7 - PRIMA O POI SAREBBE SUCCESSO

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Mi ero mangiata tutte le unghie fino ad arrivare alla carne e sanguinare. Me n'ero accorta solo dopo che Takeru mi aveva rimproverato e fasciato un dito, quello più martoriato; gli altri erano rimasti in balia dei miei denti e delle mie emozioni, sempre più opprimenti e accorate.

Continuavo a pensare alle parole di Lattner e più ci pensavo, più sentivo ribollire in me il desiderio di alzarmi, uscire dall'aula, prendere la prima porta che conduceva al giardino e una volta fuori, dopo aver preso una boccata d'aria, gridare.

Gridare tutto. Gridare fino a perdere la voce.

Buttare fuori il bello e il cattivo. Più il cattivo, ultimamente.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Richiusi un con colpo secco lo sportello dell'armadietto, facendo sobbalzare Takeru poco distante da me. Mi lanciò una di quelle occhiate inquisitorie ma ebbe l'accortezza di non fare domande.

Sapeva quando non era il momento. E quello di certo non lo era. Forse era la mia faccia a parlare, con quelle espressioni così trasparenti e poco diplomatiche. Un libro aperto che a volte avrei preferito custodire segretamente.

Il primo giorno al Missan era finito e lo avevo masticato e sputato come il peggior boccone mai dovuto assaggiare. Un vero schifo. Ed era tutta colpa di Lattner.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Lasciai uscire l'aria con un sibilo, stringendo i denti fino a sentirli stridere.

«Stasera lavori?» domandò Ramones, impilando alcuni libri e ficcandoli dentro lo zaino senza troppe cerimonie.

Mi limitai ad annuire.

«Vuoi che ti passo a prendere?» chiese, gentile. «Magari io e Giappon-fake ti portiamo al cinema o a ballare.»

Apprezzavo l'impegno che metteva per farmi tornare di buon umore ma in quel momento volevo ritornare a casa, afferrare il cuscino a due mani, affondarci il viso e piangere. Piangere, sì!, proprio io. E anche gridarci qualche parolaccia che non vi starò qui a precisare. Potete però immaginare le più brutte.

«Ti ringrazio... ma no.»

Diversamente da come avrebbe fatto di solito, lasciò cadere la proposta nel silenzio più totale e mi seguì lungo i corridoi del Missan. Anche Takeru si accodò a noi, facendosi spazio nella ressa di collegiali che finita l'ultima ora volevano lasciar l'edificio il prima possibile.

Nessuno dei due sapeva quel che era successo dentro quella classe tra me e Lattner; eppure, quando ero uscita, sia Ramones che Takeru avevano capito immediatamente che qualcosa non andava e mi avevano scortato in aula senza perdermi d'occhio un secondo. Da lì, fino alla fine delle lezioni, ero stata monitorata in silenzio. Nessuna invadenza. Nessuna domanda.

Apprezzavo la loro preoccupazione e premura, e l'apprezzavo ancor più perché riuscivano a non farmi pesare il mio mutismo o il mio cattivo umore. Rispettavano i miei spazi e questo, per me, valeva più di mille parole rassicuranti.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Mi strizzai la base del naso, cercando di arginare il fluire di pensieri sempre più negativi. Ogni volta che le parole di Lattner si ripetevano dentro la mia testa il lucchetto che teneva chiusa e arginata la mia rabbia, cedeva un po'. Solo un po'.

La sentivo scuotere la porta della sua gabbia, supplicando a gran voce di poter uscire. Non ero certa però di esser capace di controllarla una volta sguinzagliata.

«Torno a casa» dissi, di punto in bianco, liquidando entrambi.

Takeru sollevò gli occhi dal cellulare. «Come? Non passi in biblioteca?»

La professoressa di storia ci aveva dato una piccola lista di libri da leggere durante tutto l'anno scolastico. Nulla di troppo impegnativo ma che sarebbe stato meglio terminare il prima possibile. Com'era il detto? Non rimandar a domani ciò che puoi fare oggi? Bé, io non volevo certo trovarmi a fine anno con ancora tutti i libri da leggere.

