𝓐𝓵𝓮𝔁𝓪𝓷𝓭𝓮𝓻

Facevo avanti e indietro nel salotto, l’ansia che mi ribolliva dentro come un vulcano pronto a esplodere. Non sapevo dove cazzo fosse Alexa. La chiamai all'incirca mille volte, ma ogni squillo che non veniva seguito da una sua voce aumentava la mia angoscia. Avevo fatto di tutto per renderla felice, per rendermi migliore, per noi due, ma cazzo, non ci riuscivo.

Il pensiero che potesse essere in pericolo mi fece stringere lo stomaco. L’immagine di quel brutto ceffo di suo padre, John, tornò a tormentarmi. Era sempre stato un uomo pericoloso, e ora che sapevo della loro storia, mi preoccupava ogni minuto che passava senza di lei. La mia mente vagava, e il desiderio di bere tornò a farsi strada; avevo bisogno di spegnere queste emozioni, di anestetizzarle.

Mi lasciai cadere sul divano, sentendo il peso del mondo sulle spalle. Presi il telefono e lo richiamai, sperando che questa volta rispondesse, ma invece ricevetti solo la solita segreteria. La mia insistenza stava diventando ridicola, ma non riuscivo a farne a meno. C’era qualcosa di sbagliato, e lo sentivo nelle ossa. Cazzate.

In preda alla frustrazione, sbattei il cellulare sul tavolino, il vetro che si infranse con un rumore secco, come se anche il mio cuore stesse esplodendo. «Cazzo!» urlai, la voce che mi uscì dalle labbra era una miscela di rabbia e paura.

Mi alzai, respirando profondamente per cercare di calmarmi. Presi la mia giacca e uscì di casa, sbattendo la porta dietro di me. Ogni passo verso la mia Tesla era carico di nervosismo. L'idea che potesse essere con quel pezzo di merda di suo padre mi fece venire la nausea. Sapevo che dovevo trovarla, ma dovevo anche rimanere lucido.

Arrivai alla caffetteria e parcheggiai in fretta. Scivolai fuori dall'auto e mi fiondai dentro, il campanello della porta suonò mentre entravo. L’aria all’interno era densa di aromi di caffè e dolci, ma nulla di tutto ciò mi interessava in quel momento.

«Alexa!» chiamai, la voce che si alzava sopra il brusio della clientela. I clienti mi fissarono, e qualche volto mi era familiare, ma non avevo tempo da perdere. «Dove cazzo è?» chiesi a Molly, che stava dietro al bancone, con l’espressione preoccupata.

«Non lo so, Alexander,» rispose lei, alzando le spalle, visibilmente tesa. «Era qui un’ora fa, ma poi è uscita con... con un uomo.»

Le parole di Molly mi colpirono come un pugno in pancia. «Che cosa?» ringhiavo, il respiro che si fece più affannoso. «Dove sono andati?»

La caffetteria era avvolta in un silenzio teso mentre mi avvicinavo a Molly. La sua espressione si fece seria, i suoi occhi che cercavano di comunicare qualcosa di profondo. «Alexander, io... non lo so,» disse, il tremore nella sua voce era inconfondibile. «Quell'uomo era infuriato e la ha messa nella sua macchina. Avevo paura e non ho fatto niente. Non ho fatto niente.»

Il cuore mi si fermò per un attimo. Le sue parole risuonavano nella mia testa come un eco. Non potevo permettere che accadesse qualcosa a lei. Mi avvicinai a Molly, la mia rabbia e la mia frustrazione si trasformarono in una protezione instintiva. «Tu non hai fatto niente,» dissi, cercando di rassicurarla, ma anche di convincere me stesso.

Ma il suo sguardo era pieno di ansia. «Io… avevo…,» tentò di spiegare, ma non la lasciai continuare.

«Zitta!» urlai, il suono della mia voce che rompeva il silenzio della caffetteria. Non avevo intenzione di aggredirla, ma la paura mi stava consumando. Senza pensarci due volte, rovesciai il tavolo dove stava sistemando i vassoi, e le tazze e i piatti tintinnarono mentre tutto volava in aria. «Non hai fatto niente!» ripetei, mentre la guardavo indietreggiare, spaventata e confusa.

