"Scusa se come psicologo faccio cosi tanto schifo"
Ci vuole un po' prima che mi alzi da terra. Non so quanto tempo sia passato da quando ho rischiato di avere un incontro avvicinato con un treno, ma Carter mi culla contro al suo petto come se non gli importasse di nulla e io ne approfitto per calmare i battiti del mio cuore che sono come impazziti.
Forse rimaniamo così per minuti, magari anche ore ma quando cominciamo a camminare verso la Porsche, con le gambe e i piedi intorpiditi, io mi sento meglio.
Non ci sono più contatti tra me e Carter ma credo che vada bene così.
Arriviamo alla macchina quando ormai è buio e non so che ore siano ma mi poggio allo sportello del passeggero mentre Carter mette la benzina.
Partiamo velocemente verso l'Arizona e a parte qualche chiacchierata sul perché gli dei ce l'abbiano con me, in macchina c'è silenzio per la maggior parte del viaggio.
È tardi e l'orologio dell'auto segna l'una. Carter è stanco quasi quanto me ma so che devo tenergli compagnia e, se devo essere sincera, mi piace parlare con lui.
- Non lo fare mai più - mi volto verso di lui con la fronte corrugata, cercando di capire dove voglia arrivare, - non mi fare spaventare più come hai fatto oggi perché ho seriamente pensato di perdere dieci anni di vita.
Rido, per quanto sia strano, rendendomi conto che era ormai da molte ore che non sorridevo, semplicemente. - Mi dispiace.. non so cosa mi sia preso a dire la verità.
Carter sta zitto per un attimo prima di decidersi a rispondermi, - ti stavi arrendendo, principessa - e non so per quale motivo le parole "arrendersi" e "principessa" nella stessa frase mi danno fastidio. Mi fanno sentire come una piccola bisognosa d'aiuto e odio sentirmi così.
- Non sono una principessa - dico allora e Carter sorride malandrino lanciandomi un'occhiata di sottecchi e tornando poi a guardare la strada.
- Per me lo sei.
- Ti sbagli, allora - e mi rendo conto solo dopo che l'ho detto quasi ringhiando.
Carter frena di colpo in mezzo all'autostrada deserta e stringe i pugni talmente tanto forte che le nocche, alla luci interne della macchina, sbiancano.
Si volta verso di me e capisco dal suo sguardo che sarà questione di secondi prima di iniziare a litigare.
Non mi va, non ho abbastanza forze per litigare anche con lui. L'unica cosa che voglio fare è dormire ovunque, anche sull'asfalto ma voglio dormire.
Lui però non sembra capirlo e ciò non fa che dimostrare la mia teoria secondo la quale i ragazzi siano realmente delle emertite teste di cazzo.
- Sei la classica semidea alla quale è andato tutto bene nella vita. Ecco perché sei una principessa - sibila quasi e mi porto una mano al ciondolo che sta iniziando a bruciare sulla lana scura del maglione.
- E tu che diavolo ne sai? - ringhio assottigliando lo sguardo e il fatto che Carter adesso stia ridendo sarcasticamente mi fa venire voglia di spaccargli quel bel nasino con un pugno.
Corrugo la fronte, forse mio padre ha seriamente sbagliato a riconoscermi perché pensieri omicidi non possono essere propri di una figlia di Poseidone.
- Ma andiamo, Ariel! Ti sei vista, di recente? Sei la una figlia di Poseidone! - e sussulto perché dice il nome di mio padre come se fosse una malattia, - lui è uno dei più affezionati ai propri figli e probabilmente, tua madre ti aspetta a casa con i regali di Natale!
Adesso è il mio turno di ridere per nascondere quanto le sue parole mi abbiano realmente ferito. Non riesco a capire perché si stia comportando così, perché mi stia trattando male quando, con l'abbraccio che mi ha dato oggi pensavo che avessimo seppellito l'ascia di guerra.
Ogni sua parola è una sfilettata e sbatto le palpebre un paio di volte per scacciare le lacrime che minacciano di rigarmi le guance.
