10 - MADHOUSE

Quando le ragazze avevano scoperto che il Count era chiuso, a causa di un sospetto traffico di stupefacenti in cui erano coinvolti i proprietari, non avevano voluto comunque sentire ragioni: la serata disco si sarebbe fatta, fine.

E così il nostro gruppetto mal assortito aveva ripiegato per un locale meno gettonato, più piccolo e insolitamente più vicino a casa mia.

Infatti da me al Madhouse c'erano esattamente cinque minuti di camminata. E io nemmeno sapevo esistesse.

A saperlo prima ci sarei andata ad affogar i miei dispiaceri una sera sì e l'altra pure ma forse era un bene averlo scoperto tardi.

«Non è male» disse Takeru, sorseggiando il cocktail che si era fatto fare. Qualcosa a metà tra una spremuta e un concentrato. Dentro aveva perfino un gambo di sedano. «Non che sia un inteditore di discoteche, eh... però sembra tutto molto carino.»

«Già.» Terminai in un solo sorso il mio drink e sbattei non troppo gentilmente il bicchiere vuoto sul tavolino. Era il quinto. «Balliamo?»

Se lo avessi insultato probabilmente lo avrebbe preferito. Mi guardò con espressione stralunata, facendo saettare lo sguardo da me alla pista. «I - io credo che... che...» si strozzò con la propria saliva e tracannò il cocktail per non soffocare.

«Sì, vabbè... ho capito. Vado da sola» lo liquidai. E staccandomi dal tavolino raggiunsi la calca.

Ben presto fui travolta dal ritmo, dall'ebbrezza dell'alcol, dall'euforia di massa e dai tanti corpi avvinti e determinati a divertirsi.

Avevo cercato Ramones e le ragazze tra la folla ma di loro nessuna traccia. Sicuramente erano insieme. Beth gli si era incollata non appena lo aveva visto ed Eve era come sempre la sua ombra. Quelle due sembravano l'una l'estensione dell'altra. Chissà come funzionava quando dovevano andare in bagno o magari scopare. Facevano tutto insieme anche lì?

Non ero sicura di volerlo sapere.

«Sei davvero bellissima» il ragazzo sconosciuto vicino a dove stavo ballando lo dovette gridare per far sì che sentissi. La musica era sparata a volume altissimo perfino per una discoteca.

Anzi, dovette proprio ripeterlo per farmi entrare nell'ottica che, sì!, stava parlando con me.

Accennai un breve sorriso continuando a ballare. In realtà non avevo voglia di conversare né di flirtare, né tantomeno di accettare che un tizietto XY qualsiasi me lo strusciasse addosso. Soprattutto se non aveva abbastanza mercanzia da poterselo permettere.

Insomma, se io lo appoggio a una tipa, quantomeno devo averlo grosso, no? È una regola tacita, credo. Altrimenti, nel mio caso specifico, è un po' come offrirmi un grissino quando son abituata a una baguette.

Sottona sì, ma cogliona no.

Inavvertitamente, per caso proprio, gli rifilai una gomitata, costringendolo ad allontanarsi.

«Sei sola?» mi chiese, due minuti dopo che gli avevo tentato di sabotare un rene con quel colpo.

No, siamo io e le mie dodici personalità.

«Sì... e mi piacerebbe restarci. Addio.» Gli diedi le spalle.

Lui rise così forte da superar il trambusto della musica. Forse era un parente di Claiton. Era l'unico idiota di mia conoscenza che rideva ogni volta che lo insultavo. «Sei una tipa tosta, eh?»

Se fossi stata davvero tosta, in quel momento lo avrei appeso per i testicoli a una palla stroboscopica da discoteca. Tuttavia, avevo deciso di comportarmi bene e di passare una piacevole serata in compagnia della musica e dell'alcol. Niente guai per una volta.

Quindi decisi di ignorarlo.

Anzi, conscia del fatto che avrebbe continuato i suoi tristi tentativi di rimorchio, iniziai a farmi largo tra la calca raggiunggendo il bancone del bar. Il barman non mi guardò né mi chiese i documenti, prese semplicemente l'ordinazione e un istante dopo mi servì un bicchiere ricolmo di alcol. Alcol e felicità. Stupendo.

