9 - LITIGI SU LITIGI
«Diavolo, Rob... oggi sembri proprio uno zombie.»
«E tu uno stronzo. Ma mi hai sentito per caso fartene una colpa? No. Quindi vedi di non rompermi il cazzo.»
E buongiorno a tutti, insomma.
Takeru assottigliò lo sguardo lanciandomi una delle sue occhiate cariche di disapprovazione; quel tipo di occhiata che teoricamente dovrebbe incutere timore ma che fatta da lui era un misto di tenerezza e goffaggine. Un Teletubbies avrebbe saputo far meglio.
Lo liquidai con una mano. «Smetti di fare gli occhi assassini.»
«Non sono occhi assassini... sono occhi giudicanti» brontolò.
«Sono occhi che presto vedranno le nocche del mio pugno.»
Li roteò, sbuffando. «Mamma mia come siamo nervosi questa mattina, eh? Cos'è, abbiamo fatto colazione con pane e frustrazione, uhm?» Stava diventando troppo social. Avesse iniziato a dire anche cose come "l'arco ce l'abbiamo noi, amïo" lo avrei dovuto abbattere.
Ad ogni modo, non potevo dargli torto. Oltre a non aver dormito tutta la notte mi ero rigirata nel letto come un'anima in pena, con il cervello in laboriosa produzione e il cuore in stand by.
Nemmeno il rincasare presto di Lattner mi aveva sollevato da quei pensieri fitti e disfattisti.
Mi ero soltanto chiesta se la nostra litigata avesse influito negativamente sulla sua serata ed ero arrivata a conclusione che non me ne fregava un cazzo. Ottimo, no?
«Sei incazzata con T, vero?» domandò Takeru di punto in bianco. «Quando sei incazzata con lui ti esce una ruga in mezzo alle sopracciglia e sembri una vecchia streg-»
«Senti, Takeru...» Quando sollevai lo sguardo, sussultò. Dovetti impormi di rilassar l'espressione, consapevole che in quel momento una parte di Scorpion Queen era sfuggita dal mio controllo. «non è giornata, okay?»
Si limitò ad annuire e ci muovemmo silenziosamente verso l'aula di matematica.
L'idea di cominciare la giornata con la faccia della Wood era nella lista delle cose che ritenevo andassero rese illegali.
Eve e Beth si unirono a noi dopo diversi metri di corridoio condiviso e silenziose occhiate e, visto che nessuno parlava, fu proprio Eve a rompere il silenzio. «Pensavo che potremmo organizzare un'altra uscita in discoteca una di queste sere, eh?»
L'ultima volta che ero stata in discoteca io e Lattner avevamo pesantemente limonato e subito dopo Adam mi aveva chiamato per dirmi di Lin. Era un ricordo dolce amaro. «Potremmo, sì» risposi, laconica.
Eve lo prese per un sì. «Quando sei libera dai turni del Joily?»
«Stasera.» Merda. Mi pentii subito della mia bocca larga, che non sapeva mai quando era il momento di tacere. «Ma è venerdì... immagino siate occupate» aggiunsi, sperando di mettere una pezza sul mio inutile straparlare.
Non ero sicura di volermi far una serata in discoteca. Non dopo aver visto la sera prima Lattner e la Wood a un appuntamento. E, soprattutto, non dopo una notte insonne.
«Vero, è venerdì... e allora? Se non ci scateniamo un po' ora che siamo a inizio anno scolastico, quando lo facciamo? Verso la fine quando avremo una marea di test?»
Non aveva tutti i torti.
Takeru mi guardò con la coda dell'occhio. Se non andavo io, lui da solo non ce l'avrebbe mai fatta. La timidezza stava sparendo ma aveva ancora bisogno di me in certe occasioni. Tipo partner in crime.
Non pensavo amasse l'aria da discoteca, eppure, nei suoi occhi vidi uno scintillio di speranza. Era chiaro che l'ultima volta, a discapito di tutto, si era divertito.
