𝓐𝓵𝓮𝔁𝓪𝓷𝓭𝓮𝓻

Quattordici anni fa.

Guardavo fuori dalla mia stanza, le tende bianche svolazzavano leggere al soffio del vento che entrava dalla finestra semiaperta. Il cielo era azzurro, con qualche nuvola sparsa che sembrava disegnata a mano. La mia stanza era abbastanza grande, con un letto a baldacchino e una scrivania in legno massiccio, piena di libri e quaderni aperti. Ma non era il mio piccolo mondo sicuro che mi preoccupava in quel momento.

Guardai i poster della mia band preferita, i Black Velvet, appesi ordinatamente sulla parete accanto al mio letto. Mi ero rifugiato nella loro musica in quel periodo, cercando una via di fuga dalla pressione che mio padre esercitava su di me. Era strano come la musica potesse farmi sentire libera, mentre tutto intorno a me sembrava incatenato alle aspettative di José Blake. Le canzoni parlavano di ribellione, di amore impossibile e di sogni infranti, e risuonavano dentro di me come una promessa che esisteva qualcosa oltre questo mondo opprimente.
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Mio padre, José Blake, non era solo un uomo di successo, era il successo incarnato. Ovunque andasse, la sua presenza riempiva la stanza, non lasciando spazio a nient'altro. Il suo nome incuteva rispetto e timore nei suoi colleghi, nei dipendenti, persino negli amici. Ma per me, per sua figlia, quell’aura di potere era soffocante. La sua figura incombeva su ogni mia decisione, su ogni passo che cercavo di fare verso la mia indipendenza. Per lui, il mio destino era già tracciato. Dovevo diventare come lui: forte, spietata, una leader.

Voleva che seguissi i suoi passi, che studiassi economia e finanza, che un giorno ereditassi l’impero che aveva costruito con le sue stesse mani. Un futuro dorato, a detta sua. Ma io… io volevo altro. Mi ero innamorata della letteratura fin da bambina, quando mia madre mi leggeva storie prima di dormire. Era come se le parole avessero il potere di trasportarmi in un altro mondo, lontano dalle responsabilità e dalle aspettative che pesavano su di me come una cappa opprimente.

Volevo insegnare. Sì, volevo diventare un professore universitario e dedicare la mia vita a ciò che amavo davvero: i libri, le storie, le parole. Volevo parlare ai giovani di poesia, di romanzi, di come le storie potessero cambiare il mondo, anche se solo per un momento. Ma ogni volta che cercavo di parlarne con mio padre, lui scuoteva la testa con disappunto.

Ultimamente ho iniziato a fumare, nonostante mio padre me lo avesse proibito categoricamente. Ogni volta che accendevo una sigaretta, sentivo il brivido dell’adrenalina mescolato alla paura di essere scoperto. Mio padre non sospettava niente, o almeno così pensavo. Lui era sempre troppo occupato con i suoi affari per accorgersi di questi dettagli della mia vita, ma non avrei dovuto sottovalutarlo. Era un uomo che notava tutto, anche le cose che cercavo di nascondere meglio.

L'estate scorsa mi aveva iniziato a bere. Ero in vacanza ai Caraibi con un gruppo di amici. Ma quella sera, un impulso irrefrenabile mi aveva spinto a cambiare compagnia. I ragazzi con cui ero partito non erano più quelli di cui avevo bisogno. Volevo evadere, cercare una fuga dalla monotonia della mia vita. Così mi allontanai dal gruppo e andai in un bar, un locale dall'atmosfera vibrante e dalla musica avvolgente. Le luci erano soffuse, e il profumo di alcol e sale riempiva l'aria.

Non avevo idea che anche i miei genitori fossero lì. Erano a pochi tavoli di distanza, immersi nella loro vita di divertimento, ignari del conflitto che infiammava la mia anima. Quando lo scoprii, il cuore mi si fermò per un momento. L'idea che mi avessero visto, che avessero potuto scoprire il mio segreto, era insopportabile. Ma era troppo tardi. La mia mente era già annebbiata dall'alcol, e il mio orgoglio mi impedì di tornare indietro.

La notte si trasformò in un vortice di risate e bicchieri alzati. Ogni sorso di rum sembrava smorzare il dolore, silenziare la voce interiore che urlava di tornare indietro, di smettere di bere. Ma la libertà che provavo era effimera. Più bevevo, più perdevo il controllo. E quando finalmente l'ubriachezza mi avvolse in un abbraccio letargico, le conseguenze non tardarono ad arrivare.

Mio padre ricevette una telefonata quella notte, e il suo viso cambiò espressione. Ricordo il suo tono furioso mentre parlava al telefono, il modo in cui le sue mani tremavano. Non riuscivo a capire cosa stesse dicendo, ma il suo sguardo era chiaro. Non avrebbero tollerato il mio comportamento. E così, come una punizione, mi rispedirono a New York mentre loro continuavano a divertirsi ai Caraibi.