«Domani mattina.» Ed era vero. Ci sarei andata l'indomani. In quel momento il desiderio maggiore era correre a casa, chiudermi in stanza e lasciare il mondo fuori.

Avevo bisogno di stare sola con i miei pensieri. Non era una richiesta esagerata.

«Se vuoi te ne prendo un paio io, così inizi da quelli» si offrì Takeru.

Riuscì a strapparmi un sorriso. «Non so come farei senza di te.» Lo agguantai in un abbraccio brusco ma carico di affetto e senza perdere tempo corsi verso l'uscita.

Avevo bisogno di aria, solitudine e una sigaretta. Quella in particolar modo.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Ci vollero quattro scatti prima che la fiamma divampasse fino a bruciare la punta della sigaretta. Aspirai una boccata di fumo e lasciai che mi annebbiasse i sensi. Stringendo il filtro tra i denti infilai rabbiosamente le mani nelle tasche del giacchetto e aumentai il passo.

La fortuna di abitare vicino al Missan era anche quella del potersi fare una passeggiata di ritorno a casa senza la necessità di mezzi. A piedi, per schiarirsi le idee. Anche sotto la pioggia se necessario.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

In un gesto stizzito sferrai un calcio a un sassolino che schizzò come un proiettile lungo la strada deserta. Ero arrabbiata, delusa e ferita. Mi sentivo sull'orlo del pianto o della crisi isterica. Non avevo vie di mezzo, come mio solito. Sbuffai fumo dalle narici, come un drago che sputa fuoco e con uno scatto veloce attraversai la strada che mi separava dal mio quartiere. Ero vicina a casa; così vicina che riuscivo già a veder da lontano il giallo canarino dello stabile, che stagliava come quei segnali di pericolo che ti mettono in guardia ma che spesso vengono ignorati.

Per un attimo, mentre i passi diventavano sempre più pesanti, fui colta dal panico. Io e Lattner eravamo comunque coinquilini e per quanto lui avesse deciso di troncare quella nostra acerba relazione, eravamo comunque costretti a vivere sotto lo stesso tetto; quindi convivere e condividere spazi comuni. Non potevamo ignorarci o evitarci in eterno. Come sarei riuscita a far funzionare tutto? Come lo avrei gestito?

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Semplice: non potevo.

Potevo dare al nostro rapporto del tempo, per placarsi e per risultare meno imbarazzante per entrambi, ma non potevo scappare. E nemmeno volevo, a dir il vero.

Non volevo negare niente, né fingere che non fosse successo niente.

Volevo semplicemente andare avanti con la mia vita, senza maschere, a testa alta, consapevole dei miei sentimenti per lui e consapevole che lui li conoscesse.

Era giusto, no? Non era chiedere tanto. Non pretendevo li ricambiasse.

Per una volta volevo essere sincera con me stessa e con chi avevo attorno.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Quando sollevai gli occhi ero ai piedi della rampa di scale, quella esterna in muratura e che dava allo stabile un tocco moderno. Pochi metri ancora e sarei arrivata.

Lo stomaco mi si era trasformato in un nido di serpi e la mancata salivazione mi dava l'idea di aver la bocca piena di sabbia. Continuavo a respirare come un treno, eppure non ero reduce di una maratona.

Il primo scalino fu quello più difficile da fare. Gli altri divennero quasi una corsa.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

La porta di casa. Eccola.

Ci ero davanti da dieci minuti, le chiavi in mano che scivolavano per via del palmo sudato. Le strizzavo fino a sentirne il ferro dei dentini nella carne.

Lui era dentro, ne ero certa. Era come se la sua presenza sfondasse metaforicamente i limiti dei muri che ci separavano.

Mi rigirai il mazzo tra le mani e presi un profondo respiro. Tanto non potevo scappare, no? Era anche casa mia quella.

Non sapevo come avrei esordito, né come avrei reagito al nostro primo incontro dopo ciò che era successo. Il mio umore era altalenante. Speravo solo di non scoppiargli a piangere in faccia e atterrarlo successivamente con un pugno sul setto nasale. Insomma, tutto era possibile con me, no?

