Tulipani e peonie

Questa storia è la vincitrice del contest "DREAM CATCHER CONTEST" del 4BLUTeam

Tema: Landscape Dream
Original character

Rating: Verde
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(Accenni di bullismo, accenni di violenza domestica, ansia.)
Parole: 3000

I RAGAZZI IN QUESTA STORIA SONO ENTRAMBI MAGGIORENNI

🥀


La prima volta che Eita lo aveva visto, aveva pensato che non c'era principio contro il quale non sarebbe andato, pur di riuscire a stargli più vicino.

C'era qualcosa nelle iridi chiarissime di Fumihiro che gli ricordava il dolore che aveva provato quando suo padre lo aveva abbandonato, anzi, li aveva abbandonati; a lui, sua madre e i suoi fratelli.
In una casa che era poco più grande di un bilocale, con un bagno che andava a pezzi e il cuore di una donna che reggeva appena.

Non aveva saputo spiegarsi perché gli occhi di Fumihiro gli facessero così tanto male, si era semplicemente detto che come sempre voleva pungersi un po'.

Rotolarsi tra le spine che quel ragazzo pareva avere dentro.

A quello pensava mentre steso sul campo di tulipani e peonie, scrutava il cielo azzurro come l'occhio di un gigante, perlustrava i confini delle nuvole e soffiava contro i ciuffi di capelli che gli scivolavano sulla punta del naso e tra le ciglia.

Pensava a quando per la prima volta aveva incontrato Fumihiro e al suo sguardo malinconico, quando lo aveva beccato a guardare in lontananza, oltre la linea che pareva dividere cielo e terra. Perso nei colori dell'orizzonte rosso, bordeaux, rosa. Ogni sfumatura di quella tintura gli bagnava la faccia e metteva in evidenza le curve del suo volto mascolino.

Gli aveva camminato vicino, ben attento a non schiacciare i ramoscelli presenti per terra, a non far scricchiolare il terreno, perché non lo voleva distrarre. Gli era sembrato così bello, così triste, così pittoresco, che aveva preso il suo album da disegno, si era steso tra i lunghi steli d'erba e aveva preso a dipingere. Un pennello incastrato tra le labbra, un altro tra i capelli.

Di tanto in tanto, con le mani che si muovevano come formiche operaie al lavoro, sollevava lo sguardo e gli gettava qualche piccola occhiata di curiosità.
Catturava un dettaglio e lo riversava nel foglio, imprigionandolo tra le molecole della carta ruvida.
Ogni volta, aggiungeva una sfumatura. Ogni striscia riflessa nei suoi capelli neri come l'inchiostro, aveva un colore diverso. Blu come il mare, azzurra come il cielo, rosso come il sangue, ma pur sempre nero. Un nero così scuro, così profondo che pareva che qualcuno avesse strappato un pezzo della notte e glielo avesse cucito tra le ciocche.

Avrebbe dovuto aspettarselo che qualcuno di tanto scuro dentro non potesse che essere bianco, puro come acqua di sorgente, ma incredibilmente rovinato. Inquinato da un dolore che sembrava costringere la sua anima a strisciare e rantolare per ogni grammo in più d'ossigeno.

Allora, però, era solo un ragazzino.
Un ragazzo troppo curioso, senza una figura maschile dalla quale trarre insegnamento e con un'anima che bramava amore, molto più di quanto il suo corpo bramasse altro.

Quando aveva sollevato lo sguardo, con il ritratto concluso sotto di sé, si era ritrovato addosso lo sguardo indagatorio di lui.
I suoi bei occhi blu fissi sulla faccia.

«Cosa stai facendo?» gli aveva chiesto, le braccia incrociate al petto, dove la sua maglietta nera si tendeva in prossimità dei pettorali, il busto inclinato in sua direzione.

«I-io…»

Non era riuscito a replicare, nonostante le parole sulla punta della sua lingua scalciassero per uscire, lui se l'era ricacciate in gola.
Lo sguardo di quel ragazzo, allora, era caduto sul suo album. Lo aveva visto spalancare gli occhi, reclinare un poco la testa all'indietro e osservare il suo disegno.