- Vai al Tartaro, Carter - mi limito a dire perché non ho la forza di discutere, tanto meno con lui.
Scendo dalla macchina sbattendo la portiera con tutta la rabbia e il nervosismo che ho accumulato in questi giorni e incrocio le braccia sotto al seno facendo un paio di passi lontano da Carter che, a quanto pare, oltre che essere stronzo è anche recidivo.
- Che fai, scappi? - grida e mi volto di scatto verso di lui, lasciando che i miei capelli sferzino l'aria, taglienti quasi quanto le parole che minacciano di sgorgarmi dalle labbra come un fiume in piena. - Sei codarda, Ariel Miller. Codarda!
E adesso basta.
La rabbia mi monta nel petto, potente, e il ciondolo brucia ma prendere Onda non mi darebbe la stessa soddisfazione di batterlo a pugni.
Lo odio, lo odio più che mai perché lui non sa nulla e perché lui non sa quanto ho dovuto combattere o perché, ho dovuto combattere nella mia vita.
Posso essere tutto, ma non codarda ed è la consapevolezza di quanto le sue parole mi facciano male che mi spinge a camminare velocemente verso di lui. Carico il pugno e lo colpisco alla mascella con una velocità che non pensavo neanche di avere.
Mi faccio male alle nocche ma il suo gemito di dolore e il modo in cui gli scatta la testa verso sinistra è il miglior prezzo.
- Non sai nulla! Stai zitto, Carter, perché non sai nulla! - gli tiro un altro pugno al petto e mi sorprende un po' il fatto che lui, nonostante si possa difendere, continui a tenere le braccia lungo i fianchi. - Tu non sai tutto quello che ho dovuto passare o quanto mi sia toccato lottare anche solo per essere qui adesso! Tu non sai nulla! - e grido, tanto che mi fa male la gola prima di tirargli un altro pugno alla mascella.
Sto per caricare il braccio ancora ma lui mi blocca per i polsi e solo quando parla mi rendo conto di quanto realmente i nostri visi siano vicini. Le lacrime mi corrono lungo le guance e io me ne accorgo troppo tardi perché possa fermarle.
Alla luce dei fari, scruto gli occhi scuri e colpevoli di Carter ma, in quelle pozze profonde, vedo anche una scintilla che non ho ancora imparato a riconoscere.
- Allora raccontami - sussurra lasciando che il suo respiro si fonda col mio, - non tenerti tutto questo disastro dentro, ma raccontami cosa ti è successo.
Ed è solo adesso che riesco a capire la scintilla nel suo sguardo o il perché mi abbia trattato così male fino a farmi sbottare o fino a rendermi abbastanza vulnerabile da farmi aprire con lui.
Prendo un respiro, cerco di farlo e le ginocchia tremano. Ho paura di cadere ma la presa di Carter attorno ai miei polsi è fin troppo salda.
- Io non.. io - e ringhio perché vorrei parlare, vorrei raccontare a qualcuno la mia vita ma non ci riesco. Le parole che prima volevano sgorgare dalle mie labbra come un fiume in piena sembrano svanite. La loro forza sembra avermi abbandonato e scuoto la testa serrando forte le palpebre per lasciar scivolare altre lacrime lungo le guance.
Le mani di Carter mi sollevano delicatamente il viso e i miei occhi si perdono nelle sue pozze scure, - fidati di me. Almeno per una volta, al di fuori della battaglia.
E sono senza dubbio gli occhi che mi spingono a parlare, che mi spingono a liberarmi del peso che porto nel cuore da ormai due anni per la prima volta.
Sono i suoi occhi che mi spingono a raccontargli di quando, a nove anni, mamma si era ammalata di leucemia e noi non avevamo abbastanza soldi per le cure.
Sono i suoi occhi che mi spingono a confessargli le gite al Bronx la notte, quando mamma era ricoverata e quando zia Mary iniziava già a fregarsene di noi due.
