7. Vita di campagna

Per fortuna l'essere non reagì in modo esagerato: si limitò a indietreggiare, stando bene attento a non darmi mai le spalle; solo quando fu ad alcuni passi di distanza, si voltò e scappò via.

Con la coda dell'occhio lo osservai discutere animatamente con un suo simile in uniforme.

Decisi che la strategia migliore fosse proseguire la mia passeggiata come se niente fosse successo e, sforzandomi di non accelerare, svoltai in una strada laterale, per interrompere il contatto visivo.

Un calesse carico di sacchi pieni di... qualunque cosa fosse, mi passò accanto.

Agii d'istinto: mi aggrappai alla fiancata del mezzo e, con un salto, mi infilai in uno spazio vuoto, nascondendomi.

Credevo di essere stato silenzioso ma, giunta ad un bivio, la creatura che stava a cassetta fermò il veicolo, si voltò e biascicò qualcosa di incomprensibile nella sua lingua.

Fortuna volle che, proprio in quel momento, il comunicatore universale completasse le analisi con un sommesso "Bip!". Finalmente!

«Non ho capito.» Affermai con sincerità.

«Non fare il finto tonto con me!» Ritorse la creatura, sventolandomi davanti un dito ammonitore. Mi diede l'impressione di essere più anziana di quelle che avevo già incontrato, inoltre qualcosa nel suo atteggiamento mi suggeriva che fosse di sesso femminile. Anche se, a dire il vero, non sapevo nemmeno se quella specie si riproducesse per via sessuata.

«Hai due secondi per sloggiare dal mio carro, dopodiché ti farò scendere io a calci nel bultpop!»

Non avevo idea di cosa potesse essere un bultpop: evidentemente, il dispositivo non riusciva a tradurre quella parola. Tuttavia, ero abbastanza convinto che farselo prendere a calci non dovesse essere piacevole.

«Ho solo bisogno di un passaggio.» spiegai. «In questo momento non sono molto popolare, in città.» ammisi. «Anzi... A ben pensarci, invece, forse sto per diventarlo fin troppo!» riflettei.

«Hai fatto qualcosa di brutto?»
«Non ho fatto del male a nessuno, ma potrei aver causato un po' di scompiglio.» considerai.
Lei mi studiò a lungo. «Quindi vorresti cambiare aria.»

Mi limitai ad annuire con convinzione.

«Non mi farebbe schifo una mano, alla fattoria.» considerò. «Facciamo così. Io ti accompagno fuori città, e tu mi aiuti per un giorno. Affare fatto?»

Quando assentii, mi indicò alcuni sacchi vuoti, ammucchiati in disparte. «Stenditi sotto a quelli e, se ci ferma qualcuno, fai silenzio.»

Quindi incitò la bestia da traino e, con una lentezza esasperante, ci rimettemmo in marcia.

***

Nei giorni che seguirono si instaurò una certa routine. La fattoria di Elvira, così si chiamava la mia benefattrice, si trovava in aperta campagna, a una certa distanza da qualsiasi centro abitato.

Alla morte del compagno, nonostante l'età avanzata, Elvira non era riuscita a separarsi dal luogo che avevano costruito con le fatiche di un'intera vita.

La conseguenza era che i lavori pesanti avevano finito per accumularsi: dalla legna da spaccare ai recinti da aggiustare, dalle riparazioni al tetto agli scavi per rifornire l'abbeveratoio, e così via.
Un robot avrebbe potuto far fronte a quella situazione in poco tempo, ma in quella società arretrata ci si doveva affidare soprattutto ai muscoli.

Ogni notte provavo a contattare Missy, ma la IA seguitava ad ignorarmi.

Scoprii che quel modo di vivere mi piaceva un sacco: adoravo trascorrere il tempo immerso nella natura. Fin dal giorno successivo al mio arrivo mi liberai della tuta – anche se ovviamente mantenni sempre accesa la mimetica ottica – per assaporare ogni sensazione sulla mia pelle.

La massima espressione di ambiente non artificiale che avessi mai sperimentato prima di allora, era il parco della mia città. Ma la fattoria era immersa nel verde, e tutto mi affascinava.

La brezza fresca e i molteplici odori che recava con sé, il sole che mi scottava la schiena o la pioggia che mi sferzava la faccia, il canto dei minuscoli volatili che si nascondevano tra gli alberi e il lamento insistente dei bestioni che pascolavano placidi.

La mia ospite continuava a ripetermi che ero libero di andarmene quando preferivo, ma avevo la sensazione che la mia compagnia non le dispiacesse affatto. Non aveva avuto figli e, forse, ora si beava di quella presenza inaspettata.

Finii col dimenticarmi perfino della missione, come se stessi vivendo in un sogno.

Trascorrevamo le serate conversando in veranda, sorseggiando infusi caldi.

Più tempo passavo insieme a lei, più mi ci affezionavo: era una creatura intelligente, sensibile, tollerante; ma anche determinata e orgogliosa.
Mi parlò dei problemi del suo mondo arretrato, di come il progresso stesse cambiando il rapporto con la terra, del fatto che, a suo dire, la gente fosse sempre più arrabbiata ed egoista, sempre in cerca di nuove tecnologie, e di come queste ultime fossero usate più per procurarsi potere che per il bene della comunità.

Finché, una mattina, Elvira mi disse che degli sconosciuti vestiti di nero andavano casa per casa, chiedendo se di recente nei dintorni si fossero visti forestieri o fatti inspiegabili.


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