8 - L'APPUNTAMENTO
L'unica gioia, in quella giornata nera e da dimenticare, era stata la breve ma rigenerante chiamata con Adam; il mio splendido fratello girovago che in quel momento era in qualche sperduta zona dell'Africa, dove la ricezione faceva schifo e internet era pressoché inesistente.
Mi aveva chiamato solo per un breve saluto, per sentire se ero ancora viva, per farmi le solite prediche che odiavo e amavo e per rimarcare la sua figura di fratello maggiore che non approvava minimamente il fidanzato della sorellina.
Bé, Adam... sei arrivato tardi. Il fidanzato della tua sorellina si è autoeliminato da solo.
Anzi, indovina? Non era nemmeno il fidanzato della tua sorellina. Yu-Uh!
Il turno al Joily era partito carico di prenotazioni e con ritmi serrati.
I clienti andavano e venivano. Lasciavano mance ridicole e sorrisi di convenienza. Si lamentavano del nulla e chiedevano noiose ed eccessive sottigliezze. Tutto come al solito. Tutto nella norma.
E anche io, nel mio piccolo, mi ero totalmente immersa nel lavoro. Avevo lasciato prendere sopravvento al flusso delle operazioni, quasi meccaniche, del mio esser cameriera. Il mio cervello per tutelarsi aveva rinchiuso Lattner in un angolo remoto dei pensieri e il restante spazio lo stava usando per ricordarsi le comande che continuavano a spuntare sul tabellone della cucina come funghi.
Lasciai un dolce al tavolo sette e portai via dei piatti vuoti di un primo dal tavolo undici. Nel frattempo Nate mi segnò la cucina. I suoi gesti non erano frettolosi, né bruschi. Non sembrava qualcosa che avrebbe finito per farmi prendere un rimprovero.
Quando lo raggiunsi con i piatti sporchi, indicò due dolci appena preparati.
«Non ho tavoli con dolci. Alcuni sono già passati ai secondi e due ancora aspettano gli antipasti.» Mi stavo dimenticando qualcuno? Possibile? Ultimamente tra stanchezza e pensieri perenni, il mio rendimento lavorativo si era abbassato drasticamente. Nate non mi aveva ancora detto niente, ma io sentivo di dovermi impegnare di più.
Rise. «Ma no, scema. Sono per noi.»
Fissai i due deliziosi tortini al cioccolato dal morbido cuore di nutella e subito lo stomaco brontolò per la fame. Ero scappata di casa come un missile senza nemmeno mettere qualcosa sotto i denti e ora la mia pancia sembrava il Kraken in protesta. Avevo fame ed ero in piena crisi emotiva: il cioccolato era perfetto. L'amico di tutti i cuori infranti.
Nate afferrò un paio di sedie malconce e me ne porse una. Noi camerieri le usavamo raramente. «Facciamo una pausa, dai. Un tortino, una sigaretta e poi ripartiamo.»
Non me lo feci ripetere due volte. Ci sedemmo uno di fronte all'altro e consumammo quel dolce con la stessa voracità di una aspirapolvere. Testa china, silenzio confortante e i piatti talmente puliti da far invidia alla lavastoviglie.
I cinque minuti meglio spesi della giornata. Dopo la chiamata di Adam.
Chiusi gli occhi un attimo, gustandomi il sapore del cioccolato sul palato e chiedendomi perché le uniche dolcezze della mia vita fossi costretta a riceverle in formato di bomba calorica. Era una domanda esistenziale e di vitale importanza, soprattutto quel giorno. «Ci voleva» dicemmo, all'unisono. E Nate scoppiò a ridere, contagiandomi.
Sì, effettivamente era stato un break gradito. E insolito, visto il rapporto che ci legava.
Non capivo mai se gli stavo sulle palle o se il suo era il peggiore tentativo di abbordaggio mai assistito nella mia vita. Nate, con i suoi comportamenti scostanti e scontrosi, riusciva a innervosirmi e confondermi. E io odio essere confusa. Sono una che preferisce un vaffanculo detto in faccia piuttosto che un sorriso davanti e una pugnalata dietro, alla schiena. E lui era proprio quel tipo di persona che faticavi a interpretare.