Sono i suoi occhi che mi spingono a raccontargli dei locali dove andavo a dieci anni per racimolare quei 1200 al mese che garantivano le cure di mamma e una sua possibile guarigione.
Sono i suoi occhi che mi spingono a confessargli di quando erano quarantenni a scegliermi e di quei quattro anni che ho cercato inutilmente di dimenticare, rendendomi conto troppo tardi che, così facendo, avrei dimenticato anche mamma.
I suoi occhi mi spingono a raccontargli dei suoi sorrisi. Di quelli mozzafiato che regalava, senza volerlo, a tutti. Di quella risata che riusciva sempre a far ridere anche me. Di quegli occhi scuri che riuscivano comunque a farti vedere il mare e di quella voce che adesso non ricordo più.
Gli racconto dei nostri abbracci, dei balli improvvisati nella nostra cucina dentro l'appartamento troppo piccolo anche per due.
Gli racconto delle pizze ordinate all'ultimo, delle cuffiette per coprire la cute calva e dei capelli scuri che stavano ricrescendo intanto che la cura stava andando bene.
Gli racconto di quando, ai tredici anni, lei si era insospettita. Aveva parlato con zia Mary e lei, stupida donna, le aveva detto di non aver pagato mai un giorno di cure all'ospedale e allora:"Ariel Miller, da dove diavolo vengono tutti questi soldi?".
Gli racconto di quando, anche i soldi che avevamo da parte erano finiti e noi, le cure, non ce l'eravamo più potute permettere.
Gli racconto della pelle che stava tornando pallida, delle forze che mancavano ma gli racconto anche di quei sorrisi che, sul volto tirato, non mancavano mai. Gli racconto della pizza fredda e che arrivava sempre in ritardo, della tv via cavo che prendeva male e degli ultimi abbracci privi di forza ma che, comunque, erano stati i più belli della nostra vita.
Gli racconto del:"dai, Ariel portami a Montauk. Voglio vedere il mare".
Gli racconto di quella sera del venti gennaio, di quando a New York sembrava stesse piangendo perfino il cielo e di quanto, sdraiate sul suo letto, noi abbiamo parlato per l'ultima volta:"tu sei forte, bambina mia e ce la devi fare. Tu sei forte, molto più forte di me e ricordati che devi lottare. Devi lottare e devi combattere per ciò che vuoi essere e per chi ami. Tu sei e sarai sempre una guerriera, bambina mia". Gli racconto di come mi avesse accarezzato il viso, ignorando le lacrime che lei, stoicamente, non stava versando, "tu sei una guerriera e sei anche una principessa. Non dimenticartelo mai, promettimelo".
Gli racconto del mio "promesso" detto tra le lacrime, esattamente come adesso. Gli racconto di come mi ero accasciata su di lei, desiderando che fosse solo addormentata ma -cavolo- il suo cuore non batteva più.
Gli racconto tutto perché i suoi occhi, il suo viso, le sue mani mi spingono a farlo con una delicatezza che nessuno, tranne lei, ha mai avuto nei miei confronti.
Gli racconto tutto e, adesso, mi va bene che mi abbia urlato contro e che mi abbia anche dato la codarda perché questo mi ha spinto a parlare e solo adesso che l'ho fatto, mi rendo conto di quanto, in questi anni, ne avessi realmente avuto bisogno.
- Visto? - Carter sorride, tenendomi il volto tra le mani, - avevo ragione a chiamarti pricipessa - mi concedo una risata ma poi le gambe cedono e lui non fa nulla per trattenermi. Cade con me sulla neve che ricopre il ciglio della strada e per la secondo volta in quella giornata, mi stringe contro il suo petto.
Le sue braccia forti mi circondano la schiena e anche se mi fa un po' male, mi va bene così. Ho bisogno che lui mi faccia del male per distrarmi dal dolore psicologico.
