1. L'erede al trono
Il confine tra la vita e la morte è più sottile di quanto sembri.
Nel giro di poco tempo mi ero ritrovata a dire addio a una persona per dare il benvenuto a un'altra.
Ero una bambina, non potevo ancora capire veramente ciò che stava accadendo. Non capivo le persone che mi chiedevano: "Emma, come stai?" o le numerose lacrime gettate dai pochi visitatori passati quei giorni.
Avevo solo sette anni e a quell'età pensavo a pettinare i capelli alle mie bambole di pezza o a chiedere ai domestici due biscotti al cioccolato anziché uno.
Il nastrino azzurro pendeva dalla culla, poggiata proprio nel centro della grande sala comune il cui pavimento in mattoni era stato reso più vivace da un tappeto rosso come il sangue che giungeva fin sotto alle ampie finestre, accanto erano stati appesi affreschi e quadri, dove erano dipinti i volti dei più grandi re e cavalieri.
Dietro il lettino per neonati mi nascondevo imbarazzata, facendo capolino e provando a non far impigliare i miei capelli biondi, legati da un fiocco rosa, alla culla.
Ero ancora troppo bassa per riuscire a guardare all'interno senza mettermi sulle punte, ma, con un po' di difficoltà, stringendo le mani al bordo per non perdere l'equilibrio, mi affacciai.
Un infante paffuto, con pochi capelli dello stesso colore di quelli di mio padre, dormiva beato dentro essa, con indosso solo un panno bianco a coprirlo dalle spalle in giù. Era talmente tranquillo, con le labbra schiuse e le guance rosse, da non sembrare reale.
Mi ricordava una delle mie bambole, così piccolo, con quegli occhi semichiusi che fingevano di non sentire tutta quella confusione, da farmi desiderare di essere altrettanto pura e innocente. Io, al contrario di lui, ero abbastanza grande per comprendere il significato di quella festa, così seria e priva di musica, come un'importante riunione di stato. Erano tutti lì per lui: conti, principesse, dame e addirittura cavalieri, vestiti con le loro scintillanti armature in acciaio.
Ognuno di loro aveva atteso con ansia quella giornata, solo per conoscere il nome del principe.
Il re, mio padre, aveva finalmente abbandonato le chiacchiere con un paio di uomini ben vestiti e si stava avvicinando lentamente a me, o forse alla culla. Il suo viso pallido era duro come sempre, incorniciato da una barba folta che gli dava un'aria ancora più autoritaria. Mai una volta che tirava un sorriso, nemmeno per sbaglio.
Prese in braccio il piccolino ancora dormiente, ignorandomi come fossi invisibile, e si rivolse alla baraonda di gente che lo osservava con espressioni miste tra il curioso e l'annoiato.
"Popolo, è un onore presentare a voi tutti l'erede al trono, il mio primo figlio maschio: Neal."
La sua voce arrivò come un rimbombo alle mie orecchie. Il bambino iniziò a piangere a causa della confusione e io, frastornata, mi allontanai dalla culla ormai vuota.
La folla acclamava il neonato, il principe Neal, futuro re. Forse ero invidiosa, anzi, sicuramente lo ero, di tutti quegli invitati nessuno si era degnato di venire da me per salutarmi. Ogni sorriso o sguardo era rivolto solo a quel nanerottolo piangente, e questo mi faceva diventare il cuore duro come un sasso.
Camminavo il più velocemente possibile, decisa ad andarmene da quella festa, ma le ballerine e il vestito pomposo, rigorosamente rosa pesco, non me lo permettevano. Finii per cadere a terra, con il naso contro un paio di stivaletti neri tirati a lucido per l'occasione.
"Ehi, stai attento a dove vai!" esclamai leggermente alterata. Non era decisamente la mia giornata.
"Fino a prova contraria sei tu a esser venuta addosso a me" rispose l'ometto, passandosi una mano fra i capelli scuri.
Mi alzai in piedi, facendo una smorfia a quel ragazzino vispo e impertinente. Avrei riconosciuto la sua voce ovunque. Vuota, strafottente e piena di astio. Il figlio del sarto.