«No! Non… non guardare…» biascicò.

Con un gesto veloce radunò le sue poche cose e chiuse l'album con un gesto secco. Lo sguardo del ragazzo misterioso bruciava su di lui come un fuoco. Sentiva il bisogno disperato di scottarsi, ma non rialzò gli occhi.

Corse via di scatto, abbandonalo lì.

Due settimane dopo, Eita era di nuovo seduto tra i tulipani e le peonie.
Con il suo album aperto sulle ginocchia, ma lo sguardo perso nel paesaggio che si estendeva sotto i suoi occhi. Non aveva mai visto qualcosa di tanto bello come quel campo.
Non faceva che tornarci, da quando aveva sei anni.

La prima volta che era stato lì, si era perso.

I suoi genitori stavano litigando e lui aveva deciso di scappare via, stanco delle loro urla, del putiferio che conseguiva agli schiaffi forti di suo padre.
Perciò, aveva messo tutte le sue cose in una sacca e aveva corso. Da casa sua, aveva attraversato un lungo tratto di bosco, era inciampato svariate volte e seppur con le lacrime agli occhi, aveva continuato a correre. Infine, quando le ginocchia gli stavano per cedere e gli occhi per chiudersi, era arrivato su quella collina. Lì per lì, gli era sembrata una visione divina.

Una specie di terra promessa, scoperta da lui.

Il suo animo bambino aveva fatto i salti di gioia nell'approddare su quel prato.
Si era perso ad osservare i fiori dai colori puliti, limpidi, l'erba verde alta, smossa dal venticello leggero di Maggio, il Sole.
Il Sole sollevato sul cielo che pareva tuffarsi nelle profondità del terreno, con le sue sfumature variopinte, con i girasoli che lo seguivano come fedeli dediti completamente a lui.
Chilometri e chilometri di terra incontaminata dall'edilizia, dall'inquinamento, dalle mani umane.

Solo fiori, erba e profumo di natura.

Eita aveva respirato a pieni polmoni, ed era scivolato sulle ginocchia. Un tonfo preciso contro il terreno duro che lo aveva accolto come una mamma.

Aveva gli occhi lucidi e il fiatone per la fatica della corsa.

Si era steso su quella terra profumata e aveva guardato su. Il cielo era come un lenzuolo, come le lenzuola azzurrognole del suo letto, ma al contrario di quelle, lui non aveva buchi nel mezzo, nessuna cucitura, nessuna chiazza di sporco.
Il cielo era nuovo, ogni volta che lo guardava, non era mai lo stesso.

Si era sentito al sicuro. Scioccamente, in mezzo a quel deserto aperto a chiunque, si era sentito protetto, voluto. E si era addormentato.

Quando anni dopo aveva visto lì Fumihiro, ne era stato geloso. Geloso di sapere che qualcun altro avrebbe potuto provare le stesse emozioni che quel posto aveva suscitato in lui. Lo trovava un po' il suo rifugio, un sogno sicuro nel quale rifugiarsi quando la realtà faceva troppa paura.

Poi però, aveva visto gli occhi di Fumihiro. Il buio che circondava le sue iridi, come se oltre sé stesso e la sua vecchia Nissan rossa, non avesse avuto nient'altro.

Né famiglia, né amore, né futuro.

Ed Eita si era sciolto.
Aveva lasciato che quel ragazzo dall'aura nera e gli occhi blu come il mare, stesse lì per poche ore; quelle necessarie a guardare il tramonto come un innamorato fa con il suo amante.
Dopo che il Sole scompariva, lo guardava alzarsi, scrollarsi la poca terra che gli finiva sui cargo, prendere un fiore e andare via. A lunghe falciate che però, non lasciavano impronte.

Solo quando percepiva il ruggito dei motori modificati della Nissan, si permetteva di raggiungere il posto che aveva occupato Fumihiro.

Sfiorava con i polpastrelli gli steli delle peonie e respirava piano il loro polline. Si sedeva lì, proprio dove sedeva Fumihiro prima e sperava di trovare nella terra, un po' della sua colonia.
Non ci riusciva mai.
Però immaginava come avrebbe potuto essere, il colorito delle sue labbra e l'aroma che la sua pelle avrebbe emanato. Non sapeva perché, ma aveva come l'impressione che Fumihiro avrebbe saputo di fiori.