- Mi dispiace, principessa - sussurra con le labbra attaccate alla mia fronte e annuisco un paio di volte perché ho capito e perché non c'è bisogno di spiegare. Lui scuote la testa e affonda le mani tra i miei capelli mossi, lasciando che le labbra mi sfiorino la pelle, - non volevo trattarti male e non penso quello che ti ho detto. Volevo farti parlare - a questo punto mi bacia la fronte e ci vuole un po' prima che parli dentro la bolla d'universo che, inginocchiati sulla neve, siamo riusciti a crearci, - sei forte, principessa e scusa se come psicologo faccio così tanto schifo ma sono pur sempre un figlio di Ares.
Mi concedo una risata asciugandomi le lacrime e Carter mi sorride, dandomi un altro bacio sulla fronte che un po' mi sorprende. Lo guardo e stringo un po' di neve nel palmo della mano destra nella speranza che lui rimanga a guardarmi, chiuso nel nostro piccolo mondo e illuminato dai fari della Porsche. Porto velocemente il palmo sulla sua testa e libero la neve sui suoi capelli alzandomi di scatto e ridendo quando lui esclama indignato, scrollando il capo per togliersi la neve da sopra.
- Sei pessimo come psicologo, sappilo! - esclamo con un sorriso e lui mi guarda malandrino inchinandosi e compattando la neve tra i palmi.
- Vuoi la guerra, novellina? - e rido buttando la testa all'indietro, pensando solo dopo che questo è un gravissimo errore. Quando rialzo il capo di scatto, la palla di neve che mi arriva in faccia è talmente forte, sorpredente e fredda che barcollo di due passi all'indietro e Carter ride, ride tantissimo piegandosi e tenendosi lo stomaco con due mani. Arriccia la radice del naso e la risata acuta riempie il silenzio, smorzato dal leggero borbottio dell'auto.
Sputacchio neve nascondendo un sorriso e mi inchino velocemente per ripagarlo della stessa moneta pochi istanti dopo.
- Inizia a correre! - minaccia divertito e urlo prima di arrancare sulla neve nella speranza di non venir acchiappata. Scivolo due volte, rischiando di fare un frontale con l'asfalto e sento Carter ridere dietro di me prima che un lampo di genio mi ricordi di avere il berretto di Annabeth. Me lo calo sulla testa e Carter impreca un paio di volte, intimandomi di uscire allo scoperto.
Mi rannicchio dietro la macchina ancora invisibile, nella speranza di prendere fiato e non bado ai tonfi che sento. Mi tolgo il berretto e un istante dopo, realizzo che quei tonfi era Carter che scivola sul cofano con un sorriso da bambino, barcollando appena mette piede sulla neve per poi bloccarsi davanti a me.
- Tu sei pazzo! - esclamo mettendomi una mano sul cuore per lo spavento e lui ride, recuperando la neve da terra e lanciadomela sulla testa.
Protesto scattando in piedi e sono nuovamente pronta a correre se Carter non mi bloccasse prima per un polso, sbattendomi allo sportello della macchina. Gli metto una mano sul petto ansante, l'eco della risata ancora sui nostri volti e sono talmente concentrata sulle pozze di Carter che avverto solo dopo la sua mano sinistra sul mio fianco e l'altra poggiata sul collo.
Mi inumidisco le labbra che, non so per quale motivo, si sono fatte improvvisamente secche e fisso le sue, sottili e rosee che, adesso, sono ancora più invitanti di quanto ricordassi.
Ma poi, quand'è che siamo arrivati ad essere così vicini?
I nostri petti combaciano e sorrido leggermente alla consapevolezza che sembrano fatti apposta l'uno per l'altro, il mio così piccolo contenuto però perfettamente nei contorni del suo.
Gli stringo leggermente il golfo sotto il cappotto aperto e torno a guardargli gli occhi avvertendo adesso più distintamente la mano sul mio collo e le dita che giocano con l'attaccatura dei capelli sulla nuca.
- Ariel? - mi chiama e ci metto un po' per rispondergli perché le sue labbra sono davvero troppo vicine alle mie e non riesco a pensare con lucidità.