Quando mi girai, sorseggiando il drink dalla cannuccia, fui sorpresa di non trovare più il tizio appiccicoso. A New York non sarei riuscita a liberarmene in maniera tanto rapida, anzi, probabilmente mi avrebbe seguito fino a casa.

A New York te lo saresti fatta senza problemi.

Sollevai gli occhi al cielo imprecando contro la mia coscienza che aveva sempre la voce di Takeru.

Ad ogni modo, in quel pensiero, c'erano tante verità.

Erano cambiate molte cose in quell'ultimo anno, me in primis. Mi sentivo nuova nel mio stesso corpo, sebbene fisicamente non fossi cambiata affatto.

I miei sentimenti sembravano essersi svegliati da un lungo letargo e quel cuore, di cui non ero abituata a prendermi cura e che spesso restava in seconda linea, aveva iniziato a prendere il sopravvento e l'iniziativa su tutto.

Amare è straordinario solo quando si è ricambiati, altrimenti è un bello schifo.

Sorseggiai il mio drink camminando rasente i muri, evitando la ressa della pista e possibili inconvenienti che un tempo mi avevano fatto trascinare accidentalmente Lattner nel bagno pensando fosse Takeru.

Cielo...

Quel ricordo indesiderato mi strappò un sorriso e subito dopo un moto di tristezza.

Abbandonai il drink ancora a metà e con una spallata aprii la porta dei bagni femminili. Due ragazze mi fulminarono con una occhiata, prima di uscire parlottando tra loro.

Raggiunsi il primo lavandino affondando le mani sotto l'acqua ghiacciata. Rimasi alcuni minuti immobile, a lasciare che le dita congelassero e i polpastrelli raggrinsissero poi le tirai via e, scrollando le spalle, me le passai nei capelli.

Possibile che ogni più piccola situazione me lo facesse tornare in mente? Ero davvero così ciecamente focalizzata su lui e lui soltanto?

A volte rimpiangevo il mio menefreghismo, il mio cuore di pietra, la mia superficialità. In momenti come questo, soprattutto, sentivo il mio cambiamento come un peso e una condanna.

Con un moto di stizza aprii la piccola pochette che mi ero portata dietro quella sera e trafficando con i pochi oggetti al suo interno estrassi un rossetto. «Bene. Adesso mi trucco, esco, rimorchio qualcuno e me lo scopo come ai vecchi tempi, uh?» Passai il primo strato di colore sulle labbra che subito presero una bella tinta rosso acceso. Schioccai un bacio verso lo specchio e restai a guardarmi alcuni istanti prima che il sorriso forzato svanisse, sostituito da una triste presa di coscienza: non potevo più farlo. Non ce la facevo. «Ma cosa sto facendo, eh?» Chi volevo prendere in giro? Me stessa? Insomma, ci potevo provare... ma era chiaro non fosse più tanto facile come i primi tempi.

Lattner era lì, in quel mio cuore difettoso e poco abituato ad amare, e niente lo avrebbe destituito o sostituito. Nemmeno una serata folle come quella che credevo di voler avere.

Forse è meglio se vai a casa.

«Già» sussurrai, rimettendo via il rossetto con un leggero imbarazzo. A New York la serata sarebbe finita diversamente. «È proprio ora di andare mia cara nuova e strana Robin.» Mi avviai verso la porta, ancora con qualche sprazzo di vecchi ricordi legati alla me di New York.

Non appena però la aprii venni spinta indietro da una mano enorme che mi colpì alla cieca in pieno petto. Barcollai contro i lavandini e fissai i due uomini che si fecero strada entrando con una certa invadenza. Uno dei due era alto e tarchiato, probabilmente faceva molta palestra; l'altro invece era proprio il tizietto a cui avevo dato buca pochi minuti prima.

Strabuzzai gli occhi. «Ancora tu? Ma che diavolo vuoi?» Non potevo credere mi avesse seguito fino a lì. Con un amico, oltretutto.

Il tizio tarchiato mi segnò con il pollice, gesto da vero macho, e fissò l'altro. «È lei quella che mi dicevi, Tony?»

Tony, lo sfigato, assottigliò lo sguardo rivolgendomi una espressione di puro disgusto e annuì. «Proprio lei. Questa puttanella mi ha scaricato come se nulla fosse.»

