𝓐𝓵𝓮𝔁𝓪𝓷𝓭𝓮𝓻

Aprii gli occhi lentamente, il mondo attorno a me si delineava in una nebbia confusa. La stanza era bianca, accecante, e il suono costante di un monitor mi riportò alla realtà. I fili e i tubi che mi collegavano a quell'apparato freddo e impersonale erano come catene invisibili che mi trattenevano in un luogo in cui non volevo essere. Il cuore pulsava forte nel petto, il ricordo di come fossi finito lì cominciava a riemergere nella mia mente, mescolandosi con la sensazione di vulnerabilità.

Mi girai lentamente, sperando di trovare conforto in un volto familiare. Ero ansioso di vedere qualcuno, di sentire una voce che potesse spiegarmi cosa stava succedendo. Ma ciò che trovai fu solo mia madre, seduta su una sedia accanto al mio letto, avvolta in un sonno profondo. La sua figura sembrava fragile, come un fantasma. I suoi capelli grigi riflettevano la luce sterile della stanza, e un dolore profondo mi pervase. Non c’era mio padre, e in quel momento, capivo perfettamente il motivo.

La mancanza di suo padre, così presente nella mia vita eppure così assente ora, pesava come un macigno sul mio cuore. Eravamo stati sempre legati da una sorta di dinamica tossica, ma la sua assenza in quel momento mi fece realizzare quanto avessi bisogno di lui. Non che avesse mai avuto un modo giusto di dimostrarlo, ma in quel frangente, il suo non esserci sembrava una condanna.

La stanza era silenziosa, tranne per il monotono beep del monitor. Le pareti bianche, spoglie, sembravano soffocanti, come se stessi annegando in un mare di inquietudine. Non riuscivo a liberarmi dalla sensazione che la vita, così com'era, fosse sfuggita al mio controllo. La mia mente tornò a pensare ad Alexa. La sua immagine mi colpì come un pugno allo stomaco. Doveva essere ancora nei guai, e io non ero lì a proteggerla.

Mi sforzai di ricordare come fosse andata. Il traffico sull’autostrada, la sensazione di impotenza quando non riuscivo a frenare, il boato dell'impatto. L'incidente. E poi, il buio. Non ricordavo più nulla. Come se una parte di me fosse stata spazzata via, un’eco lontana di ricordi felici ora sommersa dalla tempesta di quello che avevo vissuto. Le mie palpebre si chiusero per un momento, ma non trovai riposo.

"Dove sei, Alexa?" pensai, il nome sulla mia lingua sembrava un sussurro disperato. La mia mente si tuffò in un abisso di preoccupazioni. Doveva essere al sicuro, doveva esserci una via d'uscita per lei. La mia vita stava crollando, e lei era l'unica luce che mi teneva ancorato alla realtà. Ma mentre giacevo in quel letto d'ospedale, circondato da tubi e macchinari, mi chiesi se ci fosse ancora una via di fuga per entrambi.

Ricordai le parole di Marie, il suo sorriso crudele mentre menzionava Theodora. Quella puttana stava tramando qualcosa. Era sempre stata invidiosa di me, della mia vita, della mia relazione con Alexa. Il pensiero di quel video mi fece fremere, una ondata di nausea che risalì dal profondo del mio stomaco. Non avevo solo messo a rischio la mia vita; avevo messo in pericolo quella di Alexa. Non potevo permettere che tutto finisse così.

Improvvisamente, il monitor emise un suono acuto, e il mio cuore accelerò. Mia madre si svegliò, guardandomi con occhi pieni di ansia. Ma la sua presenza non poteva darmi conforto in quel momento. Volevo urlare, ma la mia voce era imprigionata, soffocata dal dolore e dall’angoscia. Desideravo alzarmi, scappare da quella stanza e ritrovare Alexa. La mia mente era un vortice di pensieri confusi, di emozioni in conflitto.