Quando si accorse che lo stavo squadrando, avvampò. «Sì, bé... cioè... non è male come idea, no?»
Mi venne da ridere. Come potevo negargli la mia complicità in quella uscita se mi faceva quelle espressioni tanto buffe? «No, infatti. Non è male come idea.» Forse voleva rimorchiare. Magari si era svegliato.
Beth lanciò un gridolino euforico. «Sul serio?»
«Sì, dai... perché no.» Un bel pieno di drink e tanta musica non mi avrebbe fatto male. Volevo ballare fino a consumarmi i piedi, anzi, no... volevo sfondarmi di alcol. Oh, sì... tanto alcol.
«Ecco...» iniziò Beth, tentennò un attimo e vidi Eve soffocare un ghigno. Voleva chiedermi qualcosa ma probabilmente non aveva coraggio. «Pensi che... sì, cioè... credi che - che verrebbe anche quel tuo amico? Quello alto e con la faccia da delinquente.»
Mi ci vollero alcuni istanti prima che capissi a chi si riferiva. «Ramones?»
Non aveva più così tanto la faccia da delinquente. Si era ammorbidito molto da quando aveva appeso al chiodo la sua vita da Scorpion. Circa.
Beth buttò giù un fiotto di saliva e abbassò il capo concentrandosi sui quaderni stretti al petto. Le guance rosse spiccavano nel pallore del viso. Era carina. Ma non per Ramones. A lui piacevano più tipe come Lexie. «Sì, lui. Insomma...» Si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «non mi dispiacerebbe se venisse.»
Scrollai le spalle. «Sì, certo. Posso provare a chiederglielo.» Non mi costava nulla, in fondo.
«Davvero? Oh, Dio! Grazie! Grazie!» Mi saltò al collo di slancio, ricordandosi solo qualche attimo dopo che non amavo essere abbracciata. Mollò la presa di colpo, indietreggiando imbarazzata.
Non potevo credere che le piacesse Ramones.
Da Lattner a Ramones.
Insomma, era assurdo come Beth avesse un inconsapevole radar per i cattivi ragazzi. Ed era anche assurdo come la cotta epocale per Lattner le fosse passata in fretta ma d'altronde chi ero io per giudicarla? Non certo una povera romanticona senza speranza che continuava a correre dietro allo stesso tipo anche dopo esser stata scaricata più e più volte, no? Forse la cretina, tra le due, ero io.
Sospirai, marciando verso l'aula come un condannato a morte.
«Odio il venerdì. La faccia della Wood e matematica alla prima ora son una combo letale» bisbigliò tra i denti Eve, camminando al mio fianco. «È il cagnolino personale di Lattner. Le manca solo la coda per scodinzolare.»
Sghignazzai. «Un barboncino.»
«Un chihuahua» propose Takeru, infilandosi nel discorso.
«Un chihuahua con le tette rifatte» terminò Beth.
Scoppiammo tutti a ridere. E con ancora la risata sulle labbra ci infilammo in aula per iniziare la lezione.
La Wood era già lì e dall'alto della sua postazione ci fulminò con lo sguardo. Il suo odio riguardava me e me soltanto; solo che l'infame aveva il deplorevole vizio di prendersela anche con i miei amici e questo aveva portato a un drastico e inspiegabile calo di rendimento di tutti loro.
Questa cosa mi faceva sentire in colpa ma nessuno sembrava preoccupato o dargli troppo peso. Se ne fregavano più di me.
Sembravo l'unica a vivere come se il mio culo fosse pieno di spine o come se ogni giorno potesse scatenarsi la terza guerra mondiale. Non era sana tutta questa tensione. Ero così abituata a star sulla difensiva che avevo smesso di vivere la vita come andava davvero vissuta.
«O'Neil! O'Neil! Cielo, O'Neil!» Solo al terzo richiamo mi accorsi che la Wood stava parlando con me. La fissai senza capire e lei si piazzò le mani sui fianchi, indicandomi con una alzata di mento: «Ci dai il tuo permesso per iniziare la lezione?»
Diverse risatine si dispersero nell'aula e solo in quel momento mi accorsi che ero ancora in piedi, immobile di fronte al mio banco, con in mano tutto il materiale. Praticamente uno stoccafisso.
Mi sedetti di colpo, imbarazzata.
La Wood ovviamente gradì quella mia umiliazione pubblica. Probabilmente per lei fu quel genere di evento in grado di migliorarti la giornata. Dal mio canto, invece, avevo perso tutto l'entusiasmo che le ragazze erano riuscite a instillarmi poco prima.
La lezione iniziò senza altri intoppi, sfornando nuovi argomenti di cui non avrei capito niente e che avrebbero guadagnato il mio odio.
Io e la matematica eravamo due mondi differenti. In conflitto perenne, aggiungerei. Ma chi la amava per davvero, eh? Insomma, oltre a Takeru conoscevo poche altre persone che comprendevano questa materia e ne erano amanti. Anche Ramones era negato. Forse c'era una regola imprescindibile in cui i teppisti non potessero capire la matematica.
Lattner però è tutt'ora un teppista.
Com'era possibile che un individuo così fuori dagli schemi come lui fosse finito per far il professore di matematica? La matematica era difficile. Era quadrata. Complicata. Piena di regole. Come riusciva a far combaciare una materia così schematica e convenzionale con il suo animo ribelle?
Lui è due in uno.
Due metà perfette che si completano senza bisogno di altri.
Ma certo. Due metà di sé.
Forse nemmeno gli serviva una compagna con cui condividere la quotidianità. Forse era solo un extra che lo appesantiva anziché dargli il giusto sollievo.
Ecco perché non voleva stare con me.
Probabilmente gli bastava un porno, la sua mano e un libro di matematica. Magari era così che si eccitava. Aveva senso, no? Dite di no?
Sbuffai.
«Qualcuno sa la risposta?» la domanda della Wood sembrò arrivare dall'oltretomba. E quando mi fissò, capii che quel giorno sarei stata il suo passatempo preferito. Una tenera e stupida studentessa da torturare. «O'Neil, tu lo sai?»
Nemmeno sapevo di cosa stavamo parlando, a dir il vero. Bé, non che ascoltando avrei saputo come rispondere, eh... sia chiaro.
Takeru mi allungò i suoi appunti, scritti minuziosamente e pieni di spiegazioni che rendevano l'argomento più comprensibile. A prova di stupido, avrebbe detto Lin. «Ecco, sì, bé...» iniziai a sbirciare righe su righe, cercando un capo da cui partire. Non avevo sentito nemmeno la domanda, proprio non sapevo che rispondere. «Mi potrebbe ripetere?» Era l'ultima cosa che volevo chiederle, consapevole che mi avrebbe mortificata; ma d'altronde non potevo fare altrimenti.
Altre risa si levarono tra i miei compagni che la Wood mise a tacere con alcuni movimenti delle mani, senza però nascondere un sorrisetto sardonico. La mia ignoranza la divertiva. «Cielo, O'Neil... queste son cose basilari» mi mortificò, consapevole del mio basso grado di conoscenza della materia.
Non capivo cosa voleva da me, quel giorno. Aveva vinto lei la sera prima, no? Ero io quella che era stata tristemente messa in panchina. E allora perché si comportava come se non fosse riuscita a ottener ciò che voleva?
«Mi spiace,» risposi, a denti stretti. Per quanto volessi risponderle male, qui tra le mura del Missan, era pur sempre una mia professoressa. E lei questo lo sapeva bene, sfruttando la cosa a suo vantaggio. «non ho proprio sentito la domanda. Ero assorta in altro.»