Ritornai nella mia camera, il silenzio e la solitudine erano palpabili. Mentre loro ballavano sulla spiaggia, io ero prigioniero dei miei demoni, a combattere contro una depressione che mi consumava lentamente. Quando avevo sedici anni, tutto era cambiato. Un buco nero si era aperto dentro di me, un abisso che sembrava inghiottire ogni cosa. I miei genitori non si erano mai accorti di nulla. Erano troppo concentrati sulla loro immagine perfetta e sulle loro vite frenetiche. Non si erano mai chiesti come stavo, se avessi bisogno di aiuto.

Le mie giornate si trasformarono in un susseguirsi di ore vuote, di pensieri confusi. Ogni mattina mi svegliavo con un peso sul petto, come se qualcuno mi avesse schiacciato. Cercavo di nascondere il dolore, ma era sempre lì, un compagno silenzioso e invadente. E nei momenti di quiete, quando finalmente la notte calava e mi trovavo solo con i miei pensieri, la verità si faceva sentire. Mi sentivo invisibile, incompreso, come se fossi solo un’ombra nella vita di chi mi circondava.

Sopravvivevo con la consapevolezza che nulla sarebbe cambiato, che nessuno si sarebbe mai preso il tempo di ascoltarmi.

Passò un anno. Mi ero immerso negli studi, diventando il migliore della mia classe. I voti eccellenti si accumulavano, ma la soddisfazione era sempre fugace. Ogni volta che portavo a casa un risultato positivo, cercavo l'approvazione di mio padre. Ma lui, nonostante la mia dedizione e il mio impegno, sembrava sempre distante, intrappolato in un mondo di aspettative e ambizioni che non mi appartenevano.

Ci trovavamo nel suo studio, un luogo che emanava un'aria di serietà e disciplina. Ogni libro era posizionato con cura, i suoi successi e le sue aspirazioni riflettevano l'uomo che era: un imprenditore affermato, un genitore che non si accontentava mai. Le pareti erano decorate con riconoscimenti e fotografie di eventi di gala, tutti testimoni di una vita costruita con fatica. Ma per me, tutto quel successo era solo un peso. La mia vera passione era la letteratura, e non avevo mai smesso di sognare di diventare un professore universitario, di insegnare ai ragazzi ad amare i libri e le storie.

Mio padre camminava nervosamente nella stanza, il suo sguardo era teso, le mani affondate nelle tasche della giacca nera, il viso rigido come se stesse affrontando una battaglia. Indossava una camicia bianca perfettamente stirata, una cravatta che sembrava quasi strangolarlo e pantaloni neri impeccabili. Ogni dettaglio del suo abbigliamento parlava del suo status, di un uomo che non poteva permettersi di mostrarsi debole.

«Ma che cazzo fai, Alex?» urlò all'improvviso, la voce rimbombò nel silenzio dello studio. «Non voglio che tu faccia quell'università. Devi capire che il nostro nome, la nostra reputazione, non possono essere messi a rischio!»

Le sue parole colpirono come un pugno. Il calore della rabbia mi salì alle guance mentre cercavo di mantenere la calma. «Non voglio seguire le tue orme, papà. Ho già scelto cosa voglio fare della mia vita. La letteratura è la mia passione, non la tua azienda!»

Il suo sguardo si fece ancora più duro, e il suo tono diventò gelido. «Non capisci, vero? Non è solo una questione di scelte personali. Le scelte hanno conseguenze. La tua vita è un riflesso di ciò che rappresentiamo come famiglia. Se fallisci, falliamo tutti.»

«Non posso vivere per le tue aspettative, papà!» risposi, la voce tremante. «Ho bisogno di trovare la mia strada, di scoprire chi sono veramente.»

Mi fissò, e per un attimo, i suoi occhi si softenirono. Ma fu solo per un attimo. «Sei un ragazzo intelligente, Alex. Non buttare via il tuo potenziale per qualcosa di inutile. La letteratura non ti darà mai nulla, mentre io posso offrirti un futuro luminoso.»

«Non è inutile per me!» sbottai, il cuore che batteva all'impazzata. «La letteratura è ciò che mi fa sentire vivo! È quello che voglio fare!»

In quel momento, il silenzio divenne opprimente. La tensione tra noi era palpabile, una frattura che sembrava impossibile da colmare. Mi resi conto che non avrei mai ottenuto il suo sostegno, che ogni tentativo di fargli capire la mia passione sarebbe stato vano.

«Lascia stare, Alex. È inutile,» concluse, allontanandosi e ritornando al suo lavoro. La sua figura si affievolì mentre io rimanevo lì, paralizzato dall'impotenza e dalla frustrazione. In quel momento, capii che non potevo continuare a combattere contro un muro. Avrei dovuto trovare la mia strada, anche se questo significava farlo da solo.

Uscì dallo studio, lasciandomi solo con i miei pensieri. Il mondo continuava a girare, ma la mia vita sembrava essersi fermata. E in quel silenzio, il peso delle aspettative di mio padre gravava su di me come un macigno. Nonostante i miei successi accademici, non riuscivo a sentirmi appagato. La mia mente era un campo di battaglia, e i demoni che avevo combattuto per tanto tempo erano tornati, più forti che mai.

