34. Vittima o carnefice

Mi guardai attorno smarrita. Il buio incombeva su di me con prepotenza e tingeva i miei pensieri di toni altrettanto scuri. I giardini del castello non erano mai stati tanto deserti e tetri ai miei occhi, ma quello sguardo che ci rivolgevo non era più quello di una bambina, ma di una donna.

Sapevo di dover tornare dentro per salvare Killian e Regina; era ciò che avrebbe fatto una persona coraggiosa, ma io continuavo a pensare che tra tutte le mie qualità lo spirito di avventura fosse proprio venuto a mancare. Per compensare avevo un gran cuore e avrei lasciato che fosse lui a guidarmi.

Strinsi i pugni, graffiandomi i palmi con le unghie, fino a sentire il dolore e di conseguenza una scarica di adrenalina.

Ricordavo di aver visto una spada nella cripta di David e, nonostante non ero certa di essere una grande guerriera, sperai che la forza di volontà bastasse.

Cercai il coraggio in quella notte scura. Mi sedetti a terra, era abbastanza buio per evitare che le sentinelle mi notassero e stavolta pensai a Jacqueline e ai suoi: "Non sei così male con la spada".

Ingoiai della saliva per prendere coraggio e feci un respiro profondo, prima di tornare dentro. Mi chiusi la porticina alle spalle, con quel gesto gettai la mia possibilità di una vita libera e tornai su per la scalinata di quegli stretti e scomodi corridoi. Lasciai che il cuore mi guidasse fino alla cripta.

Giunta a destinazione, afferrai la spada e la strinsi tra le dita, per osservarla. Ero inesperta e scoordinata, per quanto mia zia avesse tentato di rassicurarmi ero consapevole che con poco più di due settimane d'allenamento non sarei mai stata capace di sferrare i colpi giusti. Forse il mio amore per Killian mi stava trascinando verso la morte.

Non impiegai molto tempo per arrivare nelle segrete senza incappare in nessun ostacolo, tramite i cunicoli stretti e inesplorati dei corridoi secondari.

Il cuore mi batteva forte per la paura, ma affrontarla era la mia priorità assoluta. Ripetevo dentro di me che lo stavo facendo per una buona causa e, nonostante il mio corpo volesse respingere quegli istinti, mi ci lanciai a capofitto.

Potevo vedere le sbarre dietro cui era chiusa di Regina, era a circa cinquanta passi e subito di fronte ricordavo ci fosse la prigione di Killian. Mi morsi il labbro, convinta che il dolore avrebbe calmato l'ansia.

Sentii una voce fischiettare e il rumore metallico delle chiavi accompagnava quelli che immaginai essere i movimenti di una guardia. Prima un piede, poi l'altro, si muoveva in tondo.

Ingoiai della saliva e strinsi forte la spada, cercando di non farmi sopraffare dalla paura, pensando all'amore.

Per fortuna le mie scarpe erano rovinate e non fecero alcun rumore, mentre camminavo per quei corridoi irregolari, simili a una grotta, solamente poco più illuminati.

La guardia riuscì a scorgere il mio viso, solamente quando ormai ero a pochi passi da Regina.

Il soldato si guardò attorno confuso, probabile non capisse perché fossi lì. In quel momento, per pochi istanti, lo dimenticai anche io. Il panico mi avvolse, quando smisi di pensare all'amore.

Feci due passi indietro, quasi tentando di svanire nell'ombra, ma ormai era impossibile evitare lo scontro.

Con calma mi venne incontro e io abbassai la testa per camuffare la paura. Vidi gli occhi tristi di Regina rivolti verso di me e provai vergogna per me e per il mio comportamento. Non ero affatto una leader.

Sottrarmi da quello sguardo non era come nascondersi dal mostro sotto il letto, non potevo scomparire sotto le coperte.

"Chi siete? Cosa fate qui?" domandò con rigidità la guardia. Era un essere freddo e distaccato, più simile a una statua che a un uomo.

Alzai il capo, fingendo di non avere paura. Mi feci forza pensando a come si sarebbe comportata una leader e feci un sorriso sghembo.

"Sono Emma, la figlia illegittima della regina."

Era la prima volta che dicevo ad alta voce di non essere una principessa a tutti gli effetti. Ammisi a me stessa che quell'appellativo, per quanto dispregiativo, non mi dispiacesse. Era quasi piacevole non dover negare chi fossi in realtà.

Senza perdere tempo gli sfoderai davanti l'arma, che tremò assieme al mio polso, e lui quasi rise per il mio sciocco tentativo di mostrare coraggio.

Nel mentre sentivo ovattate le voci di Killian e di regina, urlavano il mio nome e questo mi fece sentire bene. Non sarei tornata indietro, avrei lottato.