L'avevo già visto più volte, in occasione di feste in cui lui si intratteneva aiutando il padre con le consegne. Raramente mi aveva rivolto la parola, come in occasione della festa di primavera.
Mentre suo padre si impegnava a cucire l'abito della mia mamma, io osservavo con attenzione, speranzosa che il mio vestito venisse bello come il suo. Lui si era avvicinato a me per chiedermi se avessi già un accompagnatore per quel ballo. Non dimenticherò mai lo sguardo che gli rivolsi, altezzoso e privo di tatto, prima di rispondergli con superiorità: "Se volessi un accompagnatore non saresti tu."
In fondo eravamo bambini, incapaci di esprimersi con il proprio carattere, e mostravamo esattamente ciò che ci era stato insegnato.
Io da principessa sentivo il peso del mondo sulle spalle. Dovevo tenere la pancia in dentro e la schiena dritta, stando sempre attenta che i miei vestiti fossero puliti e stirati a dovere. A quell'età sognavo di conoscere un principe bellissimo che mi avrebbe portata in giro per il mondo in groppa a un cavallo bianco.
Dopo quel fugace ricordo mi poggiai le mani sui fianchi e dissi aspra: "Killian Jones... Non sapevo che fossero invitati anche i plebei."
Lui fece una risata delle sue, strafottente e provocatoria. "L'invito era per tutti, cara principessina viziata."
Sospirai profondamente e mi passai una mano sul vestito che si era leggermente sgualcito. Subito gli rivolsi un'occhiata fulminea, a fargli intendere che ero caduta per colpa sua.
"Allora, la prossima volta, chiederò di non invitare te e tuo padre" affermai fredda, voltandomi dal lato opposto, intenta a ignorarlo.
Ero arrabbiata, molto, era importante per me che il mio abito fosse perfetto e per colpa sua non lo era più.
Killian poggiò una mano sulla mia spalla per farmi girare nuovamente verso di lui e si permise di avvicinarsi al mio orecchio, sussurrando: "Sempre che il re sia veramente tuo padre" con una voce subdola, da mettere i brividi.
Come scottata dalle sue parole scappai nuovamente, stavolta cercando di fare attenzione a non inciampare nell'abito. Correndo per i grandi corridoi del palazzo, infiniti come labirinti, decorati solamente da stendardi e poche finestre di piccole dimensioni.
Quel ragazzino era strano, i suoi occhi erano di ghiaccio e la sua voce così fredda, per un bambino di soli otto anni.
Era evidente avesse avuto un'infanzia diversa dalla mia. Non passava il fine settimana a scegliere gli abiti più pregiati, non faceva lezioni di violino, né di equitazione nei giorni pari e probabilmente nessuno gli aveva mai insegnato l'alfabeto.
Immaginai che Killian soffrisse e dimenticai la sua ultima frase, perdendomi nella consapevolezza che fosse arrabbiato almeno quanto me e voleva solo darmi un po' del suo dolore. Io avevo diligentemente rifiutato, andando avanti e ignorando ogni sospetto che potesse avere ragione.
Quella notte mi addormentai da sola, come quella seguente, senza ricevere la buonanotte da mia madre, né il suo solito bacio sulla fronte prima di chiudere la porta della cameretta. Mia madre non venne più neanche a svegliarmi la mattina o alle lezioni d'equitazione il pomeriggio. Mia madre non c'era più.
*** N/A ***
Okay, questa mattina mi sono svegliata e ho pensato che fosse il momento giusto per iniziare a pubblicare questa nuova storia. La potrei definire il mio progetto per quest'estate, visto che sono intenzionata a finirla prima di settembre.
In ogni caso spero vi piaccia, più avanti potrete rendervi conto di quanto sia faticoso per me mandare avanti questa trama così diversa da ciò che scrivo di solito, ma devo ammettere che mi fa impazzire!
Mi immergo sempre in nuove avventure ed esperienze di crescita, comprendendo sempre più che ogni piccolo lavoro mi cambia e mi migliora e questa volta non è da meno.
Commentate per dirmi cosa vi piace, cosa vi aspettavate e cosa avreste preferito vedere in questo primo capitolo, è importante per me sapere cosa pensate di questa fanfiction.
Buon proseguimento e a presto,
vostra Euph.
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