Passarono sei mesi da quel confronto con mio padre e la mia vita a scuola continuava ad oscillare tra un’apparente normalità e il caos interiore che mi consumava. Non parlavo più con nessuno, tranne che con lui: il mio spacciatore, un ragazzo della mia classe che sapevo tutti conoscessero per il suo giro di affari poco legale. La mia scuola, un’istituzione pubblica con una mensa che serviva cibo a dir poco discutibile, si trovava in una zona dove il lusso era solo un lontano ricordo.

La mensa offriva di tutto, dai panini scadenti alle insalate con verdure appassite. Non era raro trovare hamburger che sembravano più un esperimento scientifico che un pasto. Oggi, in particolare, avevo un piatto di pasta scotta con salsa di pomodoro che galleggiava su un mare di grasso e un pezzo di pizza che aveva visto giorni migliori. Mangiavo in silenzio, perdendomi nei pensieri, mentre il mio spacciatore, Derek, mi osservava da fronte. La sua espressione era seria, e il suo tono non ammetteva repliche.

«Mi devi ventimila dollari, Blake,» disse, incrociando le braccia sul tavolo. La sua voce era un misto di autorità e impazienza, come se il suo rispetto per me stesse lentamente svanendo.

Lo sguardo degli altri ragazzi si era girato verso di noi, curiosi e intrigati. A nessuno importava realmente della mia vita personale, ma il dramma aveva sempre il suo fascino. Sapevo che la situazione era pericolosa, ma la mia mente era annebbiata dall'uso di sostanze e dalle pressioni che mi circondavano.

«Lo so,» risposi, abbassando lo sguardo per evitare il suo. «Domani te li darò, ma non posso darteli tutti in una volta.»

Il suo sguardo si fece più penetrante, come se cercasse di valutare la mia sincerità. «Non puoi continuare a farmi aspettare. Ogni giorno che passa mi metti in una posizione scomoda. Non sono qui per fare il tuo banchiere personale, Blake.»

Mi sentii stringere lo stomaco. La verità era che, nonostante la mia volontà di smettere, il bisogno di sostanze era diventato parte della mia vita. Era più di un semplice rifugio dai miei problemi; era diventato un modo per affrontare le mie paure e il peso delle aspettative che mi schiacciavano. E ora mi ritrovavo intrappolato in un debito che cresceva sempre di più, come una bestia che si nutriva della mia insicurezza.

«Prometto che domani ti porterò un assegno,» insistetti, cercando di mantenere la calma. «Fidati di me.»

Derek si inclinò in avanti, il suo volto vicino al mio, e la sua presenza era intimidatoria. «Se non lo fai, potrei dover cercare un modo per ottenere quello che mi spetta. E non sarà piacevole per te.»

Sentii un brivido lungo la schiena. Sapevo che il suo giro di affari era rischioso, e che un rifiuto non era un'opzione da prendere alla leggera. Era un gioco pericoloso e io mi trovavo nel bel mezzo di una partita che non avrei mai voluto giocare.

La campanella suonò, interrompendo il nostro scambio. Derek si allontanò, ma non prima di lanciarmi un ultimo sguardo avvertito. «Spero che tu mantenga la tua parola, Blake,» disse, e poi si alzò, lasciandomi da solo con il mio piatto di pasta, fredda e insipida, che rifletteva perfettamente il vuoto della mia vita.

Mentre mi guardavo intorno, notai i miei compagni di classe che ridevano e chiacchieravano, ignari del caos che stavo vivendo. Ero circondato da ragazzi che sembravano vivere senza pesi, mentre io ero bloccato in una spirale discendente da cui sembrava impossibile risalire. Avevo perso il contatto con chi ero veramente, e ogni giorno era una lotta per trovare la forza di affrontare la realtà.

Avevo comprato la droga tutta in una volta, un acquisto che avrei dovuto evitare, ma la tentazione era stata troppo forte. C’era una sorta di brivido nell’affrontare il rischio, nell’imbattersi nell’ignoto con la speranza che il tempo potesse scorrere un po’ più veloce e che la mia vita potesse tornare a essere normale, anche se sapevo che questo non sarebbe mai successo.

Mi alzai di scatto, il cuore che batteva nel petto come un tamburo impazzito, e afferrai lo zaino, il mio rifugio, la mia salvezza. Sapevo che dentro c’erano i miei segreti, le mie scelte discutibili, e ora, anche quella merce. Dovetti compilare un foglio per uscire prima del tempo. Scrivere il mio nome e il motivo della mia uscita, una formalità che mi sembrava ridicola. Ma a quel punto, ogni formalità mi appariva come una farsa.

L’idea di mettere la droga nel posto dove la governante non avrebbe potuto trovarla si affacciò rapidamente nei miei pensieri. Conoscevo bene la casa: ogni angolo, ogni crepa, ogni rifugio nascosto che avevo sfruttato in passato. Ma ora, più che mai, dovevo essere astuto, dovavo muovermi con cautela.

Uscì di scuola e, con il cuore in tumulto, presi la metro per tornare a casa. Le porte del vagone si chiusero con un suono sordo, mentre il treno cominciava a muoversi. Con il viso appoggiato al finestrino, guardavo il paesaggio urbano scorrere velocemente. I palazzi, i cartelloni pubblicitari e le persone si fondavano in un blur, riflettendo la confusione che sentivo dentro di me. Ogni fermata sembrava un'eternità, e il battito del mio cuore aumentava ad ogni chilometro che ci allontanava da scuola.