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

Alla fine, avevo fatto una veloce preghiera, qualche gesto scaramantico ed ero entrata con le migliori intenzioni.

Tempo al tempo, mi ero detta; ma vederlo sul divano era stato un duro colpo da incassare. Là, bello e irraggiungibile; stronzo e dannato. Meritava tutti i miei baci e tutti i miei schiaffi. E Dio solo sapeva quanto volevo darglieli entrambi.

Tentennai sulla porta qualche secondo, strofinando i piedi scalzi sul pavimento. Insomma, che dire? Qualcosa tipo:

"Ehi, ciao, sì... sono tornata a casa. Assurdo, vero? Già. Lo penso anche io. E vabbeh, che ci vuoi fare... mica posso campare sotto un ponte per amor del mio orgoglio ferito, no? Guarda, facciamo così... sai quello? Sì, quello, proprio quello! Tienitelo pure! Non lo voglio più! Il mondo è pieno di cazzi! Magari pure meglio del tuo!"

No, no... non ero sicura fosse proprio il metodo giusto per attaccare bottone e allentare la tensione già palpabile.

Ma d'altronde come potevo iniziare a cuor leggero un qualsiasi discorso con la stessa persona che poche ore prima mi aveva brutalmente friendzonato? A fatica ero brava a iniziare conversazioni normali, figuriamoci in situazioni simili.

«Per caso... sì, be'... caffè? Vu - vuoi del caffè?» domandai, pentendomi subito dopo della proposta stupida.

Caffè? Davvero, Robin? Del caffè?

Mi sarei ripetutamente picchiata con la moca bollente. Così, giusto per ricordare a me stessa, tramite la violenza, quanto fossi demente. Ma che domande erano? Che approccio era?

Lattner girò la testa in mia direzione e impiantò i suoi occhi nei miei. Non rispose niente, sottolineando quel patetico tentativo di dialogo, si limitò a divorarmi con lo sguardo. E quello sguardo, unito al silenzio imbarazzante, mi convinse a trincerarmi in cucina.

No, non ero assolutamente pronta a parlarci. Cosa mi ero detta? Tempo al tempo? Perfetto! Ne avremmo riparlato tra un paio di anni, decenni, secoli... forse mai più. E fanculo anche Lattner!

Colpii il lavello con una manata. «Si fotta» biasciai a denti stretti, esasperata.

Perfino i suoi silenzi riuscivano a minare la mia tranquillità interiore.

"Era l'ultimo, questo... un addio dolce amaro"

La frase che quel giorno mi aveva tormentato riaffiorò ancora una volta tra i miei pensieri, con la stessa voce greve di Lattner e la stessa freddezza. L'impatto di quelle parole, che ormai si ripetevano in loop, mi spinse ad afferrare la caraffa mezza piena di caffè. La scossi con talmente tanta frustrazione che a momenti il liquido, ancora bollente, non rischiò di rovesciarsi tutto sulle mie mani.

Ero stanca. Stanca delle cose non dette, dei suoi cambi d'umore, della sua indecisione, dei suoi passi avanti seguiti da frettolosi passi indietro.

Non c'erano più segreti tra noi. I miei stessi sentimenti erano lì, in bella vista, alla sua mercé. E non volevo nemmeno ritrattarli o negarli. Erano quelli, fine.

Ora era lui però a dover capire bene cosa voleva. Perché io quel che volevo lo sapevo già. Tutto dipendeva da lui.

«Ma che...» La mano navigò a vuoto nel posto che solitamente era occupato dalla mia tazza. Di lei non c'era più traccia. Sparita. Stava diventando un'impresa perfino bersi del caffè.

Mi guardai attorno: sul lavello, nella lavastoviglie, sul tavolo. Niente. Volatilizzata.

Non era nulla di speciale ma era comunque la mia tazza preferita, quella che usavo sempre: tinta unita semplice e con una frase breve ma incisiva. La scritta sulla ceramica bianca era un estratto che sentivo rappresentarmi appieno, soprattutto la mattina: "Bella. Sveglia. Del Cazzo." di Amos White, il mio personaggio preferito di una saga paranormal romance. La scrittrice era una svitata ma il personaggio meritava.