Il cavaliere nero si spogliò dell'elmo che gli nascondeva il viso e provai un brivido osservando il suo sorriso malsano giudicarmi, quasi pretendendo che mi arrendessi. I suoi capelli scompigliati gli davano un'aria meno seria, ma il solo fatto che avesse deciso di permettere che lo guardassi negli occhi mi fece tremare.

La sua arma era puntata sul mio corpo, decisamente più vicina rispetto alla mia sul suo.

I miei respiri si fecero corti e le mie labbra si schiusero, così da permettere ai miei polmoni di ricevere più aria. La paura mi si leggeva sul volto bianchiccio, sulle mani tremanti e sulla punta della mia spada, incurvata verso il basso quasi in segno di resa. La mia arma tremò, finché non abbassai lo sguardo e vidi gli occhi scuri di lei credere in me.

"Vuoi giocare, ragazzina? Allora giochiamo." Rise, rise tanto. Con astio e cattiverai, beffandosi di me e di quel briciolo di coraggio, o di senso del dovere, che ancora non mi aveva completamente abbandonata.

Altri due passi indietro. Per Regina divenne difficile osservare i miei movimenti, ero già troppo distante. Lui rimase fermo.

Ingoiai altra saliva e mi si formò un groppo in gola. La necessità di sciogliermi e di essere libera prese il sopravvento.

Ennesimo respiro profondo e osservai la mia spada: un'arma di media fattura, pesate, ma non troppo... Adatta per ciò che avrei dovuto fare e così, presa dall'ottimismo, lo feci.

Sferrai un colpo che venne parato senza il minimo accenno da parte del mio avversario.

Secondo tiro, stavolta sfiorai l'aria. Il nemico si era distanziato quel tanto che bastasse da destabilizzarmi.

Eravamo tornati al punto di partenza, davanti la gabbia di Regina.

Colpii ancora, tra schivate e parate mi ritrovai con il fiato corto, mentre quella macchina da guerra non accennava alla stanchezza.

Sentivo Killian sussultare ogni volta che le lame delle spade si sfioravano, quasi lo immaginai pronunciare una silenziosa preghiera, mentre con occhi sgranati, iniettati di sangue, osservava e attendeva un ribalto della medaglia.

Non avrei mai potuto vincere.

La guardia tirò l'arma indietro, pronto a sferrare il colpo decisivo, quello che mi avrebbe fatto rimpiangere la decisione di non essere fuggita da sola. Sentii la spada sfiorare l'aria, tagliarla quasi, e mi accovacciai al terreno, intenta a schivarla, per quanto potesse farlo un corpo inerme e paralizzato come il mio.

Chiusi gli occhi e sentii un tonfo. Mi chiesi se fosse il rumore della spada che trafiggeva il mio cranio, ma alzai la testa e vidi la guardia a terra.

Mi misi in piedi sorridendo, esultando la vittoria. Regina dalla cella aveva tirato quell'uomo dalla caviglia e si era ritrovato a terra, ma ancora non era finita. Non si sarebbe fermato così facilmente, quello non era un uomo, ma una macchina.

"Adesso, Emma" urlò la mia amica mora.

"Vai, Emma, devi ucciderlo!" Sentii anche la voce di Killian.

Pochi secondi, pochi attimi che parvero sospesi nel tempo. Una vita per una vita, questa era la guerra.

Non persi tempo a cercare il coraggio, seguii semplicemente l'istinto che mi chiedeva di sopravvivere.

La punta della mia arma si conficcò nel suo corpo a terra, spinsi con forza, notando fiotti di sangue sgorgare dal suo petto, come fosse una spugna appena strizzata e un ultimo respiro gli morì in gola. Spinsi ancora, altro sangue sfociò dalla sue labbra e un'espressione di dolore gli si disegnò sul volto. Gli occhi sgranati rimasero tali, li osservai, attendendo che le palpebre iniziassero a sbattere. Non accadde nulla.

Immediatamente lasciai l'arma scivolare via dalle mani, che tintinnò sul pavimento. Alcuni schizzi di quel sangue mi erano finiti sul volto e quando mi passai una mano sulla guancia si incollò alle mie dita.

Mi voltai verso Killian, era evidente che fosse felice della mia vittoria, ma io non riuscii a dire niente. Ero sconvolta; ferma, paralizzata dalla visione di tutto quel rosso vivo.

Alcuni avrebbero potuto dire che quell'omicidio fosse il mio primo passo verso la libertà, altri avrebbero detto che avessi bisogno di un divertente modo per sfogare la mia rabbia. Ma io non provavo niente del genere. Da quel giorno non vidi più il nero come il colore della morte, ma il rosso. Il rosso intenso e acceso che non smetteva di scivolare via da quel corpo senza vita.

"Ho ucciso un uomo" dissi.

Ero diventata ufficialmente un'assassina e Killian, chiuso ancora in quella gabbia, sembrò quasi udire tutti i miei pensieri, perché la sua espressione mutò e la compassione che non aveva mai provato si manifestò nel suo sguardo.

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