Quando finalmente arrivai a casa, l’atmosfera era tesa. La porta era aperta, ma c’era qualcosa di strano nell’aria. In un attimo, la mia mente corse a mille. Ero abituato a un silenzio ovattato, ma quel giorno il caos regnava sovrano. Varcai la soglia e la scena che si presentò ai miei occhi mi colpì come un pugno allo stomaco.

C’era mio padre, in piedi al centro del soggiorno, la sua figura alta e imponente, ma l’espressione sul suo volto era di puro sconcerto. La polizia era presente, e tre agenti, vestiti con le loro divise blu scuro, sembravano dominare la stanza. Due di loro si trovavano accanto a un tavolino, esaminando alcuni documenti, mentre un altro mi fissava, pronto a muoversi.

Dissi «Cazzo», il respiro mi si strozzò in gola mentre la verità si faceva strada tra i miei pensieri. Sapevo che qualcosa non andava, ma non avevo idea di cosa fosse. Mi girai verso mia madre, e il suo sguardo mi trafisse. Era ferma con le braccia incrociate, il viso solcato da lacrime che scorrevano silenziose. La sua espressione di dolore e delusione mi colpì più di ogni altro colpo.

«Scusa, mamma,» dissi, la voce tremante, mentre una lacrima mi scese lungo la guancia. Volevo avvicinarmi a lei, abbracciarla, dirle che tutto si sarebbe sistemato, ma la situazione era troppo complessa. L’ansia si era trasformata in un nodo nella mia gola.

Un poliziotto, con i capelli brizzolati e un’aria autoritaria, si avvicinò a me, la sua voce grave e professionale. «Lei è in arresto, Alexander Blake.» Le sue parole risuonarono come un eco, ogni lettera che pronunciava sembrava un colpo di martello che perforava la mia mente.

Il mondo sembrava fermarsi per un attimo. «In arresto?» ripetei, incredulo. «Cosa sto facendo di sbagliato? Non ho fatto nulla!» La frustrazione e la paura si mescolavano in un vortice di emozioni che mi travolse.

Il poliziotto mi spinse con forza, facendomi quasi perdere l’equilibrio mentre le manette si serravano intorno ai miei polsi. «Tuo padre ti ha denunciato,» ripeté, la sua voce era monotona, priva di emozioni. Ogni parola risuonava come un martello che colpiva un chiodo nel mio cuore.

«Cazzo, papà…» mormorai, un misto di incredulità e tradimento che si mescolava dentro di me. Non riuscivo a credere che fosse arrivato a tanto. Tutte quelle volte in cui avevo cercato di fargli capire che avevo bisogno di aiuto, e lui che invece di sostenere suo figlio aveva scelto di denunciarmi.

Il poliziotto mi fece salire sulla macchina con uno sguardo severo, come se la sua impassibilità fosse una corazza contro la mia disperazione. La portiera si chiuse con un suono sordo, sigillando la mia libertà e la mia vita come la conoscevo. Il motore ronzò, e il rumore dell’asfalto che scorreva sotto di noi sembrava un eco lontano delle scelte sbagliate che avevo fatto.

«Tua madre ha trovato della droga nella tua camera,» continuò, il suo tono era asciutto e privo di emozioni. «Sarai in arresto per sei mesi.» Le sue parole pesavano come un macigno sul mio cuore. Sei mesi. Un periodo che mi pareva eterno, una condanna che si estendeva davanti a me come una strada oscura.

«Sei mesi? Questo è un incubo,» mormorai, cercando di afferrare il concetto. La mia mente ronzava come un alveare, confusa e spaventata. «Non posso… Non posso rimanere chiuso per così tanto tempo.» La realtà di quel momento si faceva sempre più opprimente, come se il mondo esterno fosse stato espulso, lasciandomi intrappolato in una bolla di terrore e impotenza.

Ero seduto sul sedile passeggero, le mani che stringevano nervosamente le ginocchia mentre la macchina scivolava lungo le strade familiari di New York. Era un giorno di sole, ma l’atmosfera nella vettura era tesa, carica di un silenzio imbarazzato e di aspettative inespresse. Avevo diciannove anni e, nonostante avessi ottenuto la libertà per buona condotta tre anni fa, la mia vita sembrava un mosaico di pezzi disconnessi.

Mio padre, era al volante, i suoi occhi concentrati sulla strada, ma l'espressione sul suo viso tradiva una certa preoccupazione. «Ho visto la casa su un sito,» disse, cercando di rompere il silenzio. «È fantastica. Perfetta per te e per i tuoi studi universitari.»

Annuii distrattamente, mentre le sue parole si mescolavano al rumore del traffico che ci circondava. Sapevo che, per lui, quel passo rappresentava un modo per dimostrare che le cose stavano migliorando, ma io non ero sicuro di essere pronto per un cambiamento così grande. «Sì, certo,» risposi, cercando di sembrare interessato, ma in realtà la mia mente vagava. La verità era che il nostro rapporto era cambiato, e la convivenza con il passato non era stata semplice.

