
Non feci obiezioni e iniziai a pulire. In verità non avevo molta voglia di parlare con Nate. Faceva troppe domande, troppo personali. Sembrava sempre troppo curioso dei fatti miei, soprattutto quelli che includevano anche Lattner.
«Ti porto a casa io stasera.» Categorico. Come sempre.
Sollevai la testa dalla scopa e lo fissai trucemente. «Grazie, Nate... ma ho due gambe che mi funzionano ancora alla perfezione.»
Lui mi rivolse una smorfia. «Almeno una volta potresti semplicemente dire grazie.»
«Grazie... ma no!»
Con un moto di stizza sbatté il grembiule sul tavolo e mi fissò in cagnesco. «Cazzo, Robin! Ti è così difficile accettare il mio aiuto? Dopo quello che ti è successo mi sembra il minimo.» Richiuse con un colpo secco la cassa. «Capisco che non vuoi frequentarmi... bé, no! In realtà non lo capisco! Non l'ho mai capito! Dopo la nostra uscita ti sei letteralmente freddata nei miei confronti. Mi hai allontanato senza darmi alcuna spiegazione.»
Trasalii. Non ne avevamo mai parlato. Era stata un'uscita sbagliata sotto tanti punti di vista. Il sospetto che Nate fosse il motociclista mi aveva spinto a volerlo conoscere meglio, anche se nel mio cuore sentivo già la presenza di Lattner. Solo che non lo volevo ammettere. E non volevo nemmeno ammettere che il mio interesse per Nate era direttamente proporzionale al fatto che lui fosse o meno il motociclista. Era qualcosa di così superficiale che mi vergognavo di me stessa.
Uscì da dietro il bancone e mi raggiunse. «Che cosa è successo tra noi, Rob? È per via del tuo professorino?» disse l'ultima parola con disgusto e per un attimo mi venne voglia di schiantargli la scopa in testa.
«Perché tutto deve girare intorno a lui? Per caso ti senti minacciato?»
«Minacciato? Da uno così?» Proruppe in una risata secca e scortese. «Ma figuriamoci!»
«E allora cosa? Per caso ti interessa? No, sai... perché lo nomini sempre, più di quanto non faccia io.» Quella stoccata crudele sembrò colpirlo nel punto giusto perché si ritrasse come se lo avessi schiaffeggiato.
«È questo quello che pensi? Che mi voglia fare quello sfigato?» ringhiò, senza staccare il suo sguardo dal mio. L'idea che lo associassi a Lattner in chiave romantica lo mandava fuori di testa. «Pensavo lo avessi capito che in realtà sei tu quella che mi interessa. E non parlo di un rapporto tra colleghi...»
Avvampai. Bè, sì... non ci voleva un genio per capirlo. Ciò che non capivo era perché ne stavamo parlando proprio ora.
«Vado... vado a cambiarmi» borbottai, affibbiandogli la scopa e sparendo negli spogliatoi.
Ci rimasi un tempo indefinito, seduta su una delle panchine, a rimuginare su cosa fosse bene dirgli e cosa fosse meglio omettere. Non potevo certo raccontargli la storia del motociclista, dei miei sospetti su di lui né del fatto che mi ero irrimediabilmente invaghita di un misterioso delinquente che si era rivelato essere il mio professore nonché mio coinquilino. Era tutto un casino.
Quando uscii da lì, Nate era spalmato contro il muro del corridoio, gli occhi socchiusi e nelle orecchie delle cuffie. Sembrava un po' più sereno ma non appena si accorse di me, tutto in lui si tese. «Andiamo» disse, rimettendosi dritto. Sembrava davvero intenzionato a scortarmi a casa e non c'era verso di fargli cambiare idea. Se solo quell'idiota di Lattner non gli avesse raccontato che ero stata aggredita, forse sarei in qualche modo riuscita a scampare da quella scorta forzata.