Mia madre mi chiamò piano, la sua voce spezzò il silenzio come un sussurro che non avevo sentito da anni. «Alexander…» Le sue parole erano gentili, ma c'era una preoccupazione che non riusciva a nascondere. La guardai, il suo volto stanco, segnato dal tempo e dal dolore. I suoi occhi si riempirono di lacrime, ma cercava di trattenersi, come se non volesse mostrarmi la sua debolezza.

Sorrisi, un sorriso che sapeva di tutto meno che di felicità. Era un riflesso, una maschera che indossavo per non farla crollare. Come poteva essere lì? Lei, sempre distante, sempre lontana. Mio padre non c'era, e questo, per quanto mi pesasse, non mi pesava davvero. Non me lo aspettavo, ma in fondo lo capivo. Mio padre non era mai stato capace di affrontare le cose quando si facevano difficili. La sua assenza adesso era la conferma che ero solo, ancora una volta, a combattere contro i miei demoni.

«Quando... da quanto tempo sono qui?» chiesi, la mia voce era roca, quasi irriconoscibile, come se non l'avessi usata per giorni. Lei mi guardò, sorpresa dalla mia domanda, ma anche dal fatto che io parlassi. Forse non si aspettava di vedermi sveglio, forse credeva che avrei continuato a dormire in quel limbo in cui mi ero perso.

«Due settimane…» rispose, abbassando lo sguardo. Non poteva guardarmi negli occhi. C'era troppo tra noi, troppi silenzi, troppe ferite aperte che nessuno aveva mai curato. Due settimane. E Alexa? Il pensiero mi colpì come un pugno allo stomaco. Dov'era? Cosa le era successo mentre io giacevo qui, impotente?

La testa mi pulsava. Un fiume di pensieri scuri e contorti mi attraversava, rendendo difficile mettere insieme i pezzi. Non sapevo se il dolore fosse fisico o mentale, forse entrambi. L’ultima cosa che ricordavo era la strada, le luci confuse, il suono sordo dell’impatto, e poi… il nulla. Ora ero qui, intrappolato in questo letto, mentre tutto il resto del mondo continuava a girare senza di me.

Alexa. La sua immagine mi appariva davanti agli occhi chiusi, ma era sfocata. Sapevo che qualcosa di terribile era successo, lo sentivo nelle ossa. Il suo volto mi tormentava, e il pensiero che potesse essere lontana, in pericolo, mi consumava dall'interno.

«Alexa…» mormorai, quasi senza rendermene conto. Mia madre si irrigidì, il suo volto si chiuse in una maschera impenetrabile. Era come se il solo menzionare il suo nome avesse sollevato una barriera tra noi.

«Non devi preoccuparti di lei adesso», disse, cercando di essere rassicurante, ma non ci riusciva. Lo sentivo nel suo tono. C'era qualcosa che non mi stava dicendo, qualcosa di oscuro che aleggiava nell'aria. Non potevo fidarmi.

Non rispose subito, continuava a camminare per la stanza come se cercasse qualcosa che non trovava, o forse cercava le parole giuste, ma sapevo che non le avrebbe trovate. Non c'erano parole che potessero riempire il vuoto che mio padre aveva lasciato. Era assente come sempre, e non mi sorprendeva. Aveva fatto la sua scelta, come sempre, e io ero solo l’ennesimo fallimento da lasciarsi alle spalle.

Mi leccai le labbra secche, ogni movimento richiedeva uno sforzo. Le mie articolazioni erano rigide, il dolore costante mi ricordava quanto fossi debole, intrappolato in questo corpo che non rispondeva come avrei voluto. La stanza sembrava troppo piccola, troppo stretta, con l'odore sterile dell'ospedale che mi soffocava.

«Non ti piace Alexa, vero?» mormorai, sapendo già la risposta. Non gliel'aveva mai detto apertamente, ma l'avevo sempre sentito. Quel suo silenzio ogni volta che il nome di Alexa veniva menzionato, quel velo di disapprovazione che le copriva gli occhi quando la guardava. Mia madre non la considerava mai una di noi. Alexa era sempre stata l'estranea, la minaccia. Lei era dolce, vulnerabile... ma per mia madre, forse questo era un segno di debolezza. E a noi i deboli non piacevano.