«Dove diavolo è finita?» Feci un giro su me stessa, aprendo alcuni sportelli sotto il piano da lavoro. Poi i miei occhi, quasi per errore, si alzarono verso una mensola che solitamente ignoravo e lo stupore di trovar lì la mia tazza mi lasciò imbambolata a guardare con il naso all'insù e la brocca di caffè stretta con entrambe le mani. «Ma che diavolo...» Non potevo avercela messa io, era chiaro. Là nemmeno ci arrivavo. E allora chi l'aveva messa? Lattner? Eppure non lo aveva mai fatto prima d'ora. Possibile iniziasse proprio adesso a farmi dei dispetti?

Posai la caraffa mugugnando qualche parolaccia e mi apprestai a scalare l'Everest della mia cucina per riappropriarmi nuovamente del mio personale Sacro Graal.

Un ginocchio sul bancone, la mano arpionata all'anta di un mobiletto, l'altra protesa nella speranza di afferrare la tazza. Sembravo Spiderman ma senza tutina figa e ragnatele annesse. Anche se le ragnatele ero certa che le avrei fatte altrove continuando su questa via.

Robin! Basta pensare al sesso! Cielo...

«Quasi... ci - ci sono quasi...» Le punte delle dita la sfiorarono appena e poi, finalmente, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, riuscii ad afferrarla. Fu una vittoria. Soprattutto per una nanetta come me. Nel tirare indietro il braccio, però, il movimento mi fece perdere l'equilibrio e mi sentii sbilanciata di colpo, verso il vuoto. Dalle labbra mi uscì un gemito indefinibile.

Ero pronta a cadere, battere la testa contro diciottomila spigoli differenti... e morire. Non feci però nemmeno in tempo a imprecare che subito sentii un corpo comprimermi da dietro, impedendo che mi sfracellassi al suolo. Il calore che emanava, la pressione leggera del suo piercing al capezzolo contro la mia schiena, il profumo delicato ma intenso del suo dopobarba; erano tutti particolari che avrei riconosciuto anche a occhi chiusi.

Probabilmente lo avrei individuato anche in mezzo al fitto e trafficato incrocio di Shibuya.

Lui era lui. Solo lui. Unicamente lui. E anche in mezzo a tutta quella gente lo sarebbe stato. E io, lo avrei trovato sempre.

Sospirai, trattenendo l'impulso di portare la mano libera dietro di me e toccarlo. Avrei voluto ringraziarlo ma in quel frangente le parole non uscirono.

«Sei pazza?» sbottò, sbattendo le mani contro le ante delle dispense e ingabbiandomi nel suo abbraccio. Fui travolta da una zaffata della sua colonia. «Prendere una sedia era troppo difficile, vero? Ma, no! Spacchiamoci la testa, dai!» Era arrabbiato. Eppure era comunque lì, venuto in mio soccorso; come qualcuno che borbotta e si lamenta ma poi finisce per far le cose lo stesso. Uno di quei principi moderni, un po' alternativi.

«Mi - mi dispiace» farfugliai imbarazzata e con ancora il cuore in gola per lo spavento.

Ogni parte di noi si toccava, collegata, incollata l'uno all'altro. Il suo petto combaciava perfettamente contro la mia schiena e i suoi fianchi e il suo inguine accoglievano il mio sedere con indecente perfezione. Era tutto romantico, imbarazzante ed erotico al tempo stesso.

Sembrava la posizione perfetta per lasciarsi andare a del sano e disimpegnato sesso.

Oh, no...

Ero ancora in un equilibrio precario ma le mie priorità erano passate dall'evitare di morire battendo una tempia contro uno spigolo, all'evitare di morire di vergogna per essermi strofinata involontariamente contro l'erezione di Lattner.

Perché sì, anche lui sembrava in bilico tra razionalità e lussuria. Un divario debole e traballante quanto il mio equilibrio. Probabilmente aveva avuto il mio stesso sfacciato pensiero. «Potresti... ecco, sì...» la sua voce roca sembrò graffiarmi l'orecchio e il collo, accarezzandomi la pelle quasi a volermi sedurre con promesse indecenti. E che avrei volentieri accettato. Tuttavia la sua richiesta appena accennata fu chiara e lampante.