«Senti, Nate... io non vorrei sembrare scort-» Il campanello dell'ingresso suonò annunciando l'arrivo di qualcuno ed entrambi ci voltammo per vedere chi fosse.
No! Dannazione! Non ci credo...
Strabuzzai gli occhi e fissai l'enorme figura che stagliava sulla porta con il solito sorrisino malizioso. «Cavolo, niente divisa... sono arrivato tardi.» Ramones oscillò sui talloni, con le mani affondate in tasca. Aveva una sigaretta incastrata dietro l'orecchio e quello sguardo strafottente.
«E tu che diavolo ci fai qui?» sibilai, raggiungendolo di slancio.
«Ti sono venuto a prendere.» Si chinò posando le labbra sulle mie. Un bacio veloce e tenero che mi fece partire una raffica di brividi lungo tutto il corpo. Trattenni il respiro, allontanandolo subito. Sapeva baciare bene, questo non potevo negarlo. «Volevo vederti vestita da maid... ma ho fatto tardi al lavoro, cavolo!» Gli strinsi il giacchetto, era gelato. Per quanto era rimasto fuori in attesa che uscissi? O forse si era fatto un lungo pezzo di strada a piedi?
Nate si schiarì la gola con un colpo di tosse, abbastanza forte da farmi intuire il suo stato d'animo prima ancora di guardarlo. Quando mi voltai in sua direzione nel suo sguardo c'era una luce cupa e spaventosa. Era incazzato. Dovevo fare qualcosa prima che si scatenasse il putiferio. «Ram... ehm... lui è Nate Wiman. Il mio collega, nonché superiore.» Presentarli forse non era la scelta migliore ma che alternativa avevo?
Ramones si tolse dalla faccia quell'espressione sfrontata e sfilando la mano di tasca l'allungò verso Nate. Apprezzai il gesto. «Ramones Vega, piacere.» Gli rivolse un sorriso.
Nate fissò quella mano come se gli avesse appena passato una bustina di droga. Poi fissò me. «Ti sei fidanzata?» chiese, liquidando il gesto carino di Ramones con una scrollata di spalle.
«Siamo ex» dicemmo all'unisono io e Ram, mostrandoci una linguaccia in contemporanea.
«E baci tutti i tuoi ex?»
Lo disintegrai con lo sguardo. «Non tutti... solo quelli che incontro. E comunque non sono affari tuoi.» Questa sua inquisizione stava davvero iniziando a diventare seccante e fuori luogo. E mi conoscevo. A breve sarei esplosa come una mina antiuomo.
«E il professore lo sa?» chiese, scortesemente.
Adesso gli do un pugno.
Gli do un pugno e gli faccio saltare tutti i denti!
«Quale professore?» domandò Ramones, curioso. Ma dallo sguardo luccicante e sospettoso compresi che si era già fatto una mezza idea. È sempre stato un tipo sveglio.
«Ne - nessuno» balbettai, spingendolo verso l'uscita.
«Sicura? E perché sei tutta rossa?»
Maledetto Nate! Dannato ficcanaso!
«Rossa? Ti sbagli.» Sentivo le orecchie andare a fuoco.
«Non me la racconti giusta.»
Nate rise, seguendoci fuori dal Joily, nel piccolo vicolo che dava sulla strada principale. «Questo perché lei non la racconta mai giusta.»
Ramones si voltò a guardarlo. «Sei anche tu un suo ex?»
L'altro scrollò le spalle. «A quanto pare sono diventato ex ancor prima di diventare il suo ragazzo.»
Ma che stracazzo sta succedendo?
Sembra a me o questi due si stanno coalizzando?
«Ehi, voi due! Basta sparlare di me. Sono qui!»
«E allora sii chiara» brontolò Ramones cingendomi la vita con un braccio e affondando il viso nell'incavo del mio collo. Quando sentii che mi stava annusando rabbrividii. Alcuni suoi gesti mi riportavano indietro di anni. Non era cambiato di una virgola.