Quella mia confessione la fece illuminare. Le avevo appena dato altro materiale da usare per tormentarmi. Intrecciò le dita e mi rivolse un sorrisetto. «Altro? E cosa?»
Avrei voluto dirle la verità. Oh, credetemi. Magari avrebbe capito che tra me e Lattner c'era stato molto più che qualche bacio fugace e la mia triste cottarella. Decisi però di optare per la linea diplomatica, quindi mandai giù un boccone amaro, feci un profondo respiro e sorrisi. O forse mostrai i denti digrignati come un animale selvatico, non saprei. «Nulla di importante.»
«Oh, lascialo decidere a me.»
Stavo per mandarla a fanculo e bruciarmi la carta di brava studentessa che ha abbandonato la cattiva strada quando fui salvata da un bussare deciso che ci fece voltar tutti verso la porta.
Un secondo dopo, Lattner sbucò dal vano aperto e la salutò con un cenno del capo. «Theresa.» Molto informale e al tempo stesso distante.
Lei parve rianimarsi e in un attimo gli occhi scintillarono di felicità. «Oh, ciao Thomas.» Il nome lo scandì bene, in modo che tutti i presenti capissero che il loro grado di intimità andava ben oltre il semplice rapporto lavorativo. Qualche mormorio confermò che questa tattica era andata a segno. «Che succede? Devo uscire?»
«Tu? No, no... tranquilla. Mi serve O'Neil.» Gli occhi di Lattner puntarono dritti nei miei. Insieme a tutti quelli della classe, Wood compresa.
«Come?» chiedemmo io e lei all'unisono, una più sconvolta dell'altra.
«Mi serve la ragazzina, fine.» la liquidò velocemente lui.
Lei nemmeno rispose, si limitò a girarsi e guardarmi; aspettandosi probabilmente che da un momento all'altro succedesse qualcosa.
«È necessario?» domandai invece io, seccata. Non volevo vederlo e questo era un mezzuccio subdolo per obbligarmi a farlo.
Inoltre, nella classe di matematica condividevo l'aula con alcune groupie di Lattner. Era un gruppetto isolato e che si contava sulle dita di una mano ma ero sicura fossero abbastanza svitate da aver preso parte ai dispetti che per un certo periodo mi erano capitati.
Non avevo paura di loro ma non volevo tornare a trovarmi insulti sull'armadietto, bigliettini pieni di minacce e sciocche ripicche da bambine.
La Wood, a quel punto, si girò nuovamente a guardar Lattner aspettando a sua volta la risposta. Il sorriso le era completamente sparito, anzi, aveva l'espressione tipica di chi ha appena visto qualcosa di estremamente disgustoso. Conrinuava a muover gli occhi da lui a me come se stesse assistendo a una partita di tennis.
«Sì, lo è. Altrimenti non sarei qui, no?» rispose lui, inarcando le sopracciglia in un tacito rimprovero. «Muoviti, O'Neil... o ti serve un invito scritto?»
Pure.
Ma seriamente? Adesso glielo dò io l'invito scritto a 'sto stronzo!
Mi alzai con uno scatto, resistendo all'impulso di gridargli qualcosa addosso e raggiunsi l'uscita scandendo bene ogni passo, che schioccò con forza sul pavimento. Se i miei schiaffi avessero avuto la potenza di quei passi, probabilmente quel giorno Lattner sarebbe stato pieno di lividi. «Torno presto, così può finire di interrogarmi e concludiamo la giornata in bellezza» dissi alla Wood stizzita poi, raggiungendo la porta, superai Lattner con una spallata e mi avviai a passo spedito lungo il corridoio. Nemmeno io sapevo dove. Stavo solo camminando. In preda alla rabbia.
«Ehi, ragazzina... dannazione! Perché cammini così veloce? Mi stai cercando di seminare?»
«Magari potessi davvero» biascicai a denti stretti.
