Non sapevo che cazzo di ora fosse. Avevo dormito tutta la notte sul divano, e adesso la testa mi girava come al mio solito. Forse era davvero il caso di cominciare a frequentare gli alcolisti anonimi. Mi alzai dal divano, passandomi una mano sulla faccia ancora stanca. Presi la bottiglia che avevo abbandonato ieri sera e andai verso la cucina.
Guardai l'orologio sulla parete: le nove. Avevo lezione alle undici, quindi c'era ancora tempo. Aprii il frigo, sperando di trovare del caffè, ma la mia concentrazione venne interrotta dal suono di passi leggeri dietro di me. Pensai subito a Marie. «Non è il momento, Marie,» dissi, stancamente.
Ma una voce diversa rispose, una voce che non mi aspettavo affatto di sentire. «Non sono Marie,» disse.
Mi girai di scatto, e lì, davanti a me, c'era Alexa. Simon ci era riuscito, l'aveva portata qui. Mi sorrise con quel suo modo innocente che mi faceva impazzire.
Indossava un completo sportivo, composto da una minigonna verde oliva e un top abbinato. La minigonna le arrivava appena a metà coscia, rivelando le sue gambe toniche. Il top, un reggiseno sportivo dello stesso colore, le copriva appena il seno, mostrando la pelle liscia del suo ventre piatto. Sopra, una giacca leggera con le maniche lunghe, ma non abbastanza per coprire del tutto il top sottostante. Era un abbigliamento casual, ma su di lei sembrava tutto tranne che semplice.
Mi bloccai per un attimo, senza sapere cosa dire. Il fatto che fosse lì, nella mia cucina, in quell'abbigliamento così provocante, mi fece salire un'ondata di emozioni contrastanti. Avrei voluto urlare a Simon, avrei voluto dirgli che aveva sbagliato, che non avrei dovuto fare questo, ma al tempo stesso la tentazione di averla lì, così vicina e così vulnerabile, mi stava logorando.
Mi ricomposi a fatica, cercando di controllare il flusso di pensieri che mi stava invadendo. «Alexa, cosa ci fai qui?» chiesi, la voce più calma possibile, ma con il cuore che batteva all'impazzata.
Lei si leccò le labbra, un gesto che fece salire il calore in me ancora di più. «Ho detto al tuo amico di portarmi qui,» spiegò con un tono tranquillo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ho dormito qui ieri notte. Tu già dormivi, non mi hai sentito.»
Quelle parole mi colpirono come un pugno allo stomaco. L'idea di lei nella mia casa, mentre io ero sprofondato nel sonno dell'alcol, mi faceva sentire vulnerabile, esposto.
«Vattene, Alexa,» le dissi, la voce dura, sperando che capisse quanto fosse sbagliato tutto questo, quanto fosse pericoloso per entrambi.
Ma lei non si mosse. Invece, il suo sorriso si allargò, illuminando il suo viso con una felicità che raramente avevo visto in lei. «Sono venuta qui per farti sapere che ce l'ho fatta. Sono libera adesso.»
C'era un misto di orgoglio e sollievo nella sua voce, e per un attimo il mio cuore si sciolse. Sapevo quanto aveva sofferto, quanto aveva lottato per liberarsi dalle catene che suo padre le aveva imposto. Vederla così, felice e finalmente sollevata, era tutto ciò che avevo desiderato per lei.
Ma la consapevolezza della situazione mi riportò immediatamente alla realtà. La sua libertà non doveva significare che io, o chiunque altro, potessimo approfittarne. Lei era qui, in piedi nella mia cucina, vulnerabile e fiduciosa, e io ero in bilico tra desiderio e dovere.
«Alexa,» dissi, cercando di mantenere la calma, «sono felice per te, davvero. Ma non puoi stare qui. Non è... non è giusto.» Le parole uscirono strozzate, consapevole che avrei voluto dire tutt'altro.
Lei mi guardò con quegli occhi grandi, pieni di speranza e disperazione, mentre sussurrava: «Alex, ti prego. Io non ti darò fastidio. Posso cucinare, posso pulire, fare la spesa... ma tu mi devi aiutare.»
Sentii la sua mano toccarmi il braccio, un tocco leggero ma pieno di significato, come se quel gesto potesse spazzare via tutti i problemi che avevo.
La guardai, lottando con me stesso. «Non avevi i soldi per andare in un hotel?» chiesi, cercando una via d'uscita, un modo per allontanarla da me, da questa situazione che stava diventando insostenibile.
Alexa ritrasse la mano, come se l'avessi bruciata. Il suo sguardo si fece più triste, quasi ferito, e disse, con una voce che sembrava sul punto di spezzarsi: «Alexander, perché non mi vuoi?»
Chiusi gli occhi, combattendo contro il desiderio di cedere, di accoglierla nella mia vita, nella mia casa, ma sapendo quanto fosse pericoloso, per entrambi. «Alexa,» iniziai, la mia voce spezzata, «ho un problema con l'alcol. La mia ex moglie è incinta... e ho un problema con una mia alunna.»
Le parole uscirono a fatica, come se confessarle a lei le rendesse ancora più reali, ancora più difficili da gestire. Aprii gli occhi e la vidi lì, ferma davanti a me, la sua determinazione ancora intatta nonostante tutto.
«Non posso offrirti ciò che vuoi,» continuai, cercando di essere sincero con lei, ma anche con me stesso. «Non posso darti la stabilità che cerchi. Ho troppi casini nella mia vita. Non voglio trascinarti giù con me.»
Alexa scosse la testa, un misto di frustrazione e comprensione nei suoi occhi. «Non ti sto chiedendo di risolvere i tuoi problemi, Alexander. Ti chiedo solo di lasciarmi stare qui, di aiutarmi a stare lontana da tutto ciò da cui sono scappata. Voglio solo sentirmi al sicuro.»
Le sue parole mi colpirono duramente. Sapevo quanto avesse sofferto, quanto cercasse disperatamente un posto dove sentirsi al sicuro, lontano dai mostri del suo passato. E per un attimo, il pensiero di poterle offrire quel rifugio mi tentò più di quanto avrei voluto ammettere.
«Alexa, vattene da questa cazzo di casa!» urlai, la mia voce esplosa nella stanza come un tuono. Sentivo il panico crescere dentro di me, un terrore che mi serrava il petto. Avevo paura di quello che poteva succedere, paura di ferirla, paura di quello che stava nascendo dentro di me. Doveva andarsene. Dovevo allontanarla.
Alexa mi guardò, e vidi le lacrime riempire i suoi occhi, quelle lacrime che non avrei mai voluto far scendere. Si mordeva il labbro per trattenere un singhiozzo, e poi, con un filo di voce, sussurrò: «Va bene, Alex. Ti lascerò stare.»
Si girò, dandomi le spalle, pronta a uscire dalla mia vita, e in quel momento capii quanto ero stato idiota. Non potevo lasciarla andare così. Non potevo permettermi di farle del male, di farle credere che non mi importava. Con un istinto che non riuscivo a controllare, la presi per il braccio, tirandola delicatamente indietro, e la appoggiai contro il mio petto. Sentivo il suo corpo tremare contro di me, le sue spalle scuotersi per i singhiozzi che finalmente si erano liberati.
«Scusa,» sussurrai, la mia voce un soffio nella sua orecchia. «Non volevo urlarti. So che ti fa male.» La mia presa si fece più salda, come se volessi proteggerla da tutto, anche da me stesso.
Alexa si lasciò andare, permettendosi di cedere per un istante. Sentii le sue mani aggrapparsi alla mia camicia, e poi, tra i singhiozzi, disse: «Io mi fido di te, Alex.»
Quelle parole mi colpirono come un pugno. Come poteva fidarsi di me? Non sapeva cosa avessi dentro, non conosceva i demoni che mi tormentavano, le battaglie che combattevo ogni giorno con me stesso. La girai verso di me, cercando di farle capire quanto fosse pericoloso quello che stava dicendo.
«Tu non mi conosci,» le dissi, la mia voce spezzata, carica di frustrazione e dolore. «Non sai chi sono veramente, cosa sono capace di fare. Io... Io non voglio farti del male, Alexa. Ma non so se posso impedirlo.»
Lei mi guardò, i suoi occhi pieni di lacrime, ma anche di una determinazione che mi spaventava. «Non importa, Alex,» disse, la sua voce ancora tremante. «Non mi importa chi sei stato o cosa hai fatto. Io vedo chi sei adesso. E io credo in te.»
Quelle parole, la sua fiducia in me, erano come un faro nella tempesta. Ma sapevo che non potevo accettarla così facilmente, non senza lottare con tutto quello che avevo dentro. Non senza cercare di proteggerla, anche se significava allontanarla da me.
La presi per mano, sentendo il calore della sua pelle contro la mia, e la tirai verso il divano che avevo in cucina. Era un gesto istintivo, qualcosa che non avevo pianificato, ma che sembrava giusto in quel momento. Volevo che si sedesse, che smettesse di tremare, che si sentisse al sicuro, almeno per un attimo.
«Siediti,» le dissi con una voce più calma, più dolce di quanto avessi usato prima. Alexa obbedì senza dire nulla, ancora con le lacrime che le rigavano il viso. Il suo dolore era palpabile, e mi sentivo come se ogni singhiozzo fosse una lama che mi tagliava dentro. Mi sedetti accanto a lei, cercando di mettere ordine nei miei pensieri, cercando di trovare le parole giuste.
Con un gesto lento e delicato, le asciugai le lacrime con il dorso della mano. Era così fragile in quel momento, e vederla così mi faceva sentire ancora più colpevole. Non potevo permettere che soffrisse a causa mia.
«Alexa,» iniziai, il nome le uscì come un sussurro, carico di emozione. «Devo dirti una cosa, qualcosa che non ho mai raccontato a nessuno.» Mi fermai per un momento, guardandola negli occhi, cercando il coraggio di proseguire. «Quando mi sono lasciato con Marie... l'ho ferita. Ero ubriaco, perso nel mio stesso inferno, e le ho tirato uno schiaffo.»
Le parole uscirono come un peso che finalmente si sollevava dal mio petto. Non avevo mai ammesso ad alta voce quello che avevo fatto. Non avevo mai affrontato veramente quel momento. Mi sentivo disgustato da me stesso, un uomo che aveva perso il controllo, che aveva ferito la donna che amava.
«Non ho mai smesso di odiarmi per quello,» continuai, la voce più bassa, quasi un mormorio. «L'ho distrutta, Alexa. E non posso permettermi di fare lo stesso con te. Non posso... non posso sopportare l'idea di farti del male.»
Alexa mi guardò, i suoi occhi ancora pieni di lacrime, ma c'era anche qualcosa di più, una comprensione che mi colpì nel profondo. Mi prese la mano, stringendola tra le sue. «Non sei quella persona, Alex,» disse, la sua voce un soffio. «Non sei più quella persona. E io non ti permetterò di distruggerti. Non ti lascerò andare.»
Le sue parole mi colpirono come un fulmine. Era così sicura, così determinata a vedermi diverso da quello che ero stato. Ma io sapevo la verità. Sapevo che i demoni dentro di me erano ancora lì, pronti a riemergere al primo segnale di debolezza. Eppure, in quel momento, con lei accanto a me, sentii un barlume di speranza, qualcosa che non provavo da molto tempo.
Alexa mi guardò intensamente, cercando di leggere ogni singola emozione che si rifletteva nei miei occhi. Era come se stesse cercando di trovare un senso a tutto ciò che le stavo rivelando. Finalmente, con una voce sottile ma carica di incredulità, disse: «Lei è ancora innamorata di te, vero? Pensavi che fossi lei... in un certo senso.»
Abbassai lo sguardo, incapace di sostenere il suo. Mi sentivo come se avessi messo a nudo l'anima davanti a lei, mostrandole tutti i miei difetti, i miei errori, le mie colpe. «Sