𝓐𝓵𝓮𝔁𝓪𝓷𝓭𝓮𝓻

Stringevo i fianchi di Alexa con una forza quasi brutale mentre la scopavo. Era girata di spalle, e la sua schiena nuda era un’esplosione di curve e tensione. La sua pelle era calda e morbida sotto le mie mani, e ogni suo ansimo era un segnale della nostra connessione intensa e tumultuosa.

«Quanto cazzo sei bella in questa posizione,» dissi con voce bassa e carica di desiderio. Il mio tono era grezzo, dominato dalla passione e dalla frustrazione accumulata. Ogni parola era un’affermazione della mia possessività e del mio bisogno di lei.

Mentre mi muovevo dentro di lei, sentivo la sua risposta in ogni gemito e in ogni tremore del suo corpo. La mia mano afferrava i suoi capelli, tirandoli con fermezza, un gesto che amplificava il controllo e la connessione tra noi. Le sue reazioni erano una miscela di resistenza e accettazione, un riflesso della nostra complicata dinamica.

Appoggiai il mio petto contro la sua schiena, sentendo il calore del suo corpo contro il mio. «Sei una bambina del cazzo,» dissi con voce roca, il mio tono carico di autorità e disprezzo. Ogni parola era una manifestazione della mia frustrazione e del mio desiderio.

Alexa ansimava, e con un filo di voce mi rispose, «Tu sei uno stronzo.» La sua voce era un misto di rabbia e sottomissione, e quel contrasto alimentava la nostra connessione tempestosa.

Sorrisi, la mia mano si abbatté su di lei con una sculacciata decisa, un gesto che mescolava punizione e desiderio. La stanza era avvolta dal suono dei suoi gemiti e dal ritmo dei nostri corpi che si muovevano insieme, un’armonia di passione e dominio.

L’atmosfera era densa di tensione, e ogni movimento era amplificato dal nostro tumulto interiore. In quel momento, l’oscurità e la passione si fondevano in una danza che solo noi due potevamo comprendere.

«Un ultimo colpo,» sussurrò, la sua voce vibrante di passione. Sapevo che entrambi stavamo per oltrepassare il limite. La tensione tra noi era insopportabile, ogni attimo sembrava amplificato.

Le mie labbra scivolarono sul suo collo, e mentre i nostri corpi si muovevano all’unisono, sentii il piacere crescere. Un’ondata di euforia ci travolse, un momento in cui tutto ciò che esisteva eravamo noi.

«Alexa,» la chiamai, e il suo nome sulla mia bocca fu la chiave che aprì le porte del nostro estasi. In quel momento, tutto svanì. Non c’era nulla oltre il nostro legame, solo la pura intensità del nostro incontro. Venne un'esplosione di piacere, e insieme, finalmente, ci lasciammo andare.

Restai dentro di lei per un momento, godendo della sensazione di essere così profondamente uniti. Il mondo esterno svanì, e il suo corpo attorno al mio era un rifugio perfetto. Ma poi, con un sospiro, Alexa mormorò: «Togliti, Alex.»

Lentamente, uscii da lei, sentendo ogni pulsazione del nostro legame mentre ci separavamo. Il respiro mi era affannato, il corpo ancora inebriato dal piacere. La sua pelle brillava di sudore e la guardai, i suoi occhi pieni di una miscela di vulnerabilità e forza.

«Sei incredibile,» le dissi, mentre i miei palmi scorrevano lungo i suoi fianchi. C’era un’intensità nel suo sguardo che prometteva un futuro di esplorazioni ancora più profonde.

Mi alzai dal letto lentamente, cercando di non fare rumore mentre mi tiravo su. Alexa era ancora lì, distesa, con le gambe che tremavano leggermente, il respiro che piano piano tornava regolare. Mi accarezzò gli addominali con un gesto lento, quasi distratto. La guardai e le chiesi con un sussurro: «Ti fanno male le gambe?»

Lei mi guardò con un mezzo sorriso, stanca ma soddisfatta, e rispose: «Adesso passa.»

Raggiunsi il comodino e presi il pacchetto di sigarette. Sapevo che non le piaceva quando fumavo, ma in quel momento non riuscivo a farne a meno. Avevo troppi pensieri che mi frullavano in testa. Accesi una sigaretta e, prima ancora che potessi portarla alle labbra, Alexa disse con una voce dolce ma ferma: «Odio quando fumi.»