«Oh, sì... scusa. Scusa» farfugliai e grazie al suo aiuto mi affrettai a scendere. Una volta con nuovamente i piedi per terra, l'imbarazzo divenne schiacciante. Strizzai la tazza tra le mani e inchiodai gli occhi nel suo fondo ancora vuoto in cerca della mia dignità perduta... che ovviamente non trovai. Strano, vero? «Grazie.»

«Come? Ah, sì... figurati!»

Avevamo subito messo una ragionevole distanza tra noi. Io ancora schiacciata contro il bancone della cucina, lui dalla parte opposta, più vicino all'uscita; come se tenesse una via di fuga a portata di mano. A quanto pare ero pericolosa.

«Io non capisco come...» Mi rigirai la tazza tra le mani e scossi il capo. Trovarla lassù restava un mistero visto che lui non sembrava il colpevole. Accennai un breve sorriso mentre mi voltavo a prendere il caffè. «Vabbè...» Non aveva importanza, in fondo. Ero felice di averla ritrovata. E qui lo dico, e qui lo nego, ero felice anche che fosse venuto ad aiutarmi.

«Dovrò dire a Theresa di non mettere più le cose così in alto la prossima volta.»

Theresa... di nuovo.

Theresa e la mia tazza, oltretutto.

Solo sentir quel nome mi fece irrigidire. «In che senso?» domandai, cercando di non sembrare scocciata, anche se lo ero. Versai il caffè nella tazza senza nemmeno voltarmi. Non volevo dargli modo di notare il mio fastidio e utilizzarlo a suo favore durante la discussione. Perché sì, ci sarebbe stata una discussione.

«È passata poco fa a salutare... ha visto i piatti ancora da fare e ha voluto lavarli a tutti i costi.»

Strinsi così forte la tazza che per un attimo temetti di mandarla in frantumi. Era chiaro che l'avesse posizionata così in alto per dispetto. Probabilmente faticava anche lei a raggiungere quella mensola.

Mentalmente mi appuntai di far l'ennesimo discorso alla Wood. E questa volta senza carinerie ma lasciandola interagire direttamente con la Scorpion Queen che custodivo con attenzione.

Lattner nel frattempo si era chiuso in un mutismo quasi fastidioso.

Sorseggiai il caffè sperando anestetizzasse la mia lingua biforcuta che già voleva prenderlo a parole. Avrei dovuto bere una camomilla. Ad ogni modo, la questione della Wood andava risolta una volta per tutte. «Senti, Thomas...» feci un lungo respiro. Di quelli che servono per incanalare forza, pazienza e determinazione. «È davvero necessario che lei venga sempre qua? Con questa frequenza e invadenza?»

Ci fu un lungo silenzio prima di ottenere una risposta. «Non è necessario, no... ma non vedo il problema. Perché non può venire? Ci siamo chiariti e abbiamo deciso di rimanere in buoni rapporti e, anzi, alla fine mi ha aiutato molto durante il periodo in cui stavo male.»

Lei lo aveva aiutato. Come se io non avessi fatto nulla nel frattempo.

Mi uscì una risata nasale carica di risentimento ma decisi di sorvolare su quella precisazione per non alimentar ulteriormente il fuoco della discussione; quando però mi voltai, i suoi occhi scattarono di lato, focalizzandosi su dettagli banali dell'arredamento. Preferirono guardare tutto all'infuori di me. E questo loro latitare aumentò la mia rabbia nei suoi confronti.

Dal mio canto, però, decisi così di puntare i miei in sua direzione. Volevo sentire ciò che mi diceva ma soprattutto vedere mentre lo diceva. «Davvero? Quindi non ti infastidisce il fatto che cerchi costantemente di far colpo su di te e voglia tornare di nuovo insieme, vero?»

Sbuffò una risata, incrociando le braccia al petto e finalmente si voltò a guardarmi. Il suo sguardo riuscì a restare bianco come una tela. «Cazzate! E poi... anche se fosse?»