Quando si alzò dalla sedia spartana, sollevò le braccia fino a sgranchirsi e mi lanciò un'occhiata di sbieco. Si era dato una regolata negli ultimi tempi. Per fortuna, aggiungerei. Era sempre la solita gran testa di cazzo ma per lo meno non lo faceva solo perché lo avevo rifiutato. Improvvisamente fui folgorata da una intuizione:
Ma certo... è il karma.
Non poteva essere altrimenti.
Avevo friend zonato lui e Ramones e ora, la ruota aveva fatto il suo giro, e quella friendozonata ero io. Quindi, in fondo, meritavo la friendzone di Lattner.
Ecco! Ora sì che tutto aveva un senso. Come avevo fatto a non pensarci prima?
«Fumi ancora?» Nate scosse il proprio pacchetto di sigarette e una gli sbucò per metà.
E c'era anche da chiederlo? Io e la nicotina andavamo a braccetto, saltellanti, verso la Valle del Mainagioia. Se mi toglievano anche lei, ero spacciata. E anche Lattner lo sarebbe stato.
«Ultimamente più di prima» ammisi. Mi ero resa conto che il pacchetto che solitamente riuscivo a farmi durare due giorni, adesso a malapena arrivava a fine giornata. Quindi, sì!, fumavo. E sì, anche parecchio.
«Molto, molto male, O'Neil» mi punzecchiò Nate, precedendomi.
Stavamo per uscire sul retro quando il campanello all'entrata suonò alcuni istanti e il giovane cameriere, un ragazzino che stava imparando a discapito di noi poveri colleghi, ci corse a chiamare annunciando nuovi clienti. Dalla faccia impanicata o era una comitiva o più tavoli.
Quella pausa mi sembrò improvvisamente troppo breve, deludente; un attimo fuggente che mi era scivolato via dalle dita troppo presto.
«Tocca che rimandiamo la sigaretta a dopo.» Tanto quanto me, Nate non sembrava felice di questa interruzione. Mai promettere a un fumatore una sigaretta per poi negargliela successivamente. Non è mai un buon affare. «Li facciamo sistemare e poi, appena mangiano il primo, scappiamo a fumarcela, okay?»
Non mi restò che annuire.
«Sono due coppie» spiegò il ragazzino, tallonandoci in cerca di approvazione.
Nate, molto meno gentile di me con gli apprendisti, lo fulminò con una occhiata. «Perché non li hai fatti accomodare? Quello lo sai fare.» Effettivamente.
L'altro strizzò il piccolo panno che teneva da inizio turno tra le mani. Stavo ancora cercando di capire quale fosse la sua funzione ma avevo imparato a non fare domande. «La Signora di una coppia ha detto di conoscere O'Neil. Vuole essere servita da lei.»
Strabuzzai gli occhi. «Chi? Io?» Ma d'altronde ero l'unica O'Neil nel raggio di miglia.
Qualcuno che vuole me... un donna, tra l'altro...
Il sentore di una brutta sensazione mi piovve addosso come una secchiata d'acqua ghiacciata e Nate, quasi lo avesse intuito insieme a me, aumentò il passo precedendomi.
Sbucammo nella sala quasi in simultanea, block notes alla mano e penna già aperta per segnare la comanda. Indirettamente nei nostri movimenti si leggeva l'urgenza di liberarci al più presto dei clienti.
Solo che come temevo, quei clienti non erano semplici sconosciuti e infatti, non appena sollevai lo sguardo, due occhi azzurro mare catturarono i miei e pochi istanti dopo, la voce della Wood dominò la scena come suo solito.
«Robin!» squillò, con enfasi, falsamente. «Speravo proprio di trovarti in servizio.» Era così avviluppata a Lattner che a stento credevo riuscisse a respirare.
Fu un duro colpo, lo ammetto. Vederli insieme, uniti, così perfettamente abbinati e sincronizzati; faceva male. E non ero sicura di meritarlo quel male. Non ero sicura che nelle clausole del contratto d'affitto che avevo firmato a Lattner c'era scritto che poteva calpestarmi il cuore, sputarci sopra e prendersi gioco di me.