Ricordai il mio soggiorno in riformatorio: i giorni trascorsi a combattere contro i miei demoni, il rimorso per il dolore che avevo inflitto a mia madre e alla mia famiglia. Ora, anche se avevo recuperato la libertà, mi sentivo ancora intrappolato, come se le catene del mio passato non fossero mai state spezzate del tutto. Le cose andavano male, e non potevo ignorarlo.

«È un’ottima opportunità per ricominciare,» continuò mio padre, cercando di mantenere un tono positivo. «Dovresti essere entusiasto. La nuova casa, l’università... tutto questo può significare un nuovo inizio.»

«Già,» dissi, mentre guardavo fuori dal finestrino. Le facciate dei palazzi scorrevano come un film in cui non riuscivo a riconoscere i personaggi. Ogni angolo di New York era carico di ricordi, e l'idea di dover ricominciare da zero era opprimente. La mia mente era un tumulto di pensieri e preoccupazioni, e la sola idea di affrontare l’università mi faceva venire l’ansia.

Finalmente arrivammo davanti alla casa. La vista era mozzafiato. Una villa moderna, con grandi finestre che riflettevano il sole e un giardino ben curato. «Guarda quanto è bella,» disse mio padre, il suo volto si illuminò di entusiasmo. «Potremmo fare delle feste, invitare i tuoi amici…»

Mi fermai a osservare la casa. «Non lo so, papà,» dissi con una nota di esitazione. «Potrebbe essere troppo grande per me. Non sono sicuro di voler vivere qui da solo.»

«Ma è il tuo momento, Alex. Devi iniziare a costruire la tua vita,» ribatté, la sua voce carica di speranza.

Feci un respiro profondo e provai a immaginare la mia vita lì. La casa era perfetta, ma la paura di affrontare un nuovo capitolo mi paralizzava. Non ero mai stato bravo a creare legami. L’idea di entrare in un ambiente nuovo, con nuove persone, mi faceva sentire vulnerabile.

Scesi dalla macchina con una leggera esitazione, il rumore del motore che si spegneva alle mie spalle sembrava sottolineare il momento. Davanti a noi c'era Marie Waltom, l'architetta, una donna dal portamento sicuro e sofisticato. Indossava un completo elegante: pantaloni a zampa d'elefante che si allungavano fino ai suoi tacchi alti, creando una figura slanciata. Aveva solo una giacca leggera, appena poggiata sulle spalle, che si apriva abbastanza da rivelare una parte del suo seno esposto. La sua bionda chioma cadeva in onde curate sulle spalle, mentre teneva in mano dei documenti con l’altra mano occupata dal cellulare, su cui digitava concentrata. Le gambe erano incrociate, il suo equilibrio perfetto nonostante i tacchi vertiginosi.

Marie aprì la porta d’ingresso, rivelando una casa che sembrava uscita da un sogno. Il corridoio era ampio, decorato con due colonne maestose che si ergevano ai lati, conferendo un senso di eleganza e grandiosità. Le pareti bianche erano punteggiate da opere d'arte moderne, mentre il pavimento in marmo lucido rifletteva la luce che filtrava attraverso le ampie finestre.

Oltre la porta finestra, la vista si apriva su una piscina scintillante, il blu dell'acqua contrastava con il verde del giardino che la circondava. Una sensazione di libertà e tranquillità invase il mio animo, anche se la mia mente era ancora perplessa dalla situazione.

Il corridoio si diramava a destra e a sinistra, con porte che conducevano a diverse camere. Sulla destra, notai una scala elegante che si snodava verso l’alto, invitandomi a esplorare ulteriormente. Rimasi a bocca aperta di fronte a tanta bellezza; era un luogo in cui avrei potuto immaginare momenti di felicità, lontano dalle pressioni e dalle aspettative.

Marie si voltò verso di noi, un sorriso compiaciuto sulle labbra. «Signori Blake,» disse, la sua voce melodiosa e sicura. «Questa è la vostra futura casa.» Io non riuscii a trovare le parole, incapace di distogliere lo sguardo da tutto ciò che mi circondava.

«Magnifica,» dissi infine, cercando di esprimere l’ammirazione che provavo.

Mio padre si fece avanti, mostrando un interesse più professionale. «Quando costa?» chiese, con un tono che lasciava poco spazio a giochetti. Marie si spostò per prendere uno dei suoi documenti, lo aprì e, dopo aver dato un’occhiata veloce, rispose. «La casa è stata completata circa un mese fa ed era già in vendita da tempo. Ho questa opportunità per voi perché so quanto desiderate qualcosa di unico e speciale.»

«E il prezzo?» insistette mio padre, mentre io continuavo a scrutare l’ambiente, affascinato dalla grandezza e dalla luce che riempiva ogni angolo.

«Il costo è di circa 1,5 milioni di dollari,» rispose Marie, con una calma che sembrava riflettere la sicurezza del suo lavoro. «Include anche il giardino e la piscina.»