- Mmh?
- Se io adesso ti baciassi.. - inizia e il mio cuore fa una capriola perché si -dei!- io voglio baciarlo e le sue labbra che si muovono a così pochi centimetri dalle mie, sfiorandole quasi per provocarmi, mi stanno facendo impazzire.
- Te lo lascerei fare - ed è l'unica cosa che sono in grado di fare, di dire prima che la sua bocca sfiori leggermente la mia.
È un applauso, un battito di mani che, nella calma che eravamo riusciti a crearci sembra anche sbagliato, ad interromperci e ci stacchiamo di colpo seppur, una mano di Carter rimanga comunque sul mio collo.
Sussulto quando osservo il coso che si è piazzato accanto al muso della macchina e Carter si volta verso di lui, accarezzandosi il braccialetto senza ancora trasformarlo. Continuo ad osservare il nostro nuovo amico perché, seriamente, io non posso credere ai miei occhi.
Ora, si potrebbe pensare che sia abituata a stranezze fisiche, visto e considerato che uno dei miei due fratelli ha un occhio solo nel bel mezzo della fronte, che ho chiacchierato con una tizia con dei serpenti al posto dei capelli e che ho ucciso un leone con una capra sulla schiena ma credetemi quando vi dico che una cosa del genere non l'ho mai vista in sedici anni di vita. Questo tizio è costituito da tre persone insieme. E con questo, non voglio dire che sono tre persone assemblate perché il tutto sembrerebbe ancora più assurdo ma che, questo poveretto (quasi mi dispiace per lui) ha tre toraci -con tre golfi differenti e colorati- un'unica testa, due braccia e quattro ascelle.
Decido che, tutte le volte che sono depressa penserò a questo tizio, per ricordare a me stessa che ci sono persone che, dalla natura, sono state proprio prese per il culo.
Il tutto, perché non è di certo finita qui, si conclude con un torace enorme e un paio di gambe tozze chiuse nel più grande paio di jeans che abbia mai visto.
- E tu che cosa dovresti essere? - domando con una smorfia prima che il cervello si possa collegare alla bocca e quando Carter mi tira un pugno al braccio, il mostro mi guarda con un sorriso compiaciuto, illuminato a malapena dalla luce dei fari
- Ma come, piccola dea, tuo fratello non ti ha parlato di me?
Butto la testa all'indietro battendomi le mani sulle cosce in un segno di pura rassegnazione. Riporto poi lo sguardo su di lui, puntandogli un indice contro, - anche tu vuoi ammazzare mio fratello? - domando, - ti giuro, non sei il primo che incontro che mi dice la stessa cosa. Anche io lo vorrei ammazzare adesso, ma - dico alzando la voce per evitare di essere interrotta, aprendo il palmo verso di lui, - credo che tu debba sistemare i conti con lui invece che prendertela con me che sono solo una vittima della demenza di quel cretino. Che ne pensi?
Carter si sbatte una mano sulla fronte, - io non ci posso credere di star vivendo una cosa del genere.
Il tizio con tre toraci ride e fa un passo all'indietro, scrocchiando i polsi. Solo adesso, noto una fascia in pelle marrone attorno ai busti e stringo il ciondolo che sta iniziando a bruciare sul golfo.
- Mi dispiace, piccola dea ma per quanto ce l'abbiamo con tuo fratello, non sono qui per lui - alza due palmi davanti al petto.
- Perfetto, quindi adesso noi ce ne andiamo e amici come prima? Eh? - domando con un sorriso e Carter mi guarda come se volesse seppellirmi la testa nella neve, nella brutta imitazione di uno struzzo.
- Sono qui perché mi hanno pagato e il mio nuovo capo mi ha detto di uccidere te e il figlio di Ares - il tizio sorridere e stringo il ciondolo talmente tanto forte da farmi anche male, - Gerione rispetta sempre i suoi doveri quando viene pagato così profumatamente.
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