«Oh, non credo proprio... lei non è mai chiara» disse Nate, estraendo una sigaretta dal pacchetto e accendendosela con una certa stizza.
«Nate!» Lo fissai stralunata. Da quanto aveva tutto questo risentimento nei miei confronti? Da quanto covava tutta quell'acidità? «Ma che diavolo ti prende stasera, eh? E poi io sono sempre stata chiara, lo sai...»
«Ah, sì? Davvero? E allora da quand'è che si baciano dei ragazzi che in realtà sono degli ex?»
Avvampai e di riflesso mi liberai dalla presa di Ramones che sbuffò seccato. «Mi ha baciato lui prendendomi alla sprovvista. Non era qualcosa di voluto, ero contraria.»
«Non sembrava» rimbeccò l'altro, strofinando le suole in terra e rimettendosi le mani in tasca.
Gli rifilai un'occhiataccia pronta a insultarlo ma Nate mi bloccò contro il muro del vicolo. Quell'atteggiamento rude e deciso mi congelò le parole in gola. Nate a volte aveva cambi repentini di umore che riuscivano a spiazzarmi. «Anche io ti ho baciato... e nemmeno quella volta sembravi così contraria.»
Calma, Rob... calma...
Inspirai ed espirai. Inspirai ed espirai ancora. Poi il suo sguardo carico di pregiudizi riuscì a spazientirmi, a riportare a galla vecchie ferite, a ricordarmi vecchie occhiate crudeli che spesso partivano proprio da gente che amavo come i miei genitori. Sentii la rabbia ribollire molto più del necessario e me la presi con lui incolpandolo anche per tutte le altre questioni irrisolte. Senza preavviso lo spinsi lontano da me, barcollò. «Cosa stai cercando di dirmi? Che sono una tipa facile? Avanti, Nate! Dimmelo, ti prego... voglio proprio sentirtelo dire.» E fanculo alla calma e alla razionalità.
«Non diciamo stronzate! Non ti darei mai della facile per dei semplici baci. Dico solo che... cazzo, Rob! Non ci capisco niente con te.»
Ma ormai io ero partita per la tangente. Continuavo a vedere nei suoi occhi le espressioni disgustate dei miei genitori, la loro disapprovazione, il loro disprezzo e quel velo di commiserazione che riusciva a farmi perdere il filo della ragione. «Magari forse ti brucia soltanto perché dopo quei baci non ci siamo spinti oltre, eh?» urlavo.
Non riuscivo a credere che stavamo davvero litigando come due ragazzini, che ci stavamo rinfacciando gli insuccessi del nostro rapporto naufragato, né tantomeno che lo stavamo facendo davanti a Ramones.
«Sì, forse mi brucia anche per quello. E allora? Che ci posso fare se mi piaci e non riesco a darmi pace perché non ha funzionato?» Fu imbarazzante sentirglielo dire, lo ammetto. «Ci provo a gettarmi la cosa alle spalle... ma poi... poi continuo a vederti in compagnia di quel professorino del cazzo e ora di questo... bé, questo...» Allungò il braccio segnando Ramones che in tutta risposta gli fece un sorrisetto sghembo. «Che cazzo sei tu, eh? Un fottuto trafficante di droga di un cartello messicano?» Stava dando di matto. Prese una boccata di fumo e iniziò a muoversi lungo il vicolo come un'anima in pena o una tigre chiusa in gabbia. «Fanculo, Robin! Fanculo! Dannazione!»
Avrei voluto e dovuto mandarlo al diavolo, soprattutto per come mi stava trattando. Ma in realtà mi ammutolii e le gote bruciarono come tizzoni. Proprio non sapevo che dire. Non avevo mai visto Nate così confuso, frustrato, arrabbiato, così preda delle proprie emozioni ma soprattutto così sincero. Era la prima volta che si metteva tanto a nudo.