Cercai di nascondere il mio stupore. Quella cifra era immensa, un investimento che avrebbe cambiato la nostra vita. «Certo,» continuò Marie, «la casa è stata progettata per avere il massimo del comfort e della funzionalità. Ogni stanza è stata pensata per sfruttare al meglio lo spazio e la luce naturale.»

Mio padre annuì, contemplando le possibilità. «E le camere? Quante sono?»

Marie lo guardò con professionalità. «Abbiamo quattro camere da letto, tutte con bagno privato. Il soggiorno è open space e si affaccia sulla piscina, creando un ambiente ideale per ricevere ospiti o semplicemente godersi un po' di relax. In aggiunta, c'è un ufficio e un’area dedicata alla lavanderia.»

In quel momento, il mio pensiero volò all’idea di una vita nella casa. Le feste con amici, le serate tranquille a bordo piscina, i weekend di studio e relax. Ma la realtà tornò a colpirmi come un pugno allo stomaco. Non ero sicuro di voler essere lì, in quella casa, con tutto ciò che comportava. E mentre mio padre e Marie discutevano i dettagli, mi allontanai un passo, cercando di raccogliere i miei pensieri.

Marie prese una penna dal suo elegante portadocumenti e si avvicinò a mio padre, porgendogli un foglio di carta con un sorriso professionale. «Signor Blake, può firmare qui, per favore?» chiese, mentre indicava un punto specifico sul contratto.

Mio padre non esitò, afferrò la penna e tracciò la sua firma con una sicurezza che mi fece rabbrividire. Da sempre, il suo nome rappresentava potere e autorità, e ora, quel gesto sembrava suggellare un accordo con il destino. Mentre firmava, io decisi di esplorare un po’ di più la casa.

Camminai lungo il corridoio, lasciandomi avvolgere dalla sensazione di nuova vita che permeava le stanze. Le pareti erano dipinte di un delicato grigio chiaro, che rifletteva la luce naturale, mentre il pavimento in legno scuro aggiungeva calore all’ambiente. La casa era silenziosa, tranne per il leggero fruscio dei miei passi.

Entrai in cucina, e quello che trovai mi colpì. Era un ambiente spazioso e luminoso, dotato di elettrodomestici all’avanguardia e un’isola centrale che sembrava perfetta per le colazioni in famiglia o per accogliere amici in occasioni speciali. La penisola in marmo lucido brillava sotto le luci a LED, e il profumo di legno nuovo aleggiava nell’aria.

La porta si aprì e mio padre entrò nella cucina, con l’espressione di chi ha appena concluso un affare. «Alex, vieni qui un attimo,» disse, con un tono che sembrava miscelare soddisfazione e urgenza.

Mi avvicinai a lui, e mentre passava la mano sulla schiena, mormorò: «Fai innamorare di te quella donna.»

«Sì? Perché?» chiesi, sorpreso. Non avevo mai considerato l'idea di farmi coinvolgere emotivamente da qualcuno.

«Perché,» continuò lui, «a casa potrebbe costare di meno. È un investimento, figliolo.»

Sorrisi a mio padre, un misto di divertimento e incredulità. «Papà, non penso che sia così semplice.»

Lui inclinò la testa, fissandomi con uno sguardo serio. «Non sottovalutare mai il potere delle relazioni. Se riesci a farti apprezzare, potremmo guadagnare più di quanto pensi.»

«Vai, figliolo,» disse mio padre, spingendomi via con un gesto incoraggiante. I suoi occhi trasmettevano una sorta di approvazione, un segno che forse stava iniziando a capire il peso delle relazioni, anche quelle più leggere.

Mi avvicinai a Marie, la mia voce tremava leggermente per l’emozione, ma cercai di nascondere la mia vulnerabilità. «Signora Walton,» iniziai, cercando di mantenere un tono formale e sicuro, «vorrei invitarla a cena. Sembra una donna di classe.»

Marie, con il suo elegante abbigliamento che accentuava le curve del suo corpo e il suo portamento raffinato, mi guardò sorpresa. Il suo sorriso era luminoso, capace di rischiarare l’intera stanza. Inclinò leggermente la testa, come per mostrarmi che stava considerando la mia proposta. «Certo, signor Blake,» rispose, la sua voce melodiosa e calda. «Sarei felice di accettare l’invito.»

In quel momento, sentii un misto di ansia e eccitazione. Era una sensazione strana, ma stimolante, come se fossi su una montagna russa e stessimo per affrontare la discesa. «Quale giorno sarebbe meglio per lei?» chiesi, cercando di apparire rilassato nonostante il battito accelerato del mio cuore.

Marie sorrise, e i suoi occhi brillavano con un interesse che mi fece sentire più a mio agio. «Posso essere libera venerdì sera,» disse, aggiustandosi i capelli biondi con un gesto delicato. «Cosa ha in mente?»

«Un ristorante italiano,» risposi rapidamente, mentre mi venivano in mente alcune delle migliori trattorie di New York. «Ne ho sentito parlare. Dicono che la pasta sia fantastica.»

«Mi piace l’italiano,» confermò, accennando a un sorriso che sembrava promettere una serata piacevole. «Spero che abbia prenotato un tavolo.»