Lui sapeva che lavoravo lì. Sapeva che sarei stata in turno. E allora perché? Perché mi stava facendo questo?
Lo meritavo? No. Non credo. Non questa volta.
Fui pervasa da un moto di rabbia così travolgente che dovetti ricorrere a ogni briciolo della mia professionalità per non aggredirli verbalmente proprio lì, ancora fermi all'entrata.
Sapevo che era ciò che voleva lei. Glielo leggevo nello sguardo e nel leggero sorriso perfido che cercava di nascondere senza riuscirci. Il suo era un tacito invito a risponderle, una provocazione che però decisi di non cogliere. «Occupati pure degli altri,» dissi a Nate, indicando con una alzata di mento l'altra coppia. «a loro ci penso io.»
Nate, molto più sveglio di quanto credessi, mi posò una mano sulla spalla. «Sicura?» domandò con preoccupazione in un sussurro. «Posso farli io se non te la senti.»
Raddrizzai le spalle e scossi il capo. No, li avrei fatti io. Erano venuti per me, giusto? Non mi sarei tirata indietro. Non gli avrei dato questa soddisfazione. Inspirando una boccata di coraggio e tensione pura, lo superai e raggiunsi la felice coppietta di piccioncini.
Lei era raggiante. Lui nemmeno riusciva a guardarmi, salvo quell'iniziale e forse involontario incrocio di sguardi. Restava assorbito in qualche elucubrante pensiero, con gli occhi rivolti al ristorante pieno e mai in mia direzione.
Codardo! Bastardo!
I miei pensieri si aggrovigliarono in una matassa di insulti, intrappolati.
«Prego» dissi, professionalmente, allungando un braccio per indicare un tavolo vuoto.
La Wood storse in naso. Voleva rendermi le cose difficili, chiaro. «Non potremmo aver qualcosa di più appartato?»
Se volevate qualcosa di appartato restavate a casa e non venivate qua a rompere i coglioni a me.
Sorrisi. Un sorriso tirato come l'inferno. Le dita si serrarono sulla penna e il block notes. Mandai giù un vaffanculo. «Ma certo.» Segnai un altro tavolo, più coperto. «Può andar bene quello?»
La Wood si pizzicò il mento, fingendo addirittura di pensarci. Non le sarebbe andato bene solo per il gusto di infastidirmi. «Uhm... uno ancora più appartato non c'è?»
No, non c'è, stronza! E ora fuori da qui.
Roteai gli occhi, pinzandomi la lingua tra i denti per evitarle una rispostaccia. Mi stavo spazientendo. Le indicai un altro tavolo, molto più appartato, zona privé: luci soffuse, candela come centro tavola, separé. Insomma, decisamente intimo. Nemmeno avrei voluto proporglielo ma, ahimè!, sembrava cercar proprio qualcosa di simile. «Quello invece? Potrebbe andare meglio?» domandai a denti stretti.
Si illuminò. «Oh sì, quello è perfetto.» Con un piccolo strattone attirò Lattner verso il loro angolo speciale e quando lo lasciò lui fu addirittura così galante da aiutarla a sedersi. Involontariamente mi uscì un grugnito che fece sorridere tra i baffi la Wood.
Lei si compiaceva di quella situazione. Provava piacere a vedermi seccata, ferita, confusa. C'era un certo sadismo in quei sorrisi trattenuti, in quelle occhiate veloci e dialoghi preimpostati.
Feci un profondo respiro e dall'enorme tasca del grembiule estrassi il Menù. «Ecco qua! Vi lascio il menù affinché possiate consultarlo in tutta calma e scegliere i piatti che più desiderate.» Fredda. Distante. Professionale.
Continuavo a ripetermi nelle testa che ero lì per lavorare. Solo lavorare.
E loro erano clienti. Solo clienti.
«Robin» la voce di Lattner venne immediatamente spenta da un mio poco equilibrato sbuffo di narici. Lo fulminai con lo sguardo. Non si doveva azzardare a usare il mio nome. Non lì, non in quella circostanza.
Continuai: «Nel frattempo cosa posso portarvi da bere?»