Molly si bloccò, il viso pallido mentre il mio sguardo si fissava su di lei. L’avevo spaventata, e non era mai stata mia intenzione. Ma quell’uomo, John, aveva il potere di distruggerla. Volevo proteggerla, ma la mia rabbia era come un’onda che non riuscivo a controllare.

La frustrazione si era trasformata in un’onda di rabbia incontrollabile. «Tu dovevi proteggerla, cazzo!» urlai, il suono della mia voce rimbombava nel corridoio della caffetteria. «Adesso lei è lì a fare la puttana per colpa tua! Perché non hai fatto niente?!»

Molly si fece indietro, il viso pallido e gli occhi spalancati. «Alexander, non è così semplice! Non sapevo che sarebbe andata così…» La sua voce tremava, ma io non volevo ascoltarla. La mia mente era in preda al panico, ogni secondo che passava senza Alexa mi faceva sentire sempre più impotente.

Fu allora che il suono del mio cellulare mi interruppe. Il nome sullo schermo fece accelerare il battito del mio cuore. Era il telefono di Alexa. Mi avvicinai alle sue cose, dove avevo visto il suo cappello bianco poco prima, e presi il suo cellulare in mano. La vista di quel capello mi riportò a quando l'avevo vista per l'ultima volta, felice e spensierata.

Feci scorrere il display fino a trovare il numero di Marie. Un istinto primordiale mi fece rispondere. «Che cazzo vuoi anche tu, Marie?» dissi, la mia voce carica di tensione e frustrazione.

«Alexander, ti prego, vieni all’ospedale!» La voce di Marie era affannata. «Sta nascendo il tuo bambino.»

Rimasi a bocca aperta, il mondo attorno a me svanì in un istante. Chiusi gli occhi, cercando di riordinare i pensieri. «Cazzo,» sussurrai, sentendo la realtà schiacciarmi come un peso. Mi ritrovai a tremare, le mani sudate mentre lottavo per capire come fosse possibile.

Sbattei il cellulare e guardai Molly con un’espressione furiosa. «Devo andare, ora. Vai allo strip club Valved, per favore. Devi aiutarmi a trovare Alexa!»

La notizia che il mio bambino stava nascendo mi colpì come un martello. Una scarica di adrenalina attraversò il mio corpo, ma il pensiero che Alexa fosse stata rapita dal suo stronzo di padre mi fece tremare. Ero nella merda più totale. «Cazzo!» esclamai, la frustrazione che ribolliva dentro di me. È più importante il mio bambino o Alexa?

La risposta era semplice, ma il mio cuore si contorceva per la scelta. Avevo sempre scelto lei, quella creatura così dolce e tenera, e ora sembrava che tutto si stesse frantumando. La mia mente vagava, cercando di trovare un punto fermo nel caos.

«Lo strip club Valved ha chiuso da un bel po’.» I suoi occhi si fecero grandi, come se realizzasse la gravità della situazione.

«No… non è possibile,» la interruppi, la negazione che affiorava sulla mia faccia. «Non può essere chiuso.» La mia voce si fece più dura, quasi un comando. Avevo bisogno di speranza, di qualcosa su cui aggrapparmi.

«Alexander, è stato chiuso un mese fa,» ripeté, il tono di Molly era calmo, ma il suo sguardo rivelava la preoccupazione che provava per me.

La mia mente era in subbuglio. Se non era lì, dove cazzo l'aveva portata quel coglione di suo padre? Mi passò per la mente l’immagine di John che afferrava Alexa, trascinandola via come se fosse un oggetto, come se non fosse una persona. Le mani di quel bastardo avevano osato sfiorare la sua pelle delicata, e la sola idea mi faceva ribollire il sangue.