Essere tallonati da un professore per tutti i corridoi del Missan era qualcosa che ancora non avevo avuto il brivido di provare e Lattner sembrava deciso a realizzare anche questo piccolo dettaglio a metà tra la fantasia e l'incubo.
Che diavolo voleva? Non gli era bastata l'umiliazione che mi aveva inflitto la sera prima?
«Non posso credere che tu mi abbia chiamato fuori!» sbraitai, camminando a passo sempre più spedito. Mi capitava quando ero arrabbiata. Iniziavo a camminare, quasi correre, e non c'era verso di riuscirmi a fermare. «Cosa vuoi, eh?»
«Mi andava di vederti» borbottò, grattandosi la testa e fissando fuori dalle finestre lungo tutto il corridoio. Con la coda dell'occhio vidi che il rossore gli si estendeva dalle gote alle orecchie e questo suo imbarazzo contaggiò a che me. «Insomma, stamattina sei scappata via come un ladro.»
«E allora? Mi hai visto anche ieri sera, no?» sbottai.
«Poco. Avevo la vista appannata dai tuoi schiaffoni.»
Trattenni un sorriso. Dannato! Perché riusciva sempre a trovare il modo per ribaltare tutte le situazioni? Odiavo la facilità con cui riusciva a rabbonirmi.
Mi inchiodai di colpo, frenando quella mia camminata isterica e mi voltai a fissarlo piazzando le mani sui fianchi. Volevo stroncare sul nascere quella discussione: «Sei venuto in cerca di altri schiaffi?»
Per un attimo, sul viso gli passo un rapido sorriso, di quelli cattivi e che promettono cose indecenti e sculacciate non del tutto sgradite. Si riprese subito ma quel ghigno mi rimase impresso e a poco servì fingermi arrabbiata. La mente galoppava già verso scenari fin troppo conosciuti e per nulla morigerati. Arrossii e lui se ne accorse perché si schiarì la voce e distolse lo sguardo.
«Volevo solo dirti di non aspettarmi per cena, stasera. Abbiamo una riunione qui a scuola poi penso mangeremo qualcosa al volo e dopo vado dai ragazzi.»
I ragazzi erano gli Skulls. Nemmeno c'era da chiedere.
Ma con chi avrebbe mangiato qualcosa al volo? La Wood, chi altri sennò?
Mi uscì una risata a sbuffo. Vi è mai capitato di passar dal desiderio di baciare qualcuno a quello di volergli affibiare un pugno tra le sopracciglia? Il tutto nel giro di qualche secondo. Assottigliai lo sguardo e sperai che fosse affilato come i miei pensieri. «E quindi mi hai fatto uscire dalla classe per una stronzata simile?» Aveva messo a rischio la nostra copertura solo per dirmi che se la spassava anche quella sera? Bel coglione, insomma. «Vedo che le parole di ieri sera non sono servite.»
«Quali parole? Ricordo solo degli schiaffi e tu che gridi cose a caso senza nemmeno darmi tempo per parlare.» Corrucciò il viso in una delle sue chiare espressioni di disapprovazione.
«Cosa? Vorrai scherzare.» Non stavamo gridando. Era uno di quei litigi dove le parole son sputate fuori con violenza ma sotto voce. Nei film scene così mi avevano sempre fatto ridere. Ogni volta pensavo: ma si potrà mai litigare a quel modo? È da dementi.
Sì, ragazzi, si può.
«No, non scherzo, ragazzina. Ieri sera mi hai vomitato addosso tutta la tua gelosia e io ti ho lasciato fare.»
«Gelosia? Io? Gelosia? Tu sei fuori!» esplosi, alzando la voce di qualche ottava. Subito controllai che il corridoio fosse ancora vuoto. Sentivo le guance andare a fuoco. Dannazione! Gli puntai un dito contro, sibilando: «Sei tu che stai con un piede in due scarpe.»