La Wood finse di guardare le ultime pagine del menù, riservate ai vini, poi si voltò verso Lattner. «Tu che cosa vuoi, Thomas?» Sentirla pronunciare il suo nome mi suscitò un moto di ribrezzo.
«Non saprei» rispose lui, tenendo gli occhi incollati sulla lista. Era assorto? Annoiato? Non lo capivo. «Non amo il vino, lo sai.»
«Hai ragione! Ma per gli appuntamenti funziona così, no?» Rise. «Una bottiglia di vino, cibo buono, una camminata al chiaro di luna e infine... un dolce ancora più buono.»
Appuntamento...
Sono a un appuntamento.
La penna mi scivolò di mano e rotolò sotto il loro tavolo. Dovetti piegarmi sulle ginocchia per cercarla, maledicendomi.
Com'eravamo arrivati a questo? Un paio di ore prima stavamo litigando per la Wood e alcune ore dopo lui ci era uscito per un appuntamento con tanto di sesso come dolce finale. Perché sì, non sono stupida, non mi era sfuggita l'allusione.
No, davvero... come eravamo arrivati a questo?
Espirai rumorosamente, consapevole che il mio viso fosse lo specchio delle mie emozioni ferite. Sentivo gli occhi bruciare e il cuore pesante. Improvvisamente qualcosa come una mano invisibile me lo aveva stritolato in petto e ora ero lì a far i conti con il mio cuore stropicciato e da buttare.
Non puoi piangere, Rob.
Non ora. Non davanti alla Wood.
Me lo ripetei più e più volte, nascosta sotto quel tavolo, pregando me stessa di non cedere. E ci vollero alcuni minuti prima che riuscissi a riprendere il controllo sulle mie emozioni.
Quando finalmente, con estrema fatica, riuscii a indossare la mia solita maschera di fredda stronza insensibile, trovai la penna. La agguantai sentendo qualcosa sfiorarmi le dita e quando mi risollevai notai Lattner far lo stesso, la mano ancora protesa verso la mia.
Rassettai il grembiule sotto l'attento e divertito sguardo della Wood e accennai un sorriso. Lei gongolava. «Vi lascio il tempo per pensarci. Nel frattempo vi porto delle brocche di acqua fresca.» Volevo andarmene. Sparire negli spogliatori e non uscire più. O aspettare che se ne andassero. «Con permesso.» Feci un cenno con il capo, abbozzai il sorriso peggiore che potessi fare e indietreggiando sfrecciai via.
«Robin!» la voce di Lattner mi inseguì ma lo ignorai.
Ci fu un susseguirsi di rumori: una sedia che si trascina, un vociar leggero, e poi di nuovo la sua voce: «Robin! Robin, ti prego!»
Lo ignorai ancora, gettandomi a capofitto nel corridoio che separava la sala dalla cucina.
Non potevo fermarmi a fronteggiarlo ora. Non nelle condizioni emotive in cui versava il mio cuore.
Ero riuscita ad arginare il pianto davanti alla Wood, probabilmente per puro orgoglio, ma per quanto ancora sarei riuscita a soffocare anche la rabbia che provavo verso di lui?
«Aspetta, Robin!»
Quando mi agguantò per un braccio, tutte le emozioni che fino a quel momento mi erano ribollite dentro, esplosero di colpo come una cassa di nitroglicerina che viene scossa troppo a lungo.
Mi voltai di scatto, adirata, senza freni, e senza nessuna esitazione lo colpii al viso.
Uno schiaffo. Potente. Rabbioso.
Lattner non mi fermò. Lo prese quasi sentisse giusto farlo.
«Bastardo!» gli gridai contro, fregandomene dei clienti che avrebbero potuto sentire dalla sala. «Vaffanculo, bastardo!» le parole mi uscirono strozzate dalle lacrime ma furono così potenti da ferirlo più dello schiaffo stesso.
Rimase immobile, in attesa dei miei insulti e questo suo atteggiamento passivo mi strappò una risata amara. «Sai, non ci volevo credere. Non volevo credere che tu, stessi facendo questo proprio a me. A me.» già... me.
Ma in fondo, chi ero io per lui?