Si bloccò, fece un lungo respiro e poi tornò a guardarmi. «Scusa... davvero... scusa.» Si pizzicò il naso e scosse la testa. «È che... riesci a minare tutti gli anni di terapia che ho fatto.» Si ravviò i capelli con entrambe le mani, stringendo la sigaretta tra i denti. Le dita gli tremavano. Doveva essere particolarmente scosso.
«Oh, bé... non l'avrei mai detto che andavi in terapia, sai?» lo rimbeccò ironicamente Ramones, prendendosi in tutta risposta un dito medio.
Restammo in silenzio per un attimo, a regolarizzare i respiri, a riprendere possesso dei cervelli e delle parole. Nate si abbassò contro di me e posò la fronte contro la mia spalla. «...bilità» biascicò, passandomi le mani lungo le braccia.
«Co - come?»
Si staccò da me per potermi guardare bene in faccia. Il viso gli si tinse di rosso, inclinò il capo e sorrise impacciato. «Dammi un'altra possibilità, Rob... e prometto che non te ne pentirai.»
O-oh, cazzo! Questa proprio non me l'aspettavo!
Boccheggiai una risposta priva di significato e sentii il corpo esplodere in una vampata di calore. «Io non... ecco, sarebbe meglio se...» Stavo per ribattere, per rifiutare con gentilezza; quando il rombo di una moto troncò di netto quel mio balbettio imbarazzate e tutti ci voltammo verso il bolide che, sfrecciando in nostra direzione, si fermò a un palmo da noi.
Il motociclista spense la moto e con un colpo del tacco dello stivale abbassò il cavalletto. Tamburellò le dita sul serbatoio e puntò gli impenetrabili occhialoni vintage su di me.
Una strana tensione calò nel vicolo, permeando di silenzio l'intera scena. Nessuno si mosse ma tutti lo guardarono. Il Re riusciva sempre a canalizzare su di sé ogni attenzione.
Sembra a me... o la mia vita si sta trasformando in un fottuto anime harem reverse?
«Il Joily è chiuso» fu la prima cosa che disse Nate, accigliato.
«E chi se ne frega» gli rispose la versione badboy di Lattner. «Io sono qui per lei» aggiunse, indicandomi. E poi dal nulla fece comparire un casco che oscillò con il braccio teso in mia direzione. «E guarda un po' che ti ho portato questa volta, ragazzina.» Il tono sembrava divertito.
Arrossii fin sulle orecchie. Era la prima volta che faceva un gesto tanto significativo nei panni del Re. Solitamente si limitava a spuntare in mio aiuto, non a venirmi a prendere come... come... bé, come a un appuntamento.
Oddio... è davvero un appuntamento?
«Che diavolo sta succedendo? Non capisco.» Nate mi rivolse un'occhiata confusa e poi torno a guardare il motociclista. La sua presenza aveva reso tutto più complicato da sistemare. Come se già non bastasse Ramones. «E questo chi è?»
«Il mio babysitter» ironizzai, raggiungendolo.
Mr.Teschio scivolò verso il serbatoio, lasciandomi abbastanza spazio per salire. E la mia prima tentazione fu quella di assecondarlo, senza riserve, senza esitazioni. Forse lo avrei seguito in capo al mondo se solo me lo avesse chiesto.
«Un - un attimo...» Ramones apparve nel mio raggio visivo sbarrandomi la strada e quel briciolo di travolgente irrazionalità sfumò veloce come mi aveva colto. Anche lui era venuto lì per me e io lo stavo liquidando senza nemmeno pensarci. Ero pessima. Anche da ex. «Che succede? Chi è questo tizio? Dove vai?»
«Torno a casa.» Forse. Perché non ero sicura di dove mi avrebbe portato quella sera. Ma non c'era dubbio sul fatto che lo volessi scoprire.
«Cosa? No! Aspetta!» Si allungò per afferrarmi ma il motociclista rispose con un unico e fluido movimento. Sollevò rapidamente il braccio in cui stringeva il casco e lo schiantò contro il suo volto. Un crack. Straziante e spaventoso, seguito da un gemito e un fiotto di sangue. Ramones crollò a terra stringendosi il naso.
Sangue. Sangue ovunque. Gli colava lungo il mento e a fatica riusciva a contenerlo con le mani. Mi girai a fissare il motociclista con la bocca ancora aperta per lo stupore.
Il Re scrollò le spalle. «Ops, scusa... che sbadato... te l'ho rotto?» Ghignò. Questo doveva essere il ben servito che non aveva potuto dargli a scuola.
«Brutto figlio di...»
«Sì, be'... me lo dicono in molti.» Le sue dita guantate si chiusero debolmente attorno al mio polso e senza nemmeno tirare mi ritrovai cavalcioni della sua moto, compressa contro la sua schiena. Quando mi passò il casco notai che mi tremavano le mani. Chissà come, nei panni del motociclista riusciva sempre ad agitarmi. Prendeva la mia calma e la scaricava nel cesso, insieme alla razionalità. «Andiamo?»
«Tu non andrai con un tizio simile» la voce di Nate uscì severa, lo sguardo contrito in una smorfia di disgusto. «Dopo quello che ti è successo non ti lascio andare via con un simile delinquente» sibilò l'ultima parola e lo indicò senza staccarmi gli occhi di dosso, come se dovessi seriamente rendergli conto, come se potesse davvero impedirmi di seguirlo.
«Non sono affari che ti riguardano» lo liquidò il Re, accendendo con un colpo la moto.
«Non puoi andartene con un tipo simile. Da quando hai questo genere di amicizie? Da quando frequenti gente così, eh?» Il turbamento aveva lasciato posto alla rabbia. Stringeva i pugni lungo i fianchi e anche se nel suo sguardo leggevo la cocente voglia di trascinarmi via da lui non osava avvicinarsi. Il naso sanguinante di Ramones doveva essere un monito abbastanza forte da indurlo a non sfidare la sorte due volte.
Ramones usò un angolo della felpa per asciugarsi il naso. «Sei tornata nel giro?» chiese infine, rimettendosi a fatica in piedi e facendo qualche passo indietro. Sapevo quanto l'idea lo allettasse. Aveva sempre amato essere uno Scorpion.
Scossi il capo. «No, Ram. È solo un amico.»
«Amico, eh? Ma per favore.» Nate rise.
«Forza! Lasciala! Andiamocene, Rob.» Con un pizzico di coraggio mi raggiunse e il Re alzò la mano, stoppandolo prima che mi toccasse.
«Non farlo, amico.» Non sembrava ammettere obiezioni. «Non è un tuo affare.»
Nate si bloccò. «Non è un mio...» Rise, seccato. «Ma tu chi sei, eh?»
«Quello che le piace per davvero» li liquidò e facendo scattare il cavalletto sfrecciò lungo il vialetto senza nemmeno darmi il tempo per salutarli.
Fui costretta a saldargli le braccia attorno alla vita, a nascondere il viso contro la sua schiena. Non accennò a rallentare nemmeno nelle curve e solo quando si fermò realizzai che eravamo davanti al mio condominio.
Spense il motore e restammo fermi così, ancora a cavalcioni della moto.
«Hai proprio un bel giro di ragazzi che ti ronzano attorno, eh?» se ne uscì seccato, liberandosi dalla mia presa sui fianchi. «Potresti quasi collezionarci come si fa con le figurine.»
Brutto figlio di...
Quella battuta, quel tono scortese, dispersero tutta la magia del momento. Scesi dalla moto stizzita e gli riconsegnai il casco senza troppe cerimonie. «Grazie e ciao.» Ne avevo abbastanza. Di lui, di Nate, di Ramones. Quella sera il mio limite di sopportazione verso il sesso opposto era stato ampiamente superato. La gara a chi pisciava più lontano finiva lì. «'Notte!» lo liquidai, girandomi per entrare in casa.
«Cosa ti ha dato fastidio adesso, eh? Che ti ho portato via dai tuoi spasimanti o che in cuor tuo sai che avresti comunque scelto di seguirmi?»
Mi bloccai di colpo, strinsi i pugni e cercai di farmi scivolare addosso quella provocazione. Poi però, diavolo, mi sentii colpita nel vivo e voltandomi a fronteggiarlo decisi una volta per tutte di farci una bella litigata. «Non puoi arrivare e fare quello che ti pare. Non puoi prendermi e trascinarmi via facendo i tuoi comodi.»
«Perché no? Quegli sfigati sembravano due cani pronti a contendersi un osso.»
Come se lui non avesse fatto lo stesso. Ma forse non era questo quello che più mi faceva rabbia. «Quei due sfigati, come dici tu, fanno parte della mia vita. Sono miei amici. Miei colleghi.» gridai. «Quei due sfigati hanno un volto. Non si nascondono dietro una maschera. Ci mettono la faccia quando mi parlano.»
«Anche io ce la metto, la faccia. Guardami. Sono qui.» Allargò le braccia e si indicò. «E sto anche perdendo il mio tempo per farti da taxi.»
Brutto figlio di...
«E chi te lo ha chiesto?» gridai, spazientita. Ma che volevano tutti? «Mi hai forse sentito piagnucolare il tuo nome? Mi son forse tesserata al club dei delinquenti anonimi?»
Allungò un braccio acciuffandomi per un polso e mi tirò verso di sé, verso la moto. Cercai di fare resistenza ma le suole scivolarono sulla ghiaia. Mi trovai premuta contro il serbatoio, contro lui, con la sua bocca coperta dal bandana che mi solleticava il collo. Fu piacevole. Rabbrividii quando parlò. «Non potresti semplicemente ammettere che sei contenta di vedermi e che ti ho tirato fuori dall'ennesimo casino?»
«E perché dovrei?» Strattonai il braccio. «Non c'era nessun casino da sistemare. Forse il tuo ego è troppo grande per capire che posso benissimo cavarmela da sola.»
«Ma se nemmeno riesci a liquidare quei due pagliacci, eh?» Mi circondò la vita con un braccio, tirandomi verso di sé; i nostri corpi sbatterono l'uno contro l'altro e un calore intenso mi pervase da cima a fondo. Non lo avrei mai ammesso ma quel contatto mi eccitava. «Non ti interessano eppure giochi con loro... giochi a fargli credere che abbiano una possibilità, quando invece sai che non ce l'hanno.»
«O magari sì. Che ne sai?»
«No, ragazzina. Non ce l'hanno... perché a te piaccio io. Solo io.»
Trattenni il fiato e diventai paonazza. E in un attimo la sua sicurezza mandò alle ortiche quel briciolo di controllo che fingevo ancora di avere. Lo spintonai lontano cercando di sciogliere quella stretta, di allontanarmi il più possibile. Riusciva imbarazzarmi e farmi incazzare nello stesso momento. «Ma chi ti credi di essere, eh? Chi ti ha messo questa idea in testa?»
«Tu. Sotto quel ponte... quando ci siamo baciati.»
Il ricordo mi fece avvampare. Il più bel bacio di sempre, di tutta la mia stupida vita. Su questo aveva ragione. «Non montarti la testa. Sei solo uno sbruff-»
«Cazzo, sta' zitta, ragazzina» ringhiò, abbassandosi la bandana con uno scatto e tirandomi contro le proprie labbra. Finalmente le nostre bocche si scontrarono. E forse lo aspettavo da troppo tempo.
Mi morse il labbro facendomi aprire la bocca e infilò la lingua senza esitazione.
La moto barcollò un attimo con lui ancora a cavalcioni ma questo non ci impedì di proseguire. Le nostre lingue si intrecciarono, lasciando che ci divorassimo. I respiri fusi, strozzati da tutto quel desiderio, ansimanti e smaniosi di prendersi tutto. Il suo piercing mi scivolò sul palato, rotolò sulla lingua fino a strapparmi un gemito.