Mia madre si fermò di colpo, il suo respiro era appena percettibile. Non mi guardava più. I suoi occhi vagavano, persi in qualche pensiero che non riuscivo a cogliere, ma non dovevo. Il suo disprezzo per Alexa non era mai stato esplicito, ma lo sentivo in ogni gesto, in ogni parola non detta. Quel silenzio parlava più di mille insulti.

«È una donna molto affascinante,» aggiunsi, come se fosse importante per me convincerla, ma in fondo sapevo che non l'avrei mai fatto. Nessuno nella mia famiglia avrebbe mai visto Alexa come la vedevo io. Nessuno avrebbe mai compreso il legame che sentivo con lei, quell’ossessione oscura che mi consumava.

Lei sospirò, come se la mia insistenza le pesasse addosso. Si alzò, i suoi passi erano lenti, misurati, come se ogni movimento fosse calcolato per mantenere un controllo che stava scivolando. La vidi attraversare la stanza, le sue dita sfioravano il bordo del letto, poi il comodino. I suoi occhi evitavano i miei, e io capii che non avrei ottenuto altro da lei. Il muro tra di noi era troppo spesso.

Doveva sapere qualcosa. Lo sentivo. Forse mio padre le aveva detto qualcosa. Forse sapevano tutti dove fosse Alexa, ma a nessuno importava davvero. La mia ossessione per lei era solo un altro segreto che la mia famiglia voleva seppellire. Come tutto il resto.

«Dov'è tuo marito?» le chiesi, cercando di mantenere la voce ferma, anche se dentro di me il caos montava. Non mi rispose subito. Quel silenzio era assordante, pesante. Mi lasciava solo con i miei pensieri, con il ricordo di Alexa, di tutto ciò che avevamo condiviso e di ciò che avevo perso.

«Tuo padre è morto un anno fa.»

Quelle parole uscirono dalla sua bocca come lame. Morto? Nessuno mi aveva detto niente. Niente. Rimasi immobile, sorpreso. Per loro ero come morto, cazzo.

Il dolore che sentivo ovunque si intensificò, ma non riuscivo a capire se era dovuto ai fili a cui ero collegato o alla rabbia che mi stava esplodendo dentro. Un anno. Un fottuto anno e io non sapevo nulla. Mi girai lentamente verso di lei, con un misto di incredulità e furia.

«E quando cazzo avevi intenzione di dirmelo, Zendaya?» La chiamai per nome. Non la chiamavo più "mamma" da anni. Dopo tutto quello che mi aveva fatto, dopo avermi abbandonato... non meritava quel titolo.

Lei si avvicinò, poggiando le mani fredde sulla ferrata del letto. Non riuscivo a muovermi. Il corpo mi faceva male dappertutto, come se fossi stato travolto da un treno. Forse lo ero stato, in qualche modo. Ma il dolore fisico era nulla in confronto a quello che mi bruciava dentro. Il senso di vuoto, il senso di essere stato lasciato solo da chiunque. Da mio padre, da lei, da Alexa...

Mi leccai le labbra secche, cercando di raccogliere i pensieri. «Non piace Alexa, vero?» sputai fuori. «Non l'hai mai vista. Per te è solo una puttana, come le altre.» Le parole uscirono come veleno. Mi sentivo perso, senza un punto di riferimento. Lei non disse niente, solo sospirò, distogliendo lo sguardo.

Non avevo alcuna voglia di ascoltarla. Non mi interessava. Ma la verità mi soffocava. Non potevo ignorare il fatto che la mia vita fosse un cumulo di macerie. Cazzo, cosa mi era successo?