Ancora nemmeno lui lo sapeva. Ancora non ero classificabile.
Ero una amica? Una scopa-amica? Una cotta? Cos'ero per lui?
Mi asciugai rabbiosamente le lacrime con il polsino della divisa. Odiavo piangere. Odiavo lui. Odiavo me stessa per avergli permesso di ridurmi così.
«Non è come credi.»
«Ah, no? Quindi non sei qui con la Wood per un appuntamento. Quindi ho capito male...»
«Sì, è un appuntamento ma n-» Non gli lasciai terminare la frase.
Non gli permisi di prendere i miei sentimenti, appallottolarli e giocarci come se non valessero abbastanza da essere rispettati. La mano si mosse di nuovo, quasi non volesse far altro che accanirsi sulla sua guancia già livida. E se il primo schiaffo era stato travolgente e inaspettato; questo, Lattner lo attendeva. Era come se mi avesse portato lui fino a quel punto. Come se li volesse e fosse una punizione che si autoinfliggeva.
Lo schiocco risuonò in tutto il corridoio e la guancia subito si accese di un rosso più intenso.
Per un breve istante quasi mi dispiacque.
Quando abbassai la mano mi accorsi di aver il fiatone. Le mie emozioni sembravano aver appena corso una maratona.
Lui si massaggiò la mandibola, corrucciato. «Lo so, forse non lo capirai... ma l'ho fatto per te.»
Non riuscii a trattenere una risata scortese e canzonatoria. «Oh, ma davvero? Cazzo, che premuroso! Sei stato proprio gentile! Non dovevi!»
L'aggressività nelle mie parole sembrò rianimare il suo spirito da teppista. Sollevò gli occhi e per un attimo dentro ci vidi un principio di tempesta. «Non eri tu che volevi che Theresa smettesse di venire da noi?» domandò, tagliente. Aspettò una mia risposta, sperando in una conferma ma quando si accorse che non lo assecondavo proseguì: «Bé, ti ho accontentato. Non sei felice?»
«Cosa? Felice?» feci alcuni passi indietro. Dovevo mettere distanza tra noi o lo avrei potuto colpire ancora. Anzi, volevo colpirlo. Sentivo il bisogno, la necessità fisica, di aggredirlo fino ad annullare i miei sentimenti per lui. Fino a soffocarli nella rabbia. «Mi stai prendendo per il culo, vero? Questa è la peggior mancanza di rispetto che potevi farmi!»
Si accigliò. «Ma se l'ho fatto proprio per portarti rispetto!» gridò, soffocando le ultime parole quando si accorse che la sua voce stava rimbombando in tutto il corridoio.
«Cielo... questo lo chiami rispetto?» risi. «Sai, se non mi fosse fregato nulla di te nemmeno mi sarebbe interessato del tuo rispetto. Il rispetto delle persone che per me sono zero, vale zero. E invece, per mia sfortuna... tu sei davvero importante per me e no, Thomas... non ci sto. Io da te il rispetto lo pretendo. Lo esigo! Perché dalle persone che amo, il rispetto, lo voglio addirittura doppio... proprio perché io a chi amo do doppiamente rispetto e pretendo di riceverne altrettanto.»
«Tu non capisci! Io...» Scrollò il capo e imprecò a denti stretti. «Ah, dannazione! Faccio mai bene qualcosa, eh?» tuonò, allargando le braccia esasperato. «Sono dovuto scendere a compromessi!»
Compromessi? In che senso?
«Spiegati.» Non era una domanda.
«Credevi che avrebbe accettato a occhi chiusi? Che avrebbe mollato la presa senza obiettare?» Fece un passo in mia direzione. «Pensavi che sarebbe stata ragionevole? La conosci, in fondo, no? Non è il tipo di donna che si fa problemi quando vuole qualcosa.»
Lo aveva ricattato? Ora era costretto a farci del sesso a causa mia?
«Ti ha chiesto lei di...» Non avevo coraggio a chiederglielo. Mi limitai a fissarlo.
Lui scosse il capo. «No. È stata una idea mia in realtà.»