Gli arpionai il giacchetto, resistendo all'impulso di trascinarlo giù dalla moto, verso casa. Volevo di più. Molto di più. Ero stanca di quei baci rubati, di quegli attimi sfuggenti, di quel piacersi a metà. Volevo tutto di lui. Era inutile se potevo averlo solo così, a cavallo di una moto. Volevo tutto il pacchetto. Volevo il Thomas di tutti i giorni e anche il Re dei Teschi. Volevo la sua luce e anche tutte le sue ombre.
«Robin» gemette, contro la mia bocca. Le sue dita rincorsero i bordi del giacchetto, scivolarono sotto il tessuto della maglia. Rabbrividii.
Quando si accorse che indossava ancora i guanti liberò un attimo la mia bocca dalla sua, prese la punta di un dito tra i denti e ne sfilò uno liberando la mano. Lo lasciò cadere a terra mentre le sue dita scivolavano sulla mia schiena, sulla mia pelle bollente. Le nostre labbra si ricongiunsero ancora, perfette l'una per l'altra, come se fossero fatte apposta per amarsi. Era un desiderio che ci braccava, che ci annientava, che prendeva tutto di noi per poi farlo a pezzi e mescolarlo insieme.
Come se anche il suo corpo cercasse di più di quell'incontro di bocche e anime, le sue mani corsero sulla mia pelle. Quella guantata mi carezzò le gote, scivolò sulla gola, mi trattenne per il capo. L'altra, raggiunse il reggiseno, giocò con la chiusura sulla mia schiena, tirò il tessuto come se fosse indecisa a proseguire. «Dio...» rantolò, con affanno, stringendomi il labbro inferiore tra i denti.
Sapeva baciare bene. Sapeva trascinarti in un posto lontano. Sapeva distruggerti cuore e cervello.
Fece scivolare un'ultima volta la lingua sulla mia, lentamente, lasciando che il piercing si trasformasse in una stuzzicante carezza, in un contatto bollente, in un gesto allusivo che prometteva ben oltre e in posti ben più travolgenti.
Quando ci staccammo ansimava. «Merda! E dire che ero solo venuto a vedere com'era andato il tuo primo giorno di lavoro.»
Premuroso...
Deglutii a forza, stringendogli le braccia mentre posava le mani sul serbatoio in cerca di un equilibrio che avevamo entrambi perso.
«Grazie» farfugliai. Avevo la mente sgombra e il cuore pieno.
Mi passò la mano nuda sul viso, sulla guancia. Con il pollice giocò sulle mie labbra, passandolo su quello inferiore fino a farmi schiuder leggermente la bocca. D'istinto gli strinsi il pollice tra i denti, ci lasciai scorrere la lingua contro. Non si allontanò ma lo vidi esalare un respiro tremulo, rumoroso.
Sentivo il corpo percorso da scosse, lo stomaco in subbuglio. E lui non sembrava essere da meno.
«Pensavo di controllarmi meglio ma... a quanto pare non sono così infallibile come credevo.» Tamburellò le dita sul serbatoio. «Non con te, per lo meno.»
Accennai un sorriso. Forse era ora di andare. Liberarmi dalla sua stretta mi aveva gettato nel freddo della notte e ora sentivo il bisogno di stringermi dentro una coperta o dentro le sue braccia. E visto che la seconda opzione sembrava così remota, la voglia di correre e chiudermi in casa crebbe. «Me lo dirai mai chi sei?» Il problema non stava più nel sapere chi era. Perché quello ormai lo sapevo bene. Il vero problema stava nel sentirglielo dire, nel sentirlo ammettere la sua identità, nel vederlo togliersi quella maschera tanto comoda.
Perché sì, era facile baciarmi nascosto da un'identità sconosciuta. Più difficile farlo nei panni del vero Lattner, del vero se stesso, con tutti i problemi del caso. Tra cui il fatto di essere un mio professore.
«Non ora.»
«E quando?»
«Bé, ci potrebbero voler anni... magari il tempo che cresci, che finisci gli studi...»