Le feci un sorriso amaro, tirai una boccata e risposi: «Lo so, piccola, ma sono troppo nervoso. Sai come sono fatto.»

Alexa mi conosceva meglio di chiunque altro. Sapeva che quando fumavo era perché c’era qualcosa che mi tormentava. Marie... il bambino... Erano tutte cose che mi si affollavano nella testa e non avevo ancora trovato il coraggio di affrontarle come avrei dovuto.

Guardai l'orologio sul comodino: mancava mezz'ora prima di dover essere già all'università. Il tempo correva troppo in fretta, come sempre.

«Sì, ora devo andare,» dissi, spegnendo la sigaretta a metà e gettandola nel posacenere.

Alexa si girò verso di me, gli occhi ancora pieni di quella luce dolce che mi faceva desiderare di rimanere lì con lei tutto il giorno. «Di già?» chiese con un filo di voce.

Mi misi a sedere accanto a lei sul bordo del letto e le accarezzai i capelli. «Sì, di già. Ma ci vediamo dopo, te lo prometto.»

Lei mi guardò per un attimo, come se volesse dirmi qualcosa di più, ma si limitò a sospirare. Mi alzai, cercando i miei vestiti sparsi per la stanza. Mentre mi vestivo, non potevo fare a meno di pensare a come tutto fosse diventato complicato, e a quanto avessi bisogno di mettere ordine nella mia vita.

Mi fermai un attimo mentre mi chiudevo la cintura dei pantaloni. La guardai, seduta sul letto, avvolta nel mio lenzuolo, con quell’aria che sapeva essere così dannatamente provocante senza nemmeno provarci. Quando mi disse che sarebbe uscita con Xavier, sentii una fitta di gelosia attraversarmi il petto, anche se cercai di non darlo a vedere. Quel ragazzo... non mi piaceva affatto. Sapevo che Alexa non mi avrebbe tradito, ma lui... non mi fidavo di lui.

Cercai di mantenere la voce calma mentre mi infilavo la camicia. «Dove vi incontrerete tu e Xavier?»

Lei si spostò leggermente sul letto, facendo scivolare il lenzuolo sulle spalle, rivelando una parte della sua pelle nuda che mi faceva venire voglia di tornare da lei e dimenticarmi di tutto. Si leccò le labbra, un gesto che mi mandava fuori di testa ogni volta. «Viene lui a prendermi,» disse con una voce sottile.

Il modo in cui si copriva con il lenzuolo, lasciando solo quel tanto che bastava alla mia immaginazione, mi faceva venire una voglia matta di saltarle addosso e scoparla di nuovo. Era una tentazione costante. Ma non potevo lasciare che quella gelosia mi consumasse. Sapevo che non avrei potuto trattenerla per sempre, ma Xavier... quel tipo mi dava sui nervi.

«Te l'ho già detto, Alexa, non farlo entrare qui dentro,» ribadii, stringendo la mascella, cercando di mantenere il controllo. Non era solo una questione di gelosia; era una questione di rispetto, di limiti. Questa casa era il nostro spazio.

Lei si leccò di nuovo le labbra, un gesto che sembrava fatto apposta per provocarmi, e con un sorriso malizioso rispose: «Non entrerà, Alexander. Viene soltanto a prendermi.»

Avrei voluto crederle, e forse una parte di me lo faceva. Ma la tentazione di tenerla solo per me era forte. Non ero abituato a condividerla, neanche in quel modo. Non volevo vedere nessun altro vicino a lei, specialmente non Xavier.

Mi avvicinai al letto, fissandola negli occhi. La tensione tra noi era palpabile, e in quel momento non sapevo se volevo urlare o prenderla di nuovo tra le mie braccia. Con un gesto lento, le sfiorai la guancia, e poi le afferrai il mento, sollevandole leggermente il viso verso di me. «Non fare scherzi, Alexa,» dissi con voce bassa, la mia fronte che quasi sfiorava la sua. «Sai come sono fatto.»

Lei mi guardò dritto negli occhi, quel suo sorriso che non lasciava trapelare niente. «Non farò scherzi,» ripeté, ma c’era qualcosa nel modo in cui lo disse che mi fece sentire come se il gioco fosse già iniziato.