«Cosa? Ti sei bevuta il cervello? A malapena son sicuro di voler stare in una di scarpa!» Mi stava cercando di dire che non gli interessavamo né io, né la Wood?
Era assurdo che ci stessimo parlando da cinque minuti e già fossimo ai ferri corti. Stavamo di nuovo litigando. Ancora.
«Ah, è così? Sai che ti dico? Basta! Non me ne frega più niente.» Con un gesto plateale, che forse mi aveva attaccato proprio lui, lo mandai al diavolo e feci dietrofront. Lui però mi afferrò per la vita e con uno strattone incollò i nostri corpi l'uno all'altro. Barcollammo ma lui si mantenne stabile per entrambi. Quel contatto improvviso e così pericoloso proprio al centro del corridoio, con il rischio che qualcuno ci vedesse, fece schizzare i miei battiti a mille e il respiro mi restò incastrato in gola.
Trattenni il fiato. In apnea.
I miei occhi restarono ipnotizzati nei suoi, in quello sguardo scuro come un mare in tempesta che sembrava trasformarsi quando si arrabbiava.
Mi afferrò il viso con una mano e tirandomi in avanti lasciò che le nostre bocche si toccassero, ma lo fece solo per parlarmi labbra contro labbra e questo mi trasmise anche un brivido d'eccitazione. «Dici tanto che mi ami, che vorresti qualcosa di più... ma non facciamo altro che litigare e tu non hai minimamente fiducia in me. Preferisci sempre credere agli altri e non mi dai mai la possibilità di parlare. Ha davvero senso tutto questo?» Fui costretta a reprimere l'impulso violento e urgente di baciarlo, di fargli capire che sotto quel mare di aggressività si nascondeva solo un altro mare, fatto però di insicurezze. «Perché prendersi tanto disturbo? Probabilmente non dureremmo una settimana.»
Lo spinsi via, barcollando indietro e preferendo il risentimento all'irrazionalità dell'amore.
Aveva ragione.
Aveva ragione su tutta la linea.
Non mi fidavo di lui perché ero stata ferita in passato e mi mettevo sulla difensiva. Preferivo credere alle cattiverie altrui e non volevo ascoltare la sua verità perché mi faceva più comodo pensare che volesse ferirmi, anziché fosse sincero o magari avesse dei motivi validi.
Sì, probabilmente aveva ragione anche sul fatto che non saremmo durati oltre una settimana.
Feci qualche passo indietro, asciugandomi rabbiosamente una lacrima con il dorso della mano. Lui restò immobile al centro del corridoio, a fissarmi in silenzio. Nei suoi occhi c'era la tempesta e non riuscivo a leggerne i pensieri. Sembrava sul punto di far qualcosa ma si imponeva saldamente di non farlo.
Non qui, Rob. Non al Missan.
Scrollai la testa, dandogli le spalle e iniziai a camminare nuovamente verso l'aula. «Comunque, tranquillo... non ti aspetterò affatto stasera. Anzi, ti sorprenderà saperlo ma... sarò a bere e ballare con i ragazzi.» Serrai i pugni e per un breve istante sperai mi fermasse. Quando mi accorsi che non accadeva nulla, dalle labbra mi uscì un augurio crudele ma che sentii la necessità di sputargli addosso come veleno: «Divertiti con la Wood, stronzo.»
Sì, ero gelosa. E sì, ero una sciocca, perché probabilmente avrei dovuto sedermi e ascoltarlo, sentire le sue ragioni e valutare... ma, capitemi!, avevo per la prima volta gridato i miei sentimenti e mi sentivo come un bambino che lancia il sasso e nasconde la mano.
Non mi voltai mentre me ne andavo ma lo sentii chiaramente dare un pugno al muro, imprecando in maniera decisamente colorita.
Litigi su litigi. Avremmo mai trovato un punto in comune? Non sapevo più nemmeno dove cercarlo.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top