Uscì dalla caffetteria e salii in macchina, la tensione nel mio corpo aumentava a dismisura. Avevo preso le cose di Alexa, una piccola borsa e il suo cappotto, e le avevo posate sul sedile passeggero accanto a me. «Trovala,» dissi a Molly, la voce che tremava di preoccupazione. «Controlla in tutti gli strip club. Non possiamo lasciarla in balia di quel bastardo.»

Molly annuì, ma i suoi occhi erano pieni di angoscia mentre si allacciava la cintura di sicurezza. «Certo,» rispose, cercando di mantenere un tono calmo, ma il tremore della sua voce tradiva il suo stato d’animo. Sapeva quanto fosse importante trovare Alexa, quanto fosse fragile in quel momento.

Iniziai a muovermi lungo la strada, accelerando per raggiungere lo strip club. Il pensiero di Alexa mi consumava dall’interno. Avevo bisogno di trovarla, di sapere che era al sicuro. Le luci della città sfrecciavano oltre i finestrini mentre la mia mente ruminava su ogni possibile scenario.

Arrivai davanti allo strip club, ma un’orrenda sensazione di nausea mi colpì mentre osservavo la scena. Le luci erano spente e il luogo era avvolto nel buio, un segno inequivocabile che era chiuso. La mia speranza si infranse come un vetro rotto, e la realtà mi colpì in pieno volto. «Cazzo!» urlai, sbattendo il pugno sul volante. «Dove sei, Alexa?»

«Dove sei, amore?» mormorai tra i denti mentre le mie mani stringevano forte il volante, le nocche sbiancate per la tensione. Le luci della città scorrevano veloci fuori dai finestrini, ma io non riuscivo a vederle chiaramente. Gli occhi mi bruciavano, colmi di lacrime che cercavo di trattenere. Non era solo rabbia, ma paura. Alexa era scomparsa e io ero completamente impotente.

Girando l’auto bruscamente, mi diressi verso l’ospedale. Le mie emozioni erano un vortice che non riuscivo a fermare. Singhiozzai, tentando di riprendere il controllo, ma ogni volta che pensavo al fatto che mio figlio stava per nascere, la mia mente tornava a lei. Alexa, dove cazzo sei?

Nonostante il caos che mi ribolliva dentro, una parte di me non poteva fare a meno di pensare a quel piccolo essere che stava arrivando. Mary l'aveva chiamata Luisana. Il nome mi suonava strano, lontano. Non mi piaceva, non riuscivo a sentirlo come mio. Ma era mia figlia. La mia cazzo di bambina. E questo mi bastava per provare a essere felice in mezzo a tutto questo casino.

L’ospedale apparve in lontananza, freddo e distante. Parcheggiai con una frenata brusca e corsi fuori dall'auto, lasciando la portiera aperta. Il freddo mi colpì in pieno volto, ma non mi fermò. Il nodo alla gola si fece più stretto mentre mi dirigevo a passo svelto verso l’ingresso, il cuore che batteva a un ritmo insostenibile. Non vedevo l’ora di vedere quella piccola creatura tra le mie braccia, la mia bambina.

Mentre correvo lungo i corridoi bianchi e sterili dell’ospedale, la mia mente continuava a dividersi. Da una parte la felicità di sapere che stava nascendo mia figlia, dall’altra il terrore di non sapere dove fosse Alexa. La mia vita si era incasinata così tanto che non sapevo più come gestirla. Due mondi paralleli, due amori diversi. Uno, quella piccola anima che stava per venire al mondo. L’altro, la donna che non riuscivo a smettere di amare.

Arrivai alla reception con il cuore che batteva forte nel petto. «Marie Walton,» dissi, cercando di tenere ferma la voce, anche se dentro di me c'era un caos totale.

L'infermiera alzò appena lo sguardo, digitando qualcosa sul suo computer. «Secondo piano, sala parto. Stanza privata,» rispose con il suo tono impersonale.

Annuii, anche se avevo la testa altrove. Stanza privata. Sembrava un dettaglio così insignificante, eppure mi dava un senso di isolamento. Forse di protezione. Salii sull'ascensore con il cuore che mi martellava nelle orecchie, mentre il mio respiro si faceva più corto. Le porte si chiusero lentamente e il movimento verso l'alto sembrava più lento del solito.