Mi sfuggì una risatina e mi passai le mani nei capelli ancora bagnati. Era singolare come io cercassi di comportarmi bene e i guai venissero a cercarmi, non credete?

«Ti fa ridere la cosa?» Il palestrato sembrava pronto a difendere la virilità calpestata dell'amico. «Non ho mai visto una ragazza ridere in queste situazioni.»

Quello che questi due microcefali non sapevano era che nel periodo post Wyer, mi ero allenata ogni singolo giorno insieme a Lexie. E i recenti fallimenti della mia vita amorosa avevano messo a dura prova il mio precario autocontrollo da brava ragazza.

Quindi, bé, ero un tantino in sovraccarico. E nel gergo da teppisti voleva dire solo una cosa: volevo massacrare di botte qualcuno. E loro sembravano proprio ciò che faceva al caso mio.

Sospirai. «Sentite, facciamo così... io esco da quella porta, faccio finta che non sia successo niente e mi dimentico di voi, eh? Che ne dite?»

Tony se ne uscì con un verso indefinito, canzonatorio. «La vedi come fa, Ed? Con quell'arroganza... con quella superiorità...»

Ed, il palestrato.

Cielo, sembra un cartone della Pixar.

«Forse è nuova di questa città. Magari non sa chi siamo» mi cercò di giustificare Ed, come se dietro il mio due di picche potesse esserci una motivazione per loro più valida dei miei gusti personali e del mio non voler far nulla con l'amico. «Siamo i fratelli Wash, piccola. Parecchio famosi qua a Detroit, sai... gente con le amicizie giuste.» Ammiccò, toccandosi la tasca con il portafoglio.

Ah, erano pure fratelli quei due. Quindi l'idiozia era una qualità di famiglia, oltre che i soldi a quanto millantava.

Boriosi figli di papà che credevano di poter ottenere scopate facili sventolando il portafoglio zeppo di grana e spaventando le ragazze nei bagni dei locali. Avevano trovato la persona sbagliata.

Okay, ho capito... e anche stasera la brava ragazza 'sta in panchina.

Mi sfilai le mie splendide decollete nere tacco dodici, dolorose come il demonio, restando scalza sul pavimento del bagno.

Faceva schifo la cosa? Sì.

Sarebbe stato funzionale? Certo che sì.

«Che fai, non ci senti?» Ed mi afferrò per un braccio che subito liberai dalla sua presa con uno strattone. Non la prese bene perché le sopracciglia schizzarono verso l'alto per poi corrucciarsi un attimo dopo. «Forse non hai capito...» sibilò e questa volta non riuscii a sottrarmi in tempo dalla sua presa perché la sua mano agguantò il mio polso con fermezza. «stasera ci farai divertire. Entrambi, sì. Riesci a prenderne due insieme?»

Una ondata di disgusto mi lampeggiò ben visibile in faccia. Era difficile riuscire a far la pokerface in certe situazioni. Strinsi la presa sulle decollete e pregai che fossero duecento bigliettoni ben spesi. «Ti do cinque secondi per lasciarmi... poi ci divertiremo a modo mio.»

Ed sghignazzò, girandosi per dar voce al fratello: «Sentito? Ha coraggio da vendere la tipa.»

«O forse è solo una matta svitata» suggerì Tony, che non aveva idea di quanto fosse più vicino lui alla realtà del fratello. «Senti, sbrighiamoci. Se me la tieni ferma faccio prima io visto che l'ho scelta.» Si slacciò la cintura e passò ai jeans, indaffarato.

Mi sarei aspettata una discussione su chi mi avrebbe stuprata per primo e invece Ed annuì e sulle labbra guizzò un sorrisetto cattivo. «E va bene, a te l'onore.» Quando però si voltò, la momentanea gioia che fino a quel momento aveva ostentato svanì dal suo viso, sostituita da un leggero tic facciale e un pallore preoccupante. Forse era cambiato qualcosa nella mia espressione perché per un istante parve spaesato, quasi ci avesse ripensato, quasi volesse mollarmi di scatto e batter in ritirata.

Mi passai la lingua sulle labbra, umettandole. E quando parlai fu piacevole veder quell'enorme omone di Ed rabbrividire. D'altronde sapevo l'effetto che faceva la voce di Scorpion Queen. «Cinque... quattro... tre...» Odiavo dovermi ripetere. Soprattutto con la feccia dell'umanità. Non meritavano un mio countdown ma almeno, dopo, la mia coscienza non avrebbe sofferto di alcun rimpianto. «due... uno.»

Vi siete mai domandati quanto male può fare un tacco dodici se colpisce un muscolo? No? Davvero? Probabilmente nemmeno Ed ma vi assicuro che non lo avrebbe più dimenticato.

Strinsi la presa sulla mia arma improvvisata e allo scoccare dell'ultimo secondo caricai il colpo e, come se le decollete fossero un martello, lo colpii nell'interno braccio con la punta del tacco, proprio nel punto in cui si univano bicipite e tricipite.

Ed lanciò un grido, mollandomi subito e indietreggiando.

La decollete mi cadde a terra, il tacco rotto. Dovevo aver usato un bel po' di forza per romperlo a quel modo. Bé, peggio per lui.

Tony si accorse che non stava andando secondo i piani solo quando sollevò gli occhi dalla zip dei jeans aperta. E trasalì non appena gli afferrai la cintura per la fibbia, tirando così forte da farla uscire dalle asole di scatto, con una velocità tale che lo schiocco riverberò l'aria.

«Aspett-» Ma non gli diedi tempo per contrattare. Non si contratta con chi dieci secondi prima si stava tirando fuori il cazzo per stuprarti in un sudicio bagno di una discoteca.

Usai la cintura come frusta. Un fendente dritto in faccia che lo sbalzò contro lo specchio accanto ai lavandini.

Fu così gratificante che la cattiva ragazza in me si chiese perché non lo facevamo così spesso.

Nel frattempo Ed mi afferrò per la vita, da dietro, sollevandomi da terra per togliermi stabilità. Cercò di bloccarmi le braccia ma le riuscii a piegare indietro, tastandogli il viso alla cieca.

Quando trovai le cavità degli occhi usai i pollici. Spinsi come se volessi cavarglieli dalle orbite e quando il dolore fu insopportabile fu costretto a lasciarmi.

Crollai a terra, in avanti, riuscendo ad attutire la caduta con le mani. 

Approfittai del suo panico e della sua momentanea cecità per affibiargli un calcio dritto nei gioielli di famiglia. «Questo è per esser sicura che tu non ti riproduca, stronzo.» Collassò a terra, probabilmente svenuto.

E il primo è andato!

«Puttana!» Tony mi afferrò per la gola con entrambe le mani. Rotolammo sul pavimento lurido del bagno, scalciando e dimenandoci come bestie che si stanno scannando per un tozzo di cibo.

Quando strinse la presa per un istante la vista mi sfarfallò e temetti di svenire.

«Adesso ti faccio vedere io chi hai osato colpire, puttana. Te lo faccio proprio vedere io, sì» gridava così forte che rivoli di bava gli schizzavano ai lati della bocca peggio di un cane idrofobo.

Una cosa su cui avevo lavorato molto con Lexie, durante i nostri allenamenti, era colpire sfruttando tutto; che alla fine era un po' la politica di ogni buon teppista che si rispetti.

Affondai le unghie nei suoi polsi stringendo più che potevo ma lui non mollò la presa.

«Credevi che ti avrei lasciato, eh? Ti sbagli di grosso» mi canzonò, con una risata di scherno. «Ti farò perdere i sensi e ti fotterò come una sgualdrina.»

Tossii, muovendo le gambe nel tentativo di liberarle da sotto il suo peso. Dovevo sbrigarmi o sarei davvero svenuta e a quel punto sarebbe stata la fine.

Facendo pressione a terra con le spalle mi spinsi abbastanza forte da darmi lo slancio per sollevare il capo e ne approfittai per dargli una testata.

Una bella, potente e shakerante testata.

E fanculo le buone maniere da signorina.

Fortuna vuole che lo colpii dritto al naso e un rumore poco rassicurante preannunciò la sua rottura con conseguente scoppio di sangue come un idrante che subito iniziò a colarmi sul collo e sul petto.

«Cazzo» biascicai.

Dovetti scrollarmelo di dosso usando la spinta delle ginocchia per evitare che il suo sangue mi colasse anche in bocca. Sapete com'è... non era ancora mia intenzione prendere malattie da sconosciuti.