Un odore molto più forte di quello debole delle peonie, molto più chiaro dei tulipani.

Un giorno però, si era sbagliato.

Non aveva calcolato bene i tempi, aveva sbagliato a muoversi, a sbirciare, a respirare. E Fumihiro lo aveva visto.
Aveva distolto i suoi bei occhi azzurri dal tramonto e glieli aveva puntati addosso. Ed Eita, si era sentito assorbire dall'immensità che quelle iridi blu trasmettevano.

Si era sentito attrarre da lui e senza neanche rendersene conto, stava camminando in sua direzione, fra gli steli di fiori rossi, lilla e rosa. Ne sfiorò i petali con i polpastrelli e si meravigliò nel percepire il leggero solletico sulla punta delle dita. Con il passo lento di un gatto, si era seduto accanto a Fumihiro, il cuore che batteva all'impazzata nel petto.

Per un po', nessuno dei due aprì bocca.

Eita aveva le mani che tremavano e la bocca asciutta. Tuttavia, ignorò quelle sensazioni, e continuò a guardare il firmamento. L'immensità del cielo che si protendeva fino alla fine del mondo.

Una tela da dipingere.
Avrebbe voluto avere una scala per salire fino lì e dipingerlo; farci i ghirigori sopra, disegnarci magia e arcobaleni. E visto che lui non poteva, ci pensava il tramonto, con le sue luci rosse come il sangue e le gocce d'amore che parevano restarci incastonate in mezzo.

Dopo quello che gli parve un secolo, Fumihiro parlò. Fu la prima volta che ascoltò la sua voce.

«Ho rubato il tuo posto speciale, vero?»

Il suo tono era un districarsi di note che rieccheggiavano roche e leggere. Eita si perse in quella melodia e la rincorse fino ai suoi occhi.

«.» affermò, poi si rese conto di ciò che aveva detto e cercò di rimediare. «Cioè no. Questo non è il mio posto… è solo, è di tutti, ecco.»

Fumihiro annuì.
Eita spostò lo sguardo sul tramonto, tornando a concentrarsi su quelle sfumature, ma gli risultava fin troppo difficile se l'altro continuava a guardarlo così.
Come se il Sole fosse sul suo viso e lui volesse guardarlo per forza.

«Quando il Sole tramonta e i suoi raggi sono radenti agli strati più alti dell'atmosfera, arriva il momento in cui la radiazione di frequenza vicina al violetto non riesce più a penetrarla, al contrario della radiazione vicina al rosso che ancora entra nell'atmosfera. Così il cielo si tinge di rosso.»

Eita, ci mise un po' a captare le sue parole. Tornò a scrutare il suo volto, le sopracciglia aggrottate.

«Cosa?»

«Sembri sempre così attento ai dettagli, perciò, ti stavo spiegando. Studio astronomia.»

«Astronomia? Vuoi diventare astronomo?»

Fumihiro annuì.
I ciuffi dei suoi capelli, al riflesso con il Sole, parevano fatti di granito.

«E tu cosa vuoi fare da grande?» gli chiese con un sorriso.

Eita esitò.
Vederlo sorridere lo faceva sentire a disagio, perché credeva sempre che tutti ce l'avessero con lui e che non meritasse di essere felice a sua volta, perciò, distolse lo sguardo puntandolo tra le sue gambe incrociate.

«Io… vorrei fare il pittore.» affermò infine. Un po' dubbioso, perché quando lo diceva tutti scoppiavano a ridere e gli dicevano di fare il serio, di trovare qualcosa di “vero”.

Fumihiro però, non scoppiò a ridere, né tantomeno gli ripeté quella formuletta.

«Allora, immagino che prima o poi, potrò vedere il ritratto che mi hai fatto, in una galleria. Spero solo di non essere troppo brutto.»

Alché Eita sgranò gli occhi, sorpreso.

«Tu… non sei affatto brutto.»