Logico. E seccante.
Indietreggiai un po'. Misi distanza tra noi. Allontanai i nostri cuori. Faceva un po' male questo suo negarsi, ogni volta un po' di più. «E se indagassi? Se ti cercassi da sola? Magari scoprirò da me chi sei.»
Mi agguantò un braccio, come se volesse impedirmi di dire quelle cose o di passare ai fatti. «Se dovesse succedere, allora non dirmelo. Mai.»
Mai. Mai. Mai.
Era una parola corta ma sembrava immensa. Il tempo che si portava dietro era lontano. Infinito. «Pe - perché?»
«Diventerebbe tutto troppo difficile.»
Mi liberai dalla sua stretta colpendogli la mano. Mi strinsi i gomiti, lo chiusi fuori dai miei pensieri. «Difficile, eh?» Dalle labbra mi sfuggì una risata secca e scortese. «Certo, be'... sì. Immagino che baciarmi nel più completo anonimato sia più facile...» più illusorio, più divertente. Meno impegnativo.
«Lo è.»
E allora cosa siamo? Siamo il niente. Siamo due corpi che si attraggono.
Feci qualche passo indietro. «Già. Non conoscere chi sei ti fa sentire meno vincolato, immagino.»
«Immagini bene.»
Ingoiai la delusione. «Meno vincolato anche dalle responsabilità che ne derivano, vero?» Come quella di accettare i miei sentimenti, il mio amore e magari diventare qualcosa di più, una coppia, una famiglia, un qualcosa che richiedeva impegno.
«Sì.»
«Allora potrebbe essere tutto un gioco per te... niente di più.»
«Potrebbe, è vero. O forse no. O forse mi piaci davvero e aspetto solo il momento giusto per noi.»
Le sue parole erano tutto e niente. Non sapeva prendere una posizione. O forse non riusciva. O forse non voleva. Già. Forse lui non aveva mai voluto impegnarsi davvero, ecco perché non gli importava di dirmi chi era. «Meglio che vada in casa.» Rabbrividii. Avevo il gelo nelle ossa. «Grazie per il passaggio.»
«Aspetta, ragazzina...» Si allungò per impedirmi di liquidarlo così ma voltandomi di scatto lo fissai trucemente.
«Senti... va' al diavolo! Okay?» non gridai, non mi arrabbiai. Nella mia voce si percepiva tutta la delusione che covavo. Trattenni le lacrime. «Tieniti pure la tua identità, le tue stupide attenzioni, i tuoi baci. Non li voglio. Non voglio essere uno dei tuoi giocattoli. Non ci sto.» Rimase muto, con ancora la mano protesa. Poi lasciò ricadere il braccio lungo il fianco. Mi avviai verso l'entrata del condominio, fermandomi prima di sparire nel cordolo esterno delle scale. «La sai una cosa? In realtà so già bene chi sei. Sei solo uno stronzo, ecco chi sei!» E scappai in casa, lontano. Con la voglia di piangere, di distruggere tutto, di litigare e gridargli che sapevo ogni cosa. E che lo odiavo. Lo odiavo e lo amavo. E non capivo perché mi voleva solo quand'era nascosto nei suoi panni da teppista.
Mi chiusi la porta di casa alle spalle, con un tonfo, con rabbia. Raggiunsi il salotto cavalcando l'idea di dirgli tutto una volta per tutte ma un foglio catturò la mia attenzione.
"Non mi aspettare sveglia, sono a una riunione scolastica che durerà parecchio. T."
Lo strappai dal tavolo, accartocciandolo come se si trattasse di lui, o dei miei sentimenti. «Sì, certo... una riunione scolastica, eh? Ma vaffanculo, va'!» Lo lasciai cadere in terra, un po' come la mia speranza.
Quando dicevo che l'amore porta solo guai non mentivo. A me l'amore ha sempre portato solo guai. E un gran male. Perché a volte anche l'amore sa fare male.
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