Tony rotolò di lato, stringendosi il naso e gridando come se qualcuno lo stesse scuoiando.

«Fa male, eh? Fingerò che mi dispiaccia» ansimai, tenendomi lo sterno con le mani nel disperato tentativo di riprendere fiato.

Dovevo andarmene. Subito.

Stavo per rialzarmi da terra quando Tony grugnì qualcosa e afferrandomi per un braccio mi tirò verso di sé.

Forse sperava di farmi perdere l'equilibrio, scivolar a terra e potermi sovrastare; peccato che finii lunga su di lui e gli impiantai un gomito nelle costole. «Te la farò pag-» la frase gli morì in bocca mentre in un lampo di genio mi afferrava per i capelli, tirandomi indietro la testa.

Gli assestai un pugno.

E un altro. E un altro ancora.

Gli avrei spappolato la faccia se fosse stato necessario.

Mollò la presa sui capelli ma a quel punto mi sollevai sulle ginocchia, travolta da una furia improvvisa, e afferrandogli la testa con entrambe le mani gliela cominciai a sbattere sul pavimento. «Brutto. Stupratore. Del. Cazzo. Ti. Insegno. Io. A. Essere. Un. Vero. Uomo.» Un colpo a ogni parola.

Avevo quasi finito, Tony aveva perso i sensi mentre Ed era già K.O. da molto prima; quando la porta del bagno si aprì e temetti che sarebbero arrivati dei rinforzi o che, nella migliore delle ipotesi, avrei traumatizzato qualche giovane fanciulla venuta a rifarsi il trucco.

Non ero pronta a ricevere invece la visita del buttafuori, alto due metri e probabilmente largo altri due. Un armadio, in pratica.

Anzi, quando lo vidi mi parve pure strana quella intrusione. Insomma, non avevo fatto così tanto rumore... forse.

«Sì, bé... posso spiegare.» Lasciai ricadere la testa di Tony sul pavimento pentendomi di non esser stata più sbrigativa. Tutta la rabbia di Scorpion Queen sembrò ritirarsi a dormire.

Il bodyguard fissò prima me poi i due fratelli ormai K.O. e dopo aver lasciato schioccar la lingua sul palato si passò una mano sulla testa calva. Avete mai notato che i bodyguard son sempre calvi? Probabilmente quando diventi l'arma letale di un locale perdi automaticamente i capelli, così nessuno potrà strapparteli in una lotta. Aveva senso. «Porca puttana, ragazzi... porca puttana» biascicò. «voi volete farmi licenziare, eh? Diamine!» scavalcò Ed, guardandolo con la coda dell'occhio; e venne verso di me.

«Sono entrambi vivi... ed è stata legittima difesa. Hanno tentato di stuprarmi, ho solo... reagito.» Non so perché sentii il bisogno di giustificarmi, era tutto abbastanza palese; ma lo feci comunque.

Li conosce.

«Tony, ehi! Amico...» La guardia gli diede qualche colpetto con la punta della scarpa e quando il tipo si mosse tirò un sospiro di sollievo. «Brutto figlio di puttana, fanculo!, cazzo.» Non sembrava interessato a me o ai miei possibili traumi fisici e psicologici ma solo alla possibilità che nessuno crepasse durante il suo turno. Aiutò Tony a mettersi seduto. «Che casino, ragazzi. Che casino questa volta» continuava a ripetere, scuotendo la testa.

Quindi erano amici? Era un complice? Partecipava ai loro stupri di gruppo?

Strisciai indietro, ancora carponi, decisa ad alzarmi e andarmene o affrontarlo. Ero convinta che mi avrebbe ignorato, visto il totale interesse per gli amici; quando comunicò sbrigativamente qualcosa in un'altra lingua alla sua radiolina e, afferrandomi per un braccio, mi alzò da terra. «Muoviti.»

«E - ehi! Mi fai male» berciai, mentre strattonando mi trascinava fuori dal bagno, lungo il bordo pista, verso l'uscita. «Ehi! Ehi, aspetta!» strinsi la tracolla in catena della pochette, unica cosa che ero riuscita ad afferrare prima di esser sbalzata nella mischia del locale.

Mi sta sbattendo fuori?

A me? Assurdo.