Lei si sedette sul bordo del letto, con un'espressione che cercava di sembrare materna, ma era solo vuota. Mi accarezzò il viso con dita fredde, come se il gesto potesse cancellare anni di abbandono. «Non ho mai visto Alexa,» mormorò piano. «Non mi hai mai parlato di lei.»

Il tocco mi disgustava. Sentivo crescere la rabbia, un groviglio che mi soffocava dentro. Le tolsi la mano dal viso con uno strattone violento, come se il contatto mi bruciasse. «Come cazzo potevo farti conoscere Alexa?» urlai, la voce spezzata, rotta. «Tu brutta troia... non mi hai mai chiamato, mai una volta! Ogni volta che avevo bisogno di te, non c’eri! Ogni fottuta volta!» La mia voce rimbalzava sulle pareti bianche e sterili della stanza, ma non alleviava nulla. Non mi sentivo meglio. Era tutto inutile.

Lei si alzò lentamente, senza dire niente, con la stessa espressione indifferente di sempre. Quella che avevo imparato a odiare. Ero suo figlio, cazzo. Come poteva guardarmi così, come se non fossi niente? Prese la sua borsa dalla sedia, il suo sguardo vuoto che evitava il mio, come se stessi chiedendo troppo. Come se fosse colpa mia.

Aprì la porta. La luce del corridoio filtrò nella stanza, accecante. Prima di uscire, si voltò leggermente verso di me, senza neanche guardarmi negli occhi. «C’è una ragazza che vuole parlare con te,» disse, la voce piatta. Poi se ne andò, lasciando la porta socchiusa.

Rimasi immobile, il cuore che batteva troppo forte. Una ragazza. Chi cazzo poteva essere? Per un attimo, il nome di Alexa mi balenò nella mente, come un’illusione. Ma non poteva essere lei. Non poteva. Alexa era sparita. E io non sapevo dove fosse.

Theodora entrò nella stanza con quella sua camminata sicura, indossava un vestito rosso troppo corto per essere ignorato. Le sue gambe fasciate in collant bucati attiravano lo sguardo come una trappola, e il modo in cui stringeva quella borsetta nera con disinvoltura era un promemoria silenzioso di quanto potesse essere pericolosa. Si fermò vicino al letto e mise le mani sulla ringhiera, lo sguardo fisso su di me, un sorriso leggero che faceva sembrare tutto un gioco.

Sospirai, cercando di calmare la rabbia che si agitava dentro di me. Non volevo ascoltarla, ma non avevo scelta. Lei sapeva tutto. Ogni maledetto segreto.

«Sai cosa devi fare se vuoi rivedere quella puttana,» disse con una voce dolce, ma velenosa. «Devi farti licenziare come professore.»

Quelle parole erano come un colpo allo stomaco. Il mio lavoro, la mia carriera… la mia laurea. Tutto ciò per cui avevo lottato, sacrificato, si stava sgretolando davanti a me. Aprii la bocca per parlare, ma non uscì niente. Non avevo parole, non c'era niente da dire. Cosa potevo fare?

Alexa. Il suo nome rimbombava nella mia testa come un tamburo. Per lei avrei fatto qualsiasi cosa, anche rinunciare a tutto. Eppure, quella consapevolezza mi stringeva il petto come una morsa. Era giusto? Cosa mi stava rimanendo?

Theodora si avvicinò di qualche passo, la sua borsetta aperta, e ne estrasse il telefonino. Lo tenne davanti a me, come una pistola carica. «Se non ti licenzierai,» disse, il sorriso sparito dalle sue labbra, «dirò tutto alla preside.»

Chiusi gli occhi, cercando di immaginare un altro modo, una via d'uscita. Non c'era. Se non accettavo, ero finito. La mia reputazione, la mia vita professionale... sarebbe stata distrutta in un istante. Ma, sorprendentemente, il pensiero che mi faceva più male era uno solo: non avrei rivisto Alexa.

Quando riaprii gli occhi, la decisione era già presa. «Accetto,» dissi con un nodo in gola, «ma voglio Alexa.»