Anche se fosse...

Magari a lui andava bene quel lento flirtare. Forse io non avevo capito un cazzo ed ero semplicemente il terzo incomodo. E allora perché prendersi il disturbo di baciarmi, di farmi pensare di provare qualcosa per me e di scoparmi? Era davvero una così squallida persona che usava gli altri come giocattoli? Non volevo crederlo. «Sì, bé... hai ragione. Alla fine siete restati in buoni rapporti, no?» Sorseggiai il mio caffè e lo vidi annuire. «Ne sono felice. Questo vuol dire che potrò portare qui Ramones senza ricevere altre tue sceneggiate come la volta scorsa, giusto?»

Sollevò il capo di scatto, spiazzato da quel risvolto. Di sicuro non si aspettava che tirassi fuori la carta degli ex. «Vega? Qui? Di nuovo?» Si strofinò gli occhi e passò più volte la lingua sulle labbra. Si era fatto scacco matto da solo e lo sapeva bene. Il lasciapassare alla Wood poteva essere applicato a tutti gli ex con cui eravamo rimasti in buoni rapporti. E per sua sfortuna, ero ancora amica di alcuni miei ex. E Ram ne era la prova. «Sì, bé... se non viene qui tutti i giorn-» tacque di colpo, affilando lo sguardo e rifilandomi un'occhiata severa. Improvvisamente stava dicendo le mie stesse cose e non gli sembravano più così tanto irragionevoli. «È una ripicca questa? Lo vuoi far venire perché viene Theresa?»

«Sì, esatto. È proprio così» ammisi candidamente.

La mia franchezza lo sorprese. «Cosa? Seriamente? E qual è il senso?»

Posai la tazza sul bancone con un tonfo così forte che anche Lattner ebbe un breve sussulto sul posto. Quando mi girai a guardarlo irrigidì le spalle, sulla difensiva. Mi chiesi se gli fosse passato per la testa di fuggire dalla cucina.

C'erano giorni che sopportavo meglio le sue altalenanti emozioni e giorni che invece proprio non riuscivo a sopportare niente, nemmeno le mie.

Era arrivato il momento di capire. Prima o poi sarebbe successo.

«Il senso? Il senso è capire perché i miei ex non possono frequentare casa mia come amici, mentre la tua sì. Il senso è capire perché a te i miei ex possono dare fastidio, mentre la tua mi deve andare bene. Il senso è capire perché tu hai questo comportamento geloso, mentre io non posso averlo.» Parlavo sempre più forte, arrabbiata e sull'orlo di una crisi di nervi. Quasi gridavo, mentre il mio sguardo sarebbe stato capace di incenerire qualsiasi cosa tra noi. Avanzai di qualche passo e per la prima volta nella sua espressione lessi smarrimento e un pizzico di nervosismo. «Sai perfettamente cosa provo per te. Te l'ho detto e te l'ho fatto capire, no? Sono innamorata di te, Thomas... innamorata. Sai cosa vuol dire? O credi forse che scopi con tutti solo per il piacere di farlo?» Aspettai che parlasse, che si giustificasse ma la mia dichiarazione fu seguita da un silenzio opprimente.

Lattner aprì la bocca per dire qualcosa ma subito la richiuse. Le gote iniziarono a diventare rosse e il pomo d'Adamo iniziò a danzargli freneticamente in gola. Avvampò di colpo, di un rossore che non gli avevo mai visto. Fu come accendergli un fuoco alla base del collo.

Se non fossimo stati nel pieno di una litigata furiosa lo avrei trovato perfino dolce. «Non ti ho chiesto amore eterno, né ti ho detto che mi devi sposare o dobbiamo aver dei figli. Ho semplicemente voluto dirti ciò che provo... non sei nemmeno obbligato ad accettare e ricambiare i miei sentimenti, a dir il vero.»