«Sì, certo,»risposi, anche se non era del tutto vero. «Lo farò subito»

Il pensiero di dover prenotare un tavolo mi fece sudare freddo, ma il suo sorriso mi dava la forza di affrontare qualsiasi difficoltà.

Mio padre ci osservava, il suo sguardo compiaciuto sembrava esprimere una forma di fiducia. Nonostante la tensione che avevo sempre sentito nei suoi confronti, in quel momento sembrava esserci un legame, una comprensione che andava oltre le parole.

C’era qualcosa di magnetico in lei, qualcosa che mi attirava.

Era passato un mese da quando mi ero trasferito nella casa di Marie. La mia vita era cambiata radicalmente da quando avevo fatto il grande passo per lasciarmi alle spalle il passato. Vivevo con lei, e ogni giorno che passava mi sembrava di scoprire un nuovo aspetto di quel legame che si stava formando tra noi. Marie era il tipo di donna che catturava l'attenzione; c'era qualcosa di magnetico in lei, un'energia che rendeva impossibile staccarle gli occhi di dosso.

Fuori, la pioggia tamburellava contro le finestre, creando un sottofondo melodico che sembrava accompagnare il battito dei nostri cuori. Marie indossava un maglioncino a rete, e la vista dei suoi capezzoli che spuntavano attraverso il tessuto mi fece impazzire. Il perizoma nero che indossava accentuava la curva dei suoi fianchi, rendendola irresistibile.

Mi avvicinai, la mia mano scivolò sulla sua vita e la tirai verso di me. La baciai, un bacio carico di desiderio e passione. La sua pelle era calda al tatto e il suo profumo mi avvolse. Sentendo il suo corpo contro il mio, un'ondata di voglia mi travolse.

«Mi vuoi, Marie?» le chiesi, la voce roca per l'emozione.

«Si,» rispose, con un sorriso malizioso che mi fece sciogliere.

Presi Marie in braccio, il suo corpo leggero e sinuoso si adattava perfettamente alle mie braccia mentre la posavo contro la colonna. C’era qualcosa di elettrizzante nell'atto di controllarla, e il desiderio si mescolava a una sensazione di possessività che mi faceva vibrare dentro.

Con un gesto deciso, tolsi i pantaloni della tuta che indossavo, lasciando la sua pelle esposta e vulnerabile. I suoi occhi brillavano di anticipazione, e io sapevo che l’ardore tra di noi stava per esplodere. Spostai il perizoma, rivelando la sua intimità, e con un movimento lento ma deciso, entrai in lei.

Marie ansimò, il suo respiro si fece irregolare mentre i suoi occhi si chiudevano per un attimo, immersi nel piacere. Sentii le sue mani afferrarmi i capelli, un gesto che mi spinse a muovermi più forte. Ogni spinta che le davo era un misto di intensità e passione, e io mi perdevo completamente in quel momento.

«Alex!» esclamò, il suo tono mescolato tra sorpresa e desiderio, mentre iniziavo a scoparla con sempre maggiore fervore. Ogni movimento sembrava portare a un nuovo livello di piacere, e la colonna dietro di lei ci forniva una stabilità perfetta mentre i nostri corpi si muovevano all'unisono.

La sensazione del suo corpo che si adattava al mio era ipnotica. Le sue unghie graffiarono la mia pelle, e quel dolore sottile aumentava il desiderio che già ardeva in me. «Sei così calda,» dissi, la mia voce un sussurro carico di ardore. Ogni spinta era un'affermazione del nostro legame, un'esplosione di passione che ci avvolgeva come un velo.

«Non fermarti,» implorò, il suo sguardo ardente incontrò il mio. La determinazione nei suoi occhi mi fece sentire invincibile. Continuai a muovermi, impiegando tutte le mie forze per portarla al culmine del piacere, mentre il suono dei nostri corpi si mescolava a quello dei nostri respiri affannosi.

La stanza sembrava vibrare attorno a noi, ogni suono amplificato dalla tensione dell’istante. «Sì, Alex, così,» disse, il suo corpo che si contorceva contro il mio, come se cercasse di avvolgermi ancora di più. La sua risposta mi spingeva a dare di più, e le mie spinte divennero più profonde, più intense, portandola sempre più vicino all’estasi.

Marie mi guardò, i suoi occhi scintillanti di desiderio e vulnerabilità. «Oh sì, cazzo, Alex,» gemette, il suo corpo che si contorceva contro il mio, come se volesse che io andassi ancora più forte.

La sua risposta mi fece perdere la testa; la voglia di possederla completamente era inarrestabile. «Mi vuoi sposare?» dissi, la mia voce carica di emozione, mescolata all'intensità del momento.

«Certo, sì, sì, amore,» rispose con fervore, le sue parole un’affermazione che si mescolava al nostro desiderio in quello spazio. Mi baciò con passione, e mentre le nostre labbra si univano, sentii un’ondata di calore invadere il mio corpo. La connessione tra di noi era profonda e travolgente.

Aumentai il ritmo, ogni colpo che riceveva sembrava farla vibrare in un modo che la portava sempre più vicino al culmine. «Vengo, amore,» disse, il suo respiro accelerato mentre l’intensità del momento cresceva.