Lui ridacchiò un poco, la testa reclinata all'indietro e i denti bianchi scoperti. Il suo viso era una cesellata porcellana bianca, perfettamente torchiata.

«Grazie. È per questo che mi guardi sempre, fiorellino?»

«Non chiamarmi così.» biascicò Eita, portando le braccia al petto.

Fumihiro portò una mano sulla sua. Un tocco leggero che lo fece irrigidire.

«Non offenderti. Non lo intendo come fanno quegli stronzi.»

«So che non sei come loro, ma… tu non sei una buona compagnia, sarebbe meglio starti lontano. O così dicono.» affermò il ragazzo, si spostò un paio di ciuffi castani dalla fronte e lo guardò.

Fumihiro, con gli occhi socchiusi rivolti al tramonto, le ombre delle ciglia che  creavano piccole ombre sul suo volto, sembrava un bel ritratto. Fatto e finito.
Non disse nulla, non rispose alle sue affermazioni ma sorrise al cielo.

«Un giorno andrò sulla Luna!» proruppe d'un tratto. Eita lo guardò, sorpreso.

«Cosa?»

«Scusa, credevo stessimo dicendo cose improbabili.» Ridacchiò con quei denti bianchi che sembravano tasselli di un mosaico.

«Non capisco.»

«Dicevo, che sono cose improbabili.» Si girò a guardarlo, facendosi più tenero. I suoi tratti bianchi come latte luccicarono come colti da una luce perfetta. «Tu non mi starai mai lontano, Eita.»

Quelle parole lo colpirono più di quanto avesse avuto il coraggio di ammettere. Fumihiro era proprio lì, davanti a lui, con gli occhi tranquilli e un dolore che si portava addosso come una condanna.

«Il tuo nome significa condanna…» biascicò, tra sé e sé. L'altro lo sentì lo stesso e annuì.

«E il tuo cristallo. Sta' a te decidere se ti chiami così perché sei facile da rompere o se è perché brilli così tanto da coprire le tue crepe. Solo noi, Eita scegliamo chi dobbiamo essere. Non gli altri.»

Fu il suo turno di sorridere amaramente, una debole curva che gli stirò le labbra rosse come ciliegie, in una linea esitante.

«Anch'io ti guardo da tanto.» mormorò Fumihiro, cogliendo di sorpresa.

«Da tanto? Quanto “tanto”?» chiese.

Fumihiro lanciò un'occhiata al cielo. Si era fatto più scuro, il sole che ormai sguazzava a metà nel terreno e l'azzurro era sfumato in blu.

«Mi spiace, Eita. Devo andare ora.»

Così dicendo, si scrollò la terra dai cargo e si rimise in piedi.
Eita avrebbe voluto avere abbastanza coraggio per prendergli il polso e fermarlo. Chiedergli di parlare ancora un po' e cullarlo con la sua voce. Rivelargli almeno qualcos'altro di lui.

Non ci riuscì però, quindi lo guardò andare via, con le peonie e i tulipani a fargli da contorno.

🥀

«Sei qui.»

Era scappato dalla festa. Lui non ci era mai voluto andare a quella festa, odiava anche solo l'idea di stare lì, di appiccicarsi ad altri adolescenti, sudati, sporchi e perversi, come bisce che gli si avvinghiavano alla gola e lo facevano soffocare.

Eita aveva sempre preferito la natura alle persone.

Il profumo delle peonie lilla, il dolce aroma della Primavera che albergava nell'aria, il cielo azzurro come fatto di pennellate di tempera.

La natura gli aveva sempre dato di più. La natura non lo deludeva, non rideva di lui quando inciampava, non lo additava come si fa con un alieno. La natura era lì, silenziosa, calda, amorevole, come una madre sempre pronta a dargli affetto. A proteggerlo.

I ragazzi no.

Tutti i suoi compagni gli avevano fatto male, non facevano che pungolarlo ogni volta che ne avevano l'occasione, lo prendevano in giro, ridevano di lui. Ed Eita si sentiva morire, si sentiva tornare a quando era solo un bambino e suo padre urlava per tutta casa e spaccava gli oggetti.