Il silenzio dell'ascensore mi avvolgeva. Pensai ad Alexa. Dove diavolo era? Le lacrime mi pungevano ancora gli occhi, ma le asciugai velocemente con il dorso della mano. Non era il momento di crollare. Non ora. Non qui.

Le porte si aprirono e mi trovai davanti al corridoio del secondo piano. Mi fermai per un istante, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo. Dovevo essere pronto. Non potevo permettermi di essere debole, non in questo momento. Con un ultimo sospiro, mi feci forza e spinsi la porta della stanza privata.

L'immagine che mi si presentò davanti mi fece fermare di colpo. Marie era seduta sul letto, il viso pallido e stanco, ma sorridente. La bambina, nostra figlia, era nelle sue braccia. Così piccola, avvolta in una copertina rosa che sembrava quasi troppo grande per lei. Il tempo sembrò fermarsi per un istante.

Ma c'era qualcos’altro che attirò subito la mia attenzione. Un uomo. Alto, con i capelli castani leggermente arruffati, stava in piedi vicino al letto, con un’espressione che non riuscivo a decifrare. Non sapevo chi fosse. Marie non mi aveva mai parlato di nessuno che sarebbe stato lì.

Il mio sguardo si spostò dalla bambina a quell’uomo, e poi di nuovo a Marie. «Chi cazzo è lui?» chiesi, il tono della mia voce più duro di quanto avessi intenzione.

Marie alzò un sopracciglio e un sorriso ironico si dipinse sul suo viso, mentre con un gesto leggero passava la mano sui capelli. «Sei geloso adesso, Alex?» La sua voce era morbida, ma c'era una sfumatura di sfida che mi irritava.

Stringendo leggermente Luisana tra le braccia, la guardai fisso negli occhi. «Non sono geloso di te, Marie. Non lo sono mai stato.» Il tono della mia voce era tagliente, controllato. Non avevo tempo per questi giochetti, non adesso. La mia mente era altrove, con Alexa, dispersa da qualche parte e fuori dal mio controllo. Ogni fibra del mio corpo era tesa, in bilico tra la paura e la rabbia.

Marie rise piano, come se non mi prendesse sul serio. «Oh, certo...» disse con una leggera nota sarcastica, e spostò lo sguardo sull'uomo accanto a lei, che rimaneva in silenzio. Non gli avevo mai visto il volto prima d'ora, e questo mi irritava. Cosa ci faceva lì, con mia figlia e la madre di mia figlia, in un momento così intimo?

Mi voltai leggermente, guardando Luisana, che dormiva tranquillamente tra le mie braccia, completamente ignara del caos intorno a lei. Mi sforzai di concentrarmi solo su di lei, sul suo respiro regolare, ma la mia mente continuava a vagare verso Alexa. Ogni secondo che passava senza sapere dove fosse mi faceva sentire come se stessi affogando.

«Marie, chi è lui?» chiesi di nuovo, questa volta con una calma pericolosa. Lei sospirò, visibilmente infastidita dal fatto che non lasciassi perdere.

La tensione nella stanza divenne palpabile, ogni secondo sembrava dilatarsi mentre i miei occhi passavano da Marie all’uomo che teneva tra le braccia Luisana. Non riuscivo a respirare, il mondo attorno a me sembrava vacillare. Marie mi fissava, con quella calma arrogante che aveva sempre usato per farmi sentire inferiore, come se sapesse qualcosa che io ignoravo.

«Non c'è Alexa perché?» sibilò, quasi come una sfida. Le parole mi fecero esplodere. «Rispondi alla mia cazzo di domanda: chi è lui?» Puntai un dito verso l'uomo, la mia voce traboccava di rabbia, la stessa rabbia che avevo cercato di tenere sotto controllo da quando ero entrato in quella stanza. Lui non disse nulla, sembrava quasi imperturbabile, come se tutto questo non lo riguardasse affatto.