«Veniamo insieme,»  le dissi, afferrandole la mano con fermezza, un gesto che rafforzava il nostro legame in quel momento carico di passione. La sentivo stringere la mia mano, come se volesse ancorarsi a me, e io sapevo che entrambi eravamo diretti verso un abisso di piacere.

La stanza era avvolta da un’atmosfera di urgenza, e ogni movimento era una promessa di ciò che stava per arrivare. «Tieniti forte, Marie,» sussurrai, mentre aumentavo ulteriormente l’intensità delle mie spinte. Il suo corpo rispondeva, e la tensione cresceva in modo esponenziale.

«Alex!» gridò, la sua voce un misto di passione e bisogno, e in quel momento capii che eravamo pronti per l'esplosione finale. La sensazione di unirci in quel modo era incredibile, e mentre il piacere raggiungeva il suo apice, sentii il mondo svanire attorno a noi.

Un'ondata di calore travolse i nostri corpi, e in un istante, entrambe le nostre anime si univano in un’unica esplosione di piacere. «Sì!» esclamò, mentre ci immergevamo in quell'estasi condivisa.

Ero seduto sul portico, avvolto in un'atmosfera di silenzio e introspezione, mentre la fiamma della sigaretta si consumava lentamente tra le mie dita. La pioggia tamburellava sulle assi di legno, un rumore che di solito trovavo rilassante, ma in quel momento mi sembrava solo un ulteriore peso sul petto. Senza Alexa accanto a me, mi sentivo incompleto.

Cazzo, mi rompevano i coglioni. Non sapevo cosa fare, non sapevo come gestire la mia vita. La amavo davvero, eppure sapevo che tenerla vicina significava anche metterla in pericolo. La mia vita era un bordello, e non volevo che lei fosse coinvolta in questo caos. Ogni mattina, quando la vedevo dormire nel mio letto nuda, il suo corpo avvolto nei lenzuoli, mi accorgevo di quanto mi mancasse. Mi mancava quando dormiva nel mio letto nuda, il suo culo che amavo sculacciare, e le sue labbra che mi divertivo a mordere.

Mi persi nei miei pensieri. Ripensai ai momenti in cui la sculacciavo e il modo in cui le sue labbra si aprivano in un sorriso malizioso. Mi venne in mente il suo corpo, desideroso e disponibile, e il modo in cui mi abbandonava a lei, come se fossi l'unico uomo al mondo. E ora, eccomi qui, fumando una sigaretta e cercando di trovare un senso a tutto ciò.

Sentii dei passi avvicinarsi, ma non alzai gli occhi. Non ero pronto per affrontare la realtà.

«Alexander,» disse una voce familiare, un suono che mi fece tremare il cuore. Era Alexa.

Mi alzai lentamente e la guardai.

«Che ci fai qui?»

«Mi mancavi,» rispose, il suo sguardo intenso mi penetrò come un raggio di sole dopo una tempesta. C'era un'aria di vulnerabilità in lei che mi fece desiderare di abbracciarla e dirle che tutto sarebbe andato bene.

«Non è un posto per te,» dissi, cercando di mantenere un tono fermo, ma dentro di me si stava formando una tempesta di emozioni. La mia vita era un mare in tempesta, e non volevo che lei ne fosse travolta.

«Lo so,» rispose, avvicinandosi un passo.«Ma non posso stare lontana da te. Ti sento, anche quando sei lontano.»

La sua voce era morbida e carica di emozione. Mi colpì come un pugno nello stomaco. Era come se il mondo si fosse fermato e ci fosse solo noi due, l'uno di fronte all'altro, immersi in un silenzio carico di significato.

«Alexa,» iniziai, ma lei mi interruppe, avvicinandosi ancora di più.

«Non voglio che tu mi allontani. Non voglio che tu pensi che non possa gestire la verità. Siamo già coinvolti, Alexander. Non possiamo ignorarlo.⟩

Le sue parole erano come un richiamo. Mi sentivo intrappolato tra il desiderio di proteggerla e la necessità di essere onesto con me stesso. E mentre la guardavo, mi resi conto che era già troppo tardi per tornare indietro. L'attrazione tra noi era troppo forte per essere negata.

«Tu non sai cosa sto affrontando,» dissi, la frustrazione che si mescolava con la vulnerabilità.

«E tu non sai quanto sia disposta a combattere per te,» rispose, il suo sguardo ardente. «Non voglio vivere in un mondo senza di te.»

Il suo coraggio mi colpì, ma anche la consapevolezza che ogni parola potesse metterla in pericolo. Ma in quel momento, guardando il suo viso, mi resi conto che non avrei potuto vivere senza di lei. Era come
un'ossessione, una necessità chenon potevo ignorare.

La presi per le spalle, la mia mente in preda a un turbine di emozioni. Le labbra si avvicinarono, e in quel momento, tutto il resto svanì. Non c'era nulla di più importante. La baciai, una fusione di passione e disperazione, mentre la pioggia continuava a cadere attorno a noi, come se il mondo intero stesse piangendo per noi.

In quel momento, sapevo che qualunque fosse il prezzo, ero disposto a pagarlo.

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