Perciò, era scappato.

Aveva corso fino a farsi cedere le ginocchia, con i polmoni in fiamme e le mani lungo i fianchi. I capelli gli ballarono davanti al viso quando si fermò.

Si stese lì, tra l'erba alta che mille volte gli aveva fatto da materasso e respirò forte, cercando di tornare a stare bene.
Di confondersi con la terra.

Poi, era arrivato Fumihiro.
Lo aveva riconosciuto dalla voce, il dolore che si trascinava dietro come una catena legata alla caviglia di un moribondo. Aveva percepito il leggero venticello che il suo movimento aveva creato, aveva sollevato gli occhi e reclinato un po' la testa.

Fumihiro era lì.
Con i suoi pantaloni cargo nerissimi e i ciuffi color carbone, tra le ciglia lunghe. Lo scrutava dall'alto, con le mani nelle tasche e lo sguardo neutro.

«Cosa ci fai tu, qui?» si ritrovò a mormorare. Non fece nulla per scacciarlo, non aveva le forze neppure per dimenarsi e imbarazzarsi.

Fumihiro non rispose.
Lo vide muovere i grandi anfibi e aggirare la sua testa, per un attimo, temette che lo avrebbe schiacciato sotto le sue suole pesanti e d'istinto, chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il fiato caldo di lui gli sfiorava le labbra. Ci mise due secondi a capire che gli si era steso accanto, supino, con i ciuffi scuri sparsi sul terreno come un'aureola magica. Gli stava sorridendo, con quelle sue labbra chiare, bordate.

«Qual è il tuo sogno, Eita? C'entra questo campo?» sussurrò più alle stelle che a lui.

«Il mio sogno?» ripeté, confuso. «Be', non saprei. Perché me lo chiedi?»

Si volse a guardarlo, inclinando la testa di lato e facendo scivolare i suoi capelli in viso. Le dita di Fumihiro si mossero lentissime, camminando fino a quei ciuffi. Li spostò dietro le sue orecchie ed Eita restò paralizzato, ammaliato da quel tocco.

«Io ho un sogno.» rivelò Fumihiro, il tono liscio come seta. «Sogno di poter guardare tutti i giorni nei tuoi occhi, perché solo qui mi sembra di vedere questo campo. La bellezza vera di questo campo intendo, i suoi colori, i suoi sapori. Nei tuoi occhi, Eita, c'è un'intera Primavera, brilla e si distende, vive. Vive nei tuoi ritratti, ed io sogno di poterne fare parte, da sempre.»

Eita, lo fissò senza parole. Per la prima volta nella sua vita qualcuno recitava poesia dalle labbra e lo lasciava senza fiato. Arrossì d'istinto e abbassò gli occhi.

«Se questo tuo sogno comprende la Primavera, te la dipingerò tutte le volte che vuoi.» biascicò, il cuore che batteva frenetico.








Fumihiro sorrise.
Richiuse il libro, con un tonfo e guardò i bambini stesi sul prato di peonie e tulipani. Anche Eita lo guardava, seduto sull'erba, con una ruga di concentrazione in viso.

Gli rivolse un piccolo sorriso, perdendosi nelle venature dei suoi occhi verdi più di quel campo stesso. Fece per aprire bocca e dirgli qualcosa di stupendamente e orrendamente dolce, quando una manina si poggiò sul suo ginocchio, scuotendolo.
Allora, spostò lo sguardo e gli rivolse la sua attenzione.

«E poi nonno? Come finisce la storia?» chiese la bambina, i suoi occhi azzurri brillavano come gemme.

Fumihiro piegò le labbra.

«Vedi questo campo, tesoro?» Le indicò l'immensità di fiori appena bocciati attorno a loro. La bimba annuì. «Questo è il sogno che io e nonno Eita abbiamo. Ed io, vivrò il mio sogno guardando per sempre nei suoi occhi.»

«Ma nonno, negli occhi di nonno Eita non c'è nulla!» protestò la bambina.

Fumihiro si lasciò sfuggire un risolino. Eita si imbronciò.

«C'è tutto il mondo, lì dentro.»

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