Lei non disse niente, ma aveva già il telefono tra le mani, pronta a fare la sua mossa.

Theodora portò il telefono all’orecchio, le dita lunghe e sottili che stringevano il dispositivo come se fosse un'arma, un’altra mossa studiata in questo gioco malato. Stava chiamando qualcuno. La sua voce si fece più fredda, quasi meccanica, quando disse il nome che avrei voluto cancellare per sempre dalla mia vita.

«John.»

Quel nome risuonò come un martello nella mia testa, l'odio si riaccese immediato. John, il bastardo. Il padre di Alexa. Quel fottuto uomo che l'aveva trascinata nell'inferno, che l’aveva usata e umiliata. La mia mascella si serrò, e per un momento tutto il mio corpo tremò di rabbia.

«Accettato,» disse Theodora con il solito tono privo di emozioni, e poi mi passò il telefono. Mi guardava con quel suo sguardo impassibile, sapendo di avermi intrappolato. Presi il cellulare, il cuore che batteva all’impazzata mentre lo avvicinavo all’orecchio. La mia mente era un vortice di immagini, tutte su Alexa. Dov'era? Cosa le avevano fatto?

Dall’altro lato della linea sentii un respiro pesante, e poi la voce che avevo tanto desiderato.

«Alexander…»

La sua voce. Alexa. Il mio cuore si spezzò al suono del suo pianto. Aveva paura, era sola, e la mia impotenza mi soffocava. Strinsi il telefono così forte che le nocche divennero bianche. Lacrime mi rigavano il viso, ma non m'importava. «Alexa, amore… dimmi dove sei. Dimmelo, ti prego, ti vengo a prendere. Ti porto via da lì, ti porto via da tutto questo.»

Non rispose subito. Balbettava. Le sue parole erano spezzate tra i singhiozzi. Potevo quasi vederla, piegata su se stessa in qualche maledetto angolo, circondata da mostri.

«Alexander…» continuava a ripetere, come se il mio nome fosse l’unico appiglio che le restava. Piangeva, e ogni suo singhiozzo era una pugnalata al cuore.

«Non piangere, ti prego,» sussurrai, sentendo la mia voce incrinarsi. «Ti vengo a prendere. Dimmi dove sei.»

Lei balbettò, le parole spezzate tra il pianto. «Sono… a San Francisco… al club Alexa.»

Club Alexa. Quelle due parole mi congelarono il sangue nelle vene. Che cazzo di club era? Non poteva essere quello che pensavo. Ma la verità era davanti a me, crudele e schiacciante.

Poi la linea si chiuse. Nemmeno il tempo di dirle addio, nemmeno il tempo di dirle che l’avrei trovata, che l’avrei salvata. Mi avevano strappato anche questo.

Il silenzio riempì la stanza, assordante. Restai lì, con il telefono stretto in mano, senza muovermi. Mi sembrava di soffocare. Alexa era intrappolata in un incubo, e io non c’ero. Non ero riuscito a proteggerla, a salvarla da quell’uomo, da suo padre, da tutto ciò che le avevano fatto.

Cazzo, ero un fallimento. Ero rimasto immobile mentre la mia vita si sgretolava davanti ai miei occhi. Non riuscivo a liberarmi dall’odio che mi divorava. John. Theodora. Tutti loro. Mi stavano rubando tutto, e io ero qui, impotente.

Theodora, nel frattempo, non si era mossa di un millimetro. Mi osservava con un sorriso vago, come se sapesse esattamente cosa stesse accadendo nella mia testa. Era una pedina di John, lo sapevo, ma la sua freddezza mi faceva ribollire il sangue.

Mi strinse la gola, sentii il respiro pesante. Che cazzo dovevo fare? Non potevo andare a San Francisco senza sapere a cosa stavo andando incontro. Non sapevo nemmeno cosa fosse quel club. Ma Alexa era lì, ed era tutto ciò che contava.

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