«Io non-»

Non gli diedi tempo di rispondere, continuai: «Ho solo bisogno di sapere cosa siamo. Ho bisogno di capire se siamo semplici coinquilini con benefici extra o se provi qualcosa per me. Me lo devi. Mi devi chiarezza.» Fece per parlare ma lo zittii alzando un dito e avanzai ancora verso di lui. Fino a trovarmi sotto. Questa volta era lui la preda e io il predatore. Le parti si erano invertite e lui sembrava più spaesato che mai. «Non vuoi impegnarti? Okay, va bene. Preferisci la Wood? Okay, va bene. Ti attraggo solo sessualmente? Okay, va bene.» Lo afferrai per la camicia, tirandolo giù, verso di me. Il suo naso colpì il mio e il suo respiro veloce mi solleticò le labbra. «Lo vedo che ti eccito. Non sono stupida, sai? Proprio come hai detto tu a me oggi, anche io ti voglio con altrettanta forza... anzi, forse di più, visto come mi sto pateticamente dichiarando.» Con la mano libera gli carezzai l'interno coscia, risalendo piano, fino a sentirlo irrigidirsi sotto il mio tocco proprio in prossimità dell'inguine. Quando le dita scivolarono sulla zip delineando l'evidente rigonfiamento, dalle labbra gli uscì un sospiro. L'erezione premette con forza contro la mia mano. «Vedi? Guarda quanto sei eccitato.»

Deglutì e il pomo d'Adamo si mosse frenetico su e giù. «Già, lo sono... tremendamente» ammise. «E allora? Sono un uomo.» In quelle parole percepii un orgoglio maschile ferito e dell'imbarazzo.

Allargai la mano per intrappolare tutta la zona. Lo sentii teso sotto il mio palmo, divisi solo da un leggero strato di indumenti di cui lo avrei volentieri privato. Quando strinsi, Lattner chiuse gli occhi e si morse il labbro, la testa leggermente piegata indietro. Il respiro gli uscì ansante e a scatti. Era tutto così eccitante che per un istante temetti di perdere il filo della ragione, abbandonandomi a quella voglia carnale che stava consumando entrambi. «Ho soltanto bisogno di capire cosa vuoi da me. Solo questo...» Mi attorcigliai la sua cravatta attorno alla mano e tirai abbastanza da spezzargli il respiro. Fu un gesto di possesso e completo controllo che mi diede una scarica violenta di desiderio. «Vuoi me, pacchetto completo o vuoi solo la mia fica?» La volgarità con cui glielo domandai gli fece sgranar gli occhi e quella vicinanza lo spinse a cercare avidamente la mia bocca. Bocca che gli negai.

«Non avevi detto che era l'ultimo?»

Incassò il colpo ansimando e passandosi più volte la lingua sulle labbra. Sembrò sul punto di dire qualcosa ma dalle labbra non uscì niente.

«Quando hai capito che ruolo vuoi darmi nella tua vita, fa un fischio. Nel frattempo» Con un'ultima indecente carezza staccai la mano da lui e feci un passo indietro, liberandolo anche dalla tensione della cravatta. Era molto più difficile di quanto pensassi. Non era un addio, eppure lo sembrava. «è meglio se vado a lavorare, eh?» mi voltai, pronta alla fuga. Il mio attimo di gloria sentivo che era già sfumato. Avevo detto quello che dovevo dire e ora potevo correre a sedermi in un angolo a rattoppare i pezzi del mio cuore rotto.

Lattner fu svelto e mi agguantò per un braccio. Non strinse, ma bastò il suo tocco a fermarmi. Probabilmente agì d'impulso. «No, aspetta, Robin!»

«Sì?» Speranza, desiderio, felicità, commozione si alternarono sul mio viso in un breve istante.

Speranza. Soprattutto quella.

Purtroppo però lui mi lasciò subito, ficcando le mani in tasca e ciondolando sui piedi. Si tormentò il labbro inferiore con i denti, fino a farlo sanguinare e scosse il capo.

Niente. Ancora niente.

Non ero classificabile per lui.

Il mio ruolo, nella sua vita, era ancora un punto interrogativo.

«Già, come immaginavo.» Sbuffai una delle mie risate sprezzanti, ferite; di quelle che nascono il proprio dolore usando l'arroganza. «Vado a lavorare.»

E uscì di casa senza voltarmi.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top