Mi avvicinai lentamente a lei, osservando il suo respiro che si faceva più rapido mentre la mia mano raggiungeva il suo mento, sollevandolo delicatamente in modo che i suoi occhi fossero fissi nei miei. Le dita sfioravano il suo viso con lentezza, facendo aumentare la tensione. Il mio pollice si posò sulle sue labbra, accarezzandole con una delicatezza che contrastava con il desiderio che sentivo crescere dentro di me.

«Non fare scherzi,» le sussurrai, la voce roca e bassa, come se stesse trattenendo qualcosa di più profondo.

Lei mi guardò, con quella sua espressione innocente che a volte sapeva essere più provocante di qualsiasi parola. «Non farò sesso con lui,» rispose, ma c’era una sfumatura di sfida nel suo tono, come se volesse vedere fino a che punto avrei spinto il gioco.

Il mio pollice continuava a tracciarle le labbra mentre mi abbassavo lentamente verso di lei, il mio sguardo fisso sul suo, cercando di leggere ogni sua intenzione. Sentii il lenzuolo che scivolava via dalle sue spalle, lasciando esposto il suo seno. Mi fermai per un istante, i nostri volti a pochi centimetri l'uno dall'altro, e le dissi ancora una volta, con voce grave: «Non fare scherzi.»

Lei sorrise leggermente, i suoi occhi castani luminosi, e si coprì nuovamente con il lenzuolo, lasciandomi solo il suo sguardo. Quegli occhi... erano irresistibili. Dentro di me, una parte voleva restare, continuare a sfidare quel gioco pericoloso. Ma sapevo che dovevo andare.

Mi raddrizzai, distaccandomi da lei con riluttanza. Uscii dalla stanza, sentendo ancora il suo profumo addosso, il suo sguardo fisso sulla mia schiena mentre mi allontanavo. Avevo già avuto tutto quella mattina: colazione, il suo corpo, e ora dovevo tornare alla realtà. Ma lei... lei era sempre lì, nella mia testa.

Presi le scarpe all’ingresso, calzandole in fretta. Le chiavi della macchina erano sul mobile accanto alla porta; le afferrai e le infilai nella tasca, uscendo di casa. Il suono della porta che si chiudeva riecheggiò nel silenzio del corridoio. Fuori, la giornata era limpida, ma dentro di me sentivo ancora quella tensione, quella gelosia che bruciava sottopelle.

Con un click aprii la macchina e mi infilai al volante, cercando di scacciare i pensieri che continuavano a girare nella mia mente.

Presi il telefonino dalla tasca, lo schermo si illuminò sotto le mie dita mentre scorrevo tra i contatti. Il nome di Marie apparve, e per un attimo esitai, sapendo già che cosa mi avrebbe detto, ma alla fine premetti il tasto per chiamarla. Il segnale iniziò a squillare, e dopo pochi secondi rispose con la solita voce piena di disprezzo.

«Che cosa vuoi, Alexander?» mi chiese, e potevo quasi immaginarla con quel sorrisetto sarcastico. «Ti sei liberato di Alexa e adesso sei solo?»

«Non è così,» risposi secco, cercando di mantenere la calma. «Voglio solo una foto di mio figlio.»

Dall'altra parte della linea, Marie scoppiò in una risata amara e vuota. «Tuo figlio? Tu hai scelto Alexa, Alexander. Adesso vuoi vedere nostro figlio? Ti rendi conto della situazione, o vivi ancora nella tua illusione di poter avere tutto?»

Cercai di non far trapelare la frustrazione nella mia voce. «Non è questione di scegliere. Voglio solo sapere se sta bene. Mandami una foto.»

Marie sembrava incollerita, e il tono della sua voce si alzò improvvisamente. «Stai bene tu, Alexander? Pensi davvero che io stia bene in questo momento? Sono qui, da sola, con tuo figlio dentro di me che mi sta massacrando. Sta scalciando come un matto, e io non so più che fare. Mi fa male la pancia, mi fa male ovunque!»

Sentii un nodo allo stomaco. Il mio primo istinto fu di rispondere con rabbia, di dirle che non era colpa mia se le cose erano andate così, ma mi trattenni. Le parole di Mary mi colpirono più duramente di quanto avessi previsto. Potevo immaginare la sua sofferenza, quella sensazione di essere sola, abbandonata a combattere con tutto il peso di una vita che non avevamo programmato, ma che ora era reale.

«Marie...» iniziai, cercando di trovare le parole giuste, ma lei mi interruppe.