Non avevo fatto niente. Mi ero solo difesa. Avrebbe dovuto prendere le generalità di quei due stronzi, chiamare la polizia. E allora perché mi stava liquidando così?

Guardai attorno alla ricerca dei ragazzi, quantomeno per avvisarli. Solo che il bodyguard sembrava aver parecchia fretta.

«Posso riprendere almeno le mie fottutissime scarpe?» gridai, cercando di sovrastare il fragore della musica. «Costano duecento dollari quelle decollete del demonio.» Ma non sentì ragioni. O forse non mi sentì affatto.

Fui spinta fuori dal locale, scalza, sporca di sangue non mio, senza la mia giacca che era ancora nel guardaroba, pompata di adrenalina post rissa e infreddolita.

«Sparisci da qui, stronzetta... e prega che i Wash dimentichino la tua faccia.» Prima avevano tentato di stuprarmi e ora il bodyguard del locale mi stava minacciando... bella serata del cazzo, insomma.

Avrei dovuto lasciar perdere, forse.

Avrei dovuto prendere il mio orgoglio, il mio senso del dovere, il mio odio verso certi soggetti inqualificabili e ficcare tutto in quella dannata e microscopica borsetta; poi andare a fanculo lontano da lì.

Ma no, ovvio che no, non era da me.

Robin O'Neil non era quel tipo di persona che dava le spalle alle ingiustizie. Soprattutto di questo tipo.

Trafficai nella borsetta, estraendo il cellulare. «Cosa ne dici se invece prendo questo e chiamo la polizia denunciando sia loro che te, eh?» Lo sventolai, sbloccando lo schermo. Il fascio di luce illuminò l'espressione furiosa della guardia. «Aggressione, addescamento, tentato stupro e tu, verrai accusato di complicità. Non credo manterrai il lavoro, mi spiace...»

Prima che riuscissi a comporre il numero mi afferrò per il braccio, strizzandomi il muscolo del bicipite con una sola mano.

«Stai giocando con il fuoco.»

«Sono abituata a fuochi ben peggiori...» Mi cercai di liberare ma lui aumentò la pressione della stretta. «anzi, forse è meglio se mi lasci, Mastro Lindo.»

Lui rise e allungò la mano libera. «Dammi quel cellulare. Forza!»

«Credi che a casa non ne abbia un altro per far la stessa chiamata? Lasciami.» Solo che il bestione non sembrava sentir ragioni. I miei pensieri andarono a quell'unica decollete sana ancora dispersa nel bagno: cavolo!, in quel momento mi sarebbe tornata utile. «Ti ho detto di lasciarmi, cazzo

«Altrimenti? Ti metterai a gridare?»

«No, affatto. Conterò fino a cinque.» La storia del cinque iniziava a piacermi. Mi ripuliva la coscienza da possibili rimpianti. Insomma, io una possibilità la davo, no?

Lui rise. Io meno. «Avanti, non essere sciocca. Hai avuto fortuna con quei palloni gonfiati dei Wash ma il mio lavoro consiste proprio nel sedare risse. Credi di potermi fare male? Guardati! Sei minuscola.» Come a voler dare dimostrazione della sua forza mi strinse il braccio sino a strapparmi un gemito. «È davvero così che vuoi risolvere la cosa? Rendi tutto più difficile»

«Infatti! Perché rendi tutto così difficile, ragazzina, eh?» domandò scortesemente qualcuno alle mie spalle. «E tu, invece, cosa non capisci del fatto che ti ha detto di lasciarla?» 

Trasalii e la pelle mi si accapponò come quando c'è un improvviso cambio di temperatura. Un brivido mi colò a picco lungo la schiena e non ci fu bisogno nemmeno che mi voltassi. Sapevo a chi apparteneva quella voce. L'avrei riconosciuta tra mille, anche camuffata dalla bandana proprio come era in quel momento.

Il bodyguard s'irrigidì sul posto e mi lasciò il braccio di scatto. Sul viso un'espressione spaventata e timorosa. Nei suoi occhi si leggeva sgomento e anche un pizzico di ammirazione. Il bastardo aveva paura. Ma d'altronde faceva questo effetto Lattner, nei suoi panni da cattivo. «Re dei Teschi» disse, in un soffio, chinando il capo con rispetto.

«Già. Io.»

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