Marie alzò un sopracciglio, poi rise. «Secondo te, Alexander?» Il suo tono era velenoso, carico di disprezzo. «Quando tu mi tradivi, credi che io stavo lì a guardare come una povera stupida? Mi lasciavi sola, tradendomi con quale puttana? Ah, sì… Theodora. Te la ricordi, vero?»

Theodora. Il nome mi colpì come un pugno allo stomaco. Il passato tornava a galla in un modo che non mi aspettavo. Non era un segreto che tra me e Marie le cose non fossero mai state perfette, ma ora era come se stesse scavando con le unghie in vecchie ferite che credevo chiuse.

«Cosa c’entra Theodora, adesso?» chiesi, cercando di mantenere la calma, ma sentivo il controllo sfuggirmi di mano.

Marie rise di nuovo, ma questa volta il suo sorriso era amaro, quasi crudele. Si voltò leggermente verso l'uomo che stava accarezzando la testa di Luisana con una dolcezza che mi irritava ancora di più. «Pensavi davvero che Luisana fosse tua, Alexander?»

Sentii il pavimento sotto di me scomparire. «Cosa?» sussurrai, incapace di credere a ciò che stavo sentendo. «Certo che è mia, Marie.» Ma le mie parole suonavano vuote, come se stessi cercando di convincermi di qualcosa che già non credevo più.

Lei scosse la testa, e poi, con una calma glaciale, pronunciò quelle parole che cambiarono tutto. «No, Alexander, Luisana non è tua.»

Mi fermai, come se avessi appena preso un colpo al petto. Le mie mani tremavano, sentivo la gola chiudersi. «Cosa diavolo stai dicendo?» mormorai, ma lei non distolse lo sguardo. «Tu eri troppo occupato con le tue 'faccende'. Con Alexa, con Theodora, chiunque fosse il sapore del mese. Io avevo bisogno di qualcosa di vero. E così è successo.»

Il mondo sembrava girare più lentamente. Ogni parola di Marie cadeva come una condanna, un’accusa di cui non riuscivo a difendermi. E quell'uomo… lui era rimasto lì, in silenzio, come se sapesse tutto dall'inizio, come se fosse già il padre di quella bambina.

Mi passai una mano tra i capelli, cercando di processare ciò che stavo sentendo. «E tu, Marie? L’hai mai detto? Hai mai pensato di parlarmi di questa ‘verità’?» La mia voce era un misto di incredulità e rabbia repressa.

Marie non rispose subito. Guardò l'uomo che teneva la bambina in braccio e poi tornò a fissarmi, con quello stesso sguardo freddo. «E per cosa, Alexander? Per farmi deridere? Perché tu non saresti cambiato. Non hai mai amato Luisana davvero. E lo sai.»

La realtà mi colpì con violenza. Era come se ogni singola cosa nella mia vita stesse crollando. Alexa era scomparsa, Luisana non era mia, e tutto quello che avevo costruito stava sgretolandosi sotto i miei piedi.

Non capivo. L’aria era densa di tensione e il battito del mio cuore risuonava nelle orecchie come un tamburo impazzito. Guardai Marie, i suoi occhi scintillanti di una sfida che mi infuriava. «Aspetta, non capisco. Tu mi hai tradito perché io ti ho tradito? E poi hai detto che quella bambina era mia solo per vendicarti?»

Marie si limitò a sorridere, un sorriso che non prometteva nulla di buono. «Sì, è andata più o meno così,⟩ disse, come se stessimo semplicemente discutendo del tempo, non della nostra vita o della vita di un’altra persona. La bambina, Luisana, dormiva serena tra le sue braccia, ignara del caos che ci circondava.

La mia rabbia ribolliva dentro di me. «Sei una troia, Marie.» Le parole uscirono dalla mia bocca con una veemenza che non avrei mai immaginato di avere.

Lei rise, una risata che echeggiava con una freddezza disarmante. «L'unica troia qui è la tua fidanzata, Alexa,» disse con un ghigno. «Sai, quella che faceva la stripper di qua e di là, vendendosi al miglior offerente. È questo il tuo grande amore? L’hai persa, Alexander, e adesso non la ritroverai più.»

Le sue parole mi colpirono come un pugno allo stomaco. Stavo cercando di afferrare la realtà di quanto stava succedendo, ma le sue affermazioni continuavano a rimbombare nella mia testa. La mia mente vagava, cercando di trovare una risposta, ma ogni tentativo di razionalizzare tutto ciò che Marie stava dicendo si infrangeva contro il muro della mia confusione.

Mi girai, incapace di rimanere ancora un attimo in quella stanza. Le spalle mi tremavano di rabbia e impotenza, ma sapevo che avrei dovuto mantenere la calma. Ogni muscolo del mio corpo si stava preparando a esplodere in una furia che non avrei potuto controllare.

«Non parlare mai più di Alexa,» dissi, la voce bassa ma carica di minaccia. «Non sei neanche degna di nominarla.»

Marie continuò a ridere, la sua risata fredda e beffarda. «Oh, andiamo, Alexander. Apri gli occhi. Hai sempre saputo chi era Alexa, ma ti faceva comodo ignorarlo, no? Preferivi credere che fosse innocente, che fosse diversa. Ma le persone non cambiano. E lei non è diversa.»

«Come sapevi che e scomparsa?» La mia voce era un sussurro carico di tensione. Marie, con il suo sorriso malizioso, si era già trasformata in un iceberg di freddezza, ma ogni mia parola cercava di strapparle qualcosa, un indizio, una verità. «Tu lo sai, dove si trova. Dimmi dove.»

«Ti dico solo che non sarai più un professore,» rispose, incrociando le braccia e inclinando la testa di lato, come se stesse valutando se fossi degno della sua attenzione. «Theodora dirà tutto su di voi due.» Le sue parole colpirono come un fulmine. L’idea che Theodora potesse rivelare la nostra storia era devastante.

«Non mi interessa quello che può dire,» risposi, anche se una parte di me tremava all’idea di essere esposto. «Dove sta Alexa?»

Marie si spostò sul letto, il suo sguardo si fece più attento. «Xavier, suo fratello, sa dove si trova,» aggiunse, un tono di complicità nella voce. «Era tutto programmato nei minimi dettagli. E adesso tocca a te, Alexander Blake. Devi decidere se andare a cercarla o se rimanere qui a leccarti le ferite.»

Le sue parole erano veleno, ma la verità mi colpì come un pugno nello stomaco. Sapevo che Xavier era un pezzo fondamentale in tutto questo; lui non solo aveva le informazioni, ma anche il potere di decidere il destino di Alexa e il mio.

«Dove posso trovarlo?» chiesi, il mio tono si fece più deciso, mentre i pensieri si affollavano nella mia testa. Avevo bisogno di un piano, ma prima avrei dovuto affrontare Xavier.

La mia mente era in subbuglio mentre Marie si allontanava da me, e il suo volto, solitamente sicuro, ora era teso e serio. «Cosa intendi dire?» chiesi, mentre il battito del mio cuore si accelerava.

«Theodora ha registrato un video,» disse, le parole uscirono come un sussurro, ma erano cariche di una gravità insopportabile.

«Che cazzo ha fatto?» chiesi, il mio tono si fece più brusco, il cuore che si stringeva. Il mondo intorno a me sembrava svanire mentre cercavo di afferrare la portata di ciò che stava dicendo.

«Un video… di te e Alexa.» La sua voce era fredda, quasi divertita dalla mia reazione. «Hai presente il giorno in cui avete scopato in aula?»

Non avevo bisogno di chiedere ulteriori dettagli; il ricordo di quel momento tornò a colpirmi come un martello. La camera, le sue labbra, la tensione palpabile. Ogni istante di quel giorno era stato inciso nella mia memoria, ma ora il mio stomaco si contorse in una morsa di nausea.

«Marie, dove sta Alexa?» chiesi, la mia voce un misto di preoccupazione e frustrazione. Ogni parola che pronunciavo sembrava un colpo di martello sul tavolo, eppure Marie si limitò a guardarmi, l’espressione sul suo volto un mix di sfida e indifferenza.

«Non te lo dico. Devi scoprirlo da solo, Alexander,» rispose, il tono quasi beffardo. La sua freddezza mi infuriava. La mia pazienza stava per esaurirsi.

«Dimmi dove cazzo è!» urlai, il volume della mia voce rimbombò nella stanza, facendo sobbalzare Marie. Sussultò, il volto un po' più pallido, ma non si scostò di un millimetro.

«Esci da questa stanza e stai lontano da me e dalla mia famiglia,» disse, alzando la voce per la prima volta, una ferrea determinazione nei suoi occhi. Non riuscivo a credere che stesse cercando di mettersi tra me e Alexa, l’unica persona che desideravo proteggere.

«Sto lontano dalla tua cazzo di famiglia!» avevo urlato, la mia voce risuonava come un tuono nel corridoio dell’ospedale. Uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di me con un gesto brusco. Il pianto della bambina mi seguiva, ma non potevo fermarmi. Non potevo permettere che la mia vita andasse a puttane così. Dovevo trovare Alexa, doveva esserci una soluzione a tutto questo. Sapevo che Xavier stava tramando qualcosa, ma Alexa era troppo buona, troppo fiduciosa, per accorgersene.

Senza pensarci due volte, aprii la portiera della mia Tesla, sentendo il cuore battere forte nel petto. Dovevo andare a casa di Theodora, dovevo scoprire la verità. Mentre mi sedevo al volante, il mondo sembrava girare più veloce di quanto potessi controllare. La frustrazione e la paura si mescolavano, creando un groviglio di emozioni che mi attanagliava. Accesi il motore e schiacciai il pedale dell’acceleratore.

La Tesla sfrecciava lungo l'autostrada, ma la mia mente era affollata da pensieri confusi. Il traffico era denso, le macchine si muovevano a rilento, e il mio istinto mi diceva che il tempo stava scivolando via, come sabbia tra le dita. La frustrazione si trasformò in rabbia. Cazzo, pensai, battendo le mani sul volante. Ogni secondo sprecato mi avvicinava a una verità che temevamo di affrontare.

L'auto si muoveva a scatti, e ogni volta che rallentavamo, un'ondata di ansia mi colpiva come un pugno allo stomaco. Non avevo il controllo della situazione, e il panico cominciava a farsi strada nei miei pensieri. Devo trovare Alexa. Devo sapere dove si trova.

Ma l'auto non sembrava rispondere come avrebbe dovuto. I freni, che avevo controllato poco prima di partire, sembravano ora una mera illusione. Non c'era più tempo, e il traffico che ci circondava era una trappola che si chiudeva su di me.

Ad un certo punto, mentre un camion si avvicinava a tutta velocità, il panico si trasformò in terrore. Provai a frenare, ma il pedale si sentiva molle e poco reattivo. L'auto continuava a muoversi, e il cuore mi balzò in gola. Cazzo, no. Non ora.

L’istinto di sopravvivenza si impadronì di me. Girai il volante, cercando di schivare il camion che stava per investirmi. Ma tutto successe in un attimo, un lampo di follia. Sentii un urlo, ma non era il mio. La collisione avvenne in un fragore assordante. L'impatto fu devastante, come se il mondo si fosse fermato.

Il vetro si frantumò e le lamiere si contorsero. La mia testa colpì violentemente il volante, il dolore esplose e tutto divenne confuso. Alexa, pensai. La mia mente cercava disperatamente di aggrapparsi a quel pensiero, mentre il buio si avvicinava come un’ombra inesorabile.

Sprofondai in un abisso senza fondo. I rumori del mondo esterno svanirono, sostituiti da un silenzio assordante. Non sentivo più nulla, solo l'eco di pensieri in frammenti, mentre la mia coscienza si allontanava.

E mentre il mondo esterno continuava a girare, io ero intrappolato in un limbo, lasciandomi scivolare sempre più lontano dalla realtà. Dove sei, Alexa? era l'ultima domanda che mi accompagnava prima che tutto si spegnesse.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top