Inorridii. Appuntamento galante più sesso, ed era tutta una sua idea. Non riuscivo a crederci. Mi sembrava di sognare, anzi, era un incubo. Doveva per forza essere un incubo. Giusto? «Pe - perché?» fu tutto ciò che mi venne da chiedergli.
«Bé, ho pensato fosse un buon modo per ringraziarla e liquidarla allo stesso tempo... visto la mano che ci ha dato, non credi?»
Trasalii.
La leggerezza con cui lo aveva detto mi fece dubitare del peso che desse all'atto sessuale in sé per sé.
Insomma, se per lui era così facile concedersi, allora cos'erano state le notti che avevamo passato insieme? Come le classificava? Un semplice passatempo o qualcosa di più?
Arretrai ancora. Improvvisamente sentivo il bisogno di stare sola, non vederlo per un po', pensare. O forse fuggire. «E perché siete venuti proprio qui?» Mi focalizzai su quella domanda e sorvolai sulla parte restante dell'appuntamento, quella fuori dal locale e che mi dilaniava di più.
«È l'unica cosa che ho lasciato decidere a Theresa.»
Abbozzai un sorriso e strofinai le mani sul grembiule scuotendo la testa.
Ma certo! Perché non sbandierare questa conquista sotto il mio naso, no? Perché non ferirmi, visto che ne aveva l'occasione?
Assurdo. Crudele e assurdo.
E io ero una illusa. Una sciocca illusa.
«Senti, Robin...» Allungò una mano per toccarmi, per trattenermi ma ero troppo furiosa per lasciare che mi convincesse.
Non volevo essere convinta. Non volevo essere ammansita.
Volevo sfogarmi. Gridare. Volevo spaccare qualcosa e mandare a fanculo tutto e tutti. Soprattutto loro due.
«Non mi toccare.» Fui più fredda di quanto avrei voluto, tanto che lui sussultò e restò in silenzio a fissarmi con quegli occhi azzurri che sembravano il punto di incontro tra mare e cielo. «Ho bisogno di-» Tempo? Spazio? Riprendere il controllo? Metabolizzare che sei un coglione? Non lo sapevo più.
Sapevo solo che volevo andarmene da lì, il più lontano possibile da lui e la Wood.
Ci fissammo in silenzio e dopo un po' annuì, come se quel mio discorso troncato a metà avesse un senso.
In realtà capiva perfettamente di avermi ferito. La sua consapevolezza era lì, lo vedevo: era in quello sguardo pieno di rimorso, in quel tic infantile di tormentarsi il labbro con i denti, in quella postura rigida come le mie parole.
Inspirai a fondo. «Me ne vado. Fatevi servire da Nate.»
Mi sbarrò la strada. «No, aspetta. Finiamo di parlare. Sono sicuro che stai travisando tutto.»
«Non mi interessa, Thomas. Davvero!» Mentivo. Ma era sopravvivenza quella. «Vorrei dirti che la delusione e il dolore che provo, una volta ascoltate le tue motivazioni, spariranno... ma sai che non è così.» Non avrei mai dimenticato quella notte: lui, la Wood, il loro appuntamento, il sesso che si erano promessi, la superficialità con cui si era arreso. Mai.
Il solo ripensarci mi fece rabbia. Sulle labbra sentii sbocciare un sorriso maligno, corrotto dal mio desiderio di vendetta, dal dolore e dalla mia gelosia. «Anzi, spero proprio che ti soffocherai con la cena, stronzo! Dirò al cuoco di sputarci dentro.» Fu un augurio brutale e degno di Scorpion Queen, non certo di quella me che tanto cercavo di modellare e rendere migliore; tuttavia non mi sentii in colpa.
Lo spinsi di lato, camminando a passo spedito verso gli spogliatoi. Non mi voltai.
Volevo odiarlo, sarebbe stato più facile, eppure, sebbene la rabbia mi ardesse dentro come un falò appena appiccato, sapevo che il mio amore per lui restava lì, immutato, forte.
Fu doloroso il modo in cui ci lasciammo quel giorno.
Mi sembrò tanto un dietrofront sui progressi che avevamo fatto.
Mi sembrò tanto un fallimento.
L'ennesimo.
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