«Sai cosa vuol dire essere in tormento, Alexander? Essere incinta di un figlio che sembra voler lottare contro di me ogni secondo? Mentre tu te ne stai tranquillo con Alexa, fingendo di essere l'uomo perfetto? È così che va?»

Rimasi in silenzio per un attimo, cercando di capire cosa dire. La mia mente era un turbinio di pensieri, e la sua rabbia, il suo dolore, erano palpabili anche attraverso il telefono.

Sospirai profondamente, chiudendo gli occhi per cercare di allentare la tensione che mi stringeva il petto. Le parole di Marie erano ancora sospese nella mia testa, e sapevo che non sarebbe finita lì. Stringendo il telefono, cercai di mantenere un tono calmo e deciso.

«Posso venire,» dissi infine, quasi soffocando le parole. «Voglio vederti.»

Dall'altra parte della linea, sentii un silenzio breve ma carico di tensione, poi Marie rispose con voce incredula: «Davvero?»

«Sì,» ripetei con convinzione, anche se dentro di me lottavo con un misto di rimorsi e dubbi. Chiusi la chiamata senza aggiungere altro, e la sensazione di aver appena commesso un errore mi colpì subito dopo.

Guardai il telefono, il cuore che batteva più veloce. Avevo appena mentito ad Alexa. Le avevo detto che sarei andato all'università, che avevo delle lezioni, ma invece stavo per andare da Marie. Il pensiero mi stringeva lo stomaco, ma mi convinsi che era la cosa giusta da fare, almeno per vedere mio figlio. Forse, in qualche modo, sarebbe servito a mettere un po' di ordine nel caos che avevo creato.

Le strade sfrecciavano davanti a me, e mi ritrovai a domandarmi cosa sarebbe successo una volta arrivato da lei. Marie non era mai stata semplice da gestire, e il nostro passato complicato rendeva ogni incontro teso.

Avrei davvero potuto gestire questa situazione?

Arrivai davanti alla casa di Marie, scendendo dall’auto con il cuore che batteva forte. La vidi appoggiata alla porta, con quel vestitino bordeaux che lasciava intravedere chiaramente la sua pancia arrotondata. Era una visione che mi colpì più di quanto volessi ammettere. Il nostro bambino era lì, dentro di lei, e io non sapevo nemmeno come gestire la situazione.

Lei mi guardò con un sorriso malinconico e disse: «Grazie di essere venuto.» La sua voce aveva un tono dolce, quasi troppo calmo, considerando la nostra storia recente. Mi avvicinai a lei, mentre continuava a fissarmi, poi aprì la porta e entrammo insieme.

Ci fermammo proprio dietro la porta, che lei chiuse lentamente alle nostre spalle. Mi prese la mano e la appoggiò delicatamente sulla sua pancia. Sentii il bambino scalciare. Era una sensazione strana, surreale. Quel piccolo movimento mi riportò a una realtà che avevo cercato di ignorare.

Marie sospirò, guardandomi negli occhi. «Non volevi figli,» disse, e non era una domanda. La sua voce aveva quel tono accusatorio ma anche rassegnato.

Presi un respiro profondo, cercando di trovare le parole giuste. «Alexa mi ha fatto cambiare idea,» ammisi. Non sapevo nemmeno se fosse del tutto vero, ma era l'unica risposta che mi veniva in mente in quel momento. Sentivo che con Alexa le cose potevano essere diverse, che forse avrei potuto essere un uomo migliore.

Marie appoggiò di nuovo la sua mano sopra la mia, premendo leggermente. «Abbiamo bisogno di te, Alexander,» sussurrò. La sua voce si incrinò leggermente, e in quell'attimo mi sembrò vulnerabile, quasi fragile. Si avvicinò, e sentii il suo respiro caldo contro il mio viso. Poi, con un movimento lento, mi baciò sul collo.

Mi irrigidii, sapendo che dovevo fermarla. «Marie,» dissi, cercando di mantenere la calma, «lo sai, mi piace Alexa.» Non era il momento di complicare ulteriormente le cose tra di noi.

Lei si allontanò leggermente, ma solo per guardarmi negli occhi con un'espressione dura. «L’hai fatta abitare nella nostra casa,» disse con un filo di voce, ma il suo tono nascondeva una tempesta di emozioni.

Tolsi la mano dalla sua, sentendo che stavo perdendo il controllo della situazione. «Marie,» cercai di spiegare, «quella casa l'avevo comprata...»

Non riuscii a finire la frase. Marie mi interruppe, e questa volta la sua voce esplose in un grido pieno di rabbia e dolore. «Io l'avevo costruita!» urlò, come se quelle parole fossero state trattenute per troppo tempo. «Era nostra, Alexander. Ogni mattone, ogni centimetro di quella casa è nostro!»

Il suono del suo urlo rimbombava nelle pareti della piccola casa. Mi sentii soffocare, come se le pareti stesse si stessero chiudendo su di me. Non sapevo cosa dire, come rispondere. Tutto ciò che avevo costruito con Marie sembrava crollare sotto il peso delle nostre scelte sbagliate.

Mi irrigidii per un momento, poi sospirai. «Non sono venuto per litigare con te, Marie,» dissi, cercando di mantenere la calma, anche se sentivo la tensione crescere.

Marie mi guardò con occhi pieni di dolore e rabbia, e la sua voce tremava leggermente mentre gridava: «Alexander, vattene! Vattene dalla tua prostituta, ti sta aspettando lo sai, magari nuda sul nostro letto!» La sua voce si spezzò, e la vidi quasi per piangere.

«Stai calma,» le dissi, cercando di placarla. «Non farà bene al nostro bambino.»

Ma Marie rise, una risata amara che non era affatto di gioia. «Non te lo farò mai vedere questo bambino,» sibilò, le lacrime ormai visibili nei suoi occhi.

Per un istante, le nostre emozioni si scontrarono in quel silenzio teso. Guardai le sue labbra tremare, il suo viso segnato dalla stanchezza e dalla rabbia. Non so cosa mi prese, ma prima di potermelo impedire, la baciai. Le nostre labbra si incontrarono in un bacio carico di anni di storia, di dolore e di sentimenti non risolti. Sentii la sua resistenza cedere leggermente.

Marie mi guardò sorpresa, quasi confusa, e disse con un filo di voce: «Che cosa fai, Alexander?»

La guardai dritto negli occhi e, senza pensarci troppo, risposi: «Mi sto facendo perdonare.»

Con delicatezza, la presi in braccio, sentendo il suo corpo pesante contro il mio. La sua pancia spingeva contro di me, un promemoria costante del bambino che stava crescendo dentro di lei. La portai verso il mobile più vicino e la posai sopra, le mani che correvano lungo i suoi fianchi. Sentivo il suo respiro affannato mentre mi guardava con un misto di sorpresa e desiderio.

Le nostre emozioni erano un vortice incontrollato, mescolate tra rabbia, frustrazione e quell'attrazione che non eravamo mai riusciti a spegnere completamente. Le accarezzai i capelli, spostandoli delicatamente da un lato mentre continuavo a guardarla negli occhi.

Il silenzio che ci avvolgeva era carico di tensione, ma anche di quella connessione che avevamo sempre avuto, anche nei momenti più bui. Marie restava lì, immobile, come se stesse cercando di capire cosa stava succedendo, ma non fece nulla per fermarmi.

Sentii il battito del mio cuore accelerare, e per un momento tutto il resto sembrò svanire.

Mi staccai di colpo da Marie, la testa piena di pensieri contrastanti. "Alexa o il bambino? Lei o il bambino?" Mi ripetevo mentalmente, incapace di fare chiarezza. Il peso di quella scelta mi schiacciava il petto, e sentivo il respiro diventare più pesante.

Marie mi guardava, confusa e vulnerabile, come se non capisse perché mi fossi fermato all'improvviso. «Alex?» sussurrò, la sua voce spezzata dall'incertezza. La sentii chiamarmi, ma le sue parole sembravano lontane, ovattate.

Mi allontanai rapidamente da lei, scostandomi di qualche passo. La mia mente era una tempesta, ogni pensiero un fulmine che mi scuoteva. Senza dire altro, feci qualche passo indietro, verso la porta. Sentivo il cuore battere forte, ma sapevo che dovevo andarmene, subito.

Marie rimase lì, seduta sul mobile, il viso che alternava emozioni di rabbia e tristezza. "Che cazzo mi ha preso?" pensai mentre afferravo la maniglia della porta. Non mi voltai a guardarla di nuovo, non potevo. Dovevo uscire da quella casa, allontanarmi da tutto ciò che rappresentava quel momento.

Uscii fuori, l'aria fresca mi colpì il volto e sembrava quasi aiutarmi a schiarire i pensieri. Chiusi la porta dietro di me con un rumore secco, e rimasi lì, immobile, per un istante. Non avevo una direzione precisa, ma dovevo andare via. Mi diressi verso l'auto con un passo pesante, ancora sopraffatto da quello che era appena successo.

Entrai nell'auto e mi sedetti al posto di guida. Guardai le mani sul volante, ancora tremanti, e per un attimo non sapevo nemmeno cosa fare. Accesi il motore e rimasi fermo lì, con la testa appoggiata contro il sedile. Pensavo ad Alexa, a quello che avevo appena fatto. Marie era lì, col nostro bambino, e io stavo scappando via come un codardo.

«Cosa cazzo stai facendo, Alexander?» mi chiesi, parlando ad alta voce come se qualcuno potesse sentirmi.

Abbassai il finestrino quando vidi Marie uscire di casa, il suo volto una maschera di confusione e dolore. «Dovremmo fare il divorzio, Marie,» dissi, la mia voce piatta, priva di emozione. Lei rimase lì, immobile, mentre quelle parole cadevano pesanti nell'aria. Non attesi una sua risposta, non c'era più nulla da dire.

Accesi il motore e partii rapidamente, lasciandomi alle spalle quella casa e tutto ciò che rappresentava. La mente era in tumulto, e ogni pensiero mi schiacciava come un macigno. Non avevo idea di dove andare, ma una cosa era certa: non potevo tornare a casa. Non volevo vedere Alexa, non con il rimorso che mi bruciava dentro. Le lezioni oggi non c'erano, era il mio giorno libero, ma l'unica cosa di cui avevo veramente bisogno era di bere.

"Cazzo, ho baciato la mia ex moglie," mi ripetevo mentalmente, ancora incredulo per ciò che era appena successo. Le mie mani tremavano leggermente sul volante, e il bisogno di stordirmi con l'alcol cresceva sempre di più.

Guidai senza meta per qualche minuto, attraversando strade che conoscevo fin troppo bene, ma che in quel momento sembravano estranee. Ogni semaforo rosso sembrava durare un'eternità, e il suono del motore era l'unica cosa che mi ancorava alla realtà. Arrivai davanti a un bar Magic che frequentavo nei miei momenti peggiori, un posto che conosceva bene la mia sete di fuga.

Parcheggiai e spensi il motore, restando seduto per un attimo, fissando l'insegna luminosa del locale. Sapevo che bere non avrebbe risolto nulla, ma almeno per qualche ora avrebbe messo a tacere i demoni nella mia testa.

Scesi dall'auto e mi diressi verso l'ingresso del bar, sentendo già il peso della giornata svanire a ogni passo che mi avvicinava all'alcol.

Entrai al bar, quel luogo familiare che non vedevo da troppo tempo. Non ci entravo da quel giorno, quando Alexa mi aveva praticamente implorato di smettere. Le sue parole risuonavano ancora nella mia testa, una voce lontana ma sempre presente, come un eco fastidioso. Marie l’aveva definita una prostituta, ma Alexa non lo era. Non potevo pensare a lei in quel modo. Era… più complicato di così.

Il barista mi vide subito, riconoscendomi immediatamente. «Blake, è da un po' che non ti fai vedere,» disse con un tono che mescolava sorpresa e cordialità. Mi sedetti su uno sgabello di fronte a lui, evitando di rispondere. Non c’era nulla da dire. Non volevo parlare. Non volevo pensare.

Stavo per tradire Alexa, e tutto per cosa? Per quel bacio con Marie? Lei, che mi odiava, ma allo stesso tempo non riusciva a lasciarmi andare. E poi c'era Alexa. Chi era per me? Un'amica, forse qualcosa di più, ma sicuramente una presenza costante nella mia vita, qualcosa di cui non potevo fare a meno, eppure ora sentivo di non meritare.

«Dammi un po' di vodka,» dissi al barista, con voce bassa e piatta. Lui annuì, capendo subito che non era il momento di fare domande.

Nel frattempo, sentii il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni. Lo presi in mano, il nome di Alexa brillava sullo schermo. Sapevo che voleva sapere dov'ero, ma non avevo la forza di rispondere. Non ora. Non sapevo neanche cosa avrei potuto dirle. Spensi il telefono e lo rimisi in tasca, come se potessi in qualche modo spegnere anche i miei pensieri.

Appoggiai i gomiti sul bancone di legno, fissando il bicchiere che il barista mi aveva appena messo davanti. «Grazie,» mormorai, afferrando il bicchiere con mani tremanti. Portai la vodka alle labbra, il liquido bruciante scese giù per la gola, dandomi quella sensazione familiare di torpore che cercavo disperatamente. Avevo l'astinenza di questo fottuto bar, e ora che ero di nuovo qui, mi sembrava quasi di tornare in equilibrio.

Mi guardai intorno. Era lo stesso posto di sempre, le stesse facce, la stessa musica di sottofondo, ma nulla sembrava più come prima. Tutto mi sembrava distante, come se fossi intrappolato in una bolla che non potevo rompere.

Il telefono squillò di nuovo, vibrando contro la mia gamba. Sapevo chi era, ancora Alexa. Non potevo continuare a ignorarla, ma non avevo la forza di affrontarla. In quel momento mi sentivo soffocato, come se il peso delle scelte mi schiacciasse il petto. Risposi al telefono, stringendo il cellulare con troppa forza.

«Non rompermi i coglioni!» urlai nel microfono, sentendo la mia voce esplodere in un volume che rimbombava nel bar. Era una rabbia che non riuscivo a contenere, e la stavo riversando su di lei, come se fosse lei la causa di tutto questo casino, di Marie, del bar, di me stesso. Ma sapevo che non era così, non era colpa sua. Era mia, tutta mia.

Chiusi il telefono bruscamente, buttandolo sul bancone con uno schianto sordo, come se quel gesto potesse liberarmi dalle domande che mi assillavano. Sollevai lo sguardo e mi accorsi che gli uomini nel bar mi stavano fissando. Occhi pieni di giudizio, di curiosità. Non avevano mai smesso di fissarmi, come se stessero aspettando il prossimo atto del mio spettacolo patetico.

«Che cazzo avete da guardare?» sbottai, alzando la voce. Sentivo il sangue ribollire nelle vene, l'adrenalina scorrermi addosso come una corrente elettrica. Il silenzio cadde per un attimo, tutti ripresero a fare finta di niente, ma sapevo che le loro orecchie erano ancora puntate su di me. Il barista mi osservava con uno sguardo di chi ha visto questa scena troppe volte, ma non disse nulla, si limitò a pulire i bicchieri con un panno.

Mi misi una mano tra i capelli, tirandoli indietro con forza. Alexa, Marie, mio figlio, tutto si mescolava nella mia testa, come un vortice che non riuscivo a controllare. Avevo bisogno di un'altra vodka, di spegnere tutto ancora un po’.

Diedi un'occhiata al barista, con il bicchiere vuoto ancora tra le mani. «Quanto pago?» chiesi, cercando di mantenere la voce più ferma possibile, anche se dentro sentivo che stavo per esplodere. Il barista non sollevò nemmeno lo sguardo, continuando a pulire i bicchieri come se niente fosse. «Tre dollari,» rispose con voce monotona.

Sfilai tre dollari dal portafoglio e li posai sul bancone. Mi alzai senza un'altra parola, spingendo indietro lo sgabello con un leggero stridio. Sentivo gli sguardi alle mie spalle, ma non mi voltai. Non volevo più essere lì dentro, non volevo più sentire il peso delle decisioni che avevo preso.

Uscii dal bar, l'aria esterna mi colpì in faccia come uno schiaffo, fredda e tagliente. Mi fermai un attimo, inspirando profondamente, cercando di calmare i nervi, ma la mente correva ancora. Alexa. Voleva andare in Italia, me lo aveva dstto. Diceva che avrebbe cambiato tutto, che lì avremmo potuto ricominciare da capo. Forse aveva ragione. Saremmo andati lì, via da tutto questo casino, e non avrei mai più parlato di Marie o di quello che era successo. Lasciato tutto alle spalle, come se non fosse mai esistito.

Aprii la macchina e mi infilai dentro, sentendo la pelle fredda del sedile sotto di me. Chiusi gli occhi per un attimo, appoggiando la testa contro il volante. Dovevo tornare a casa, dovevo rivederla. Partire sarebbe stata la scelta giusta, l’unica soluzione. Girai la chiave e il motore si accese con un ruggito sordo. Fissai la strada davanti a me, il pensiero di Alexa mi martellava nella mente. Avevo bisogno di lei, e forse lei aveva ancora bisogno di me.

Premetti l'acceleratore, lasciando alle spalle quel bar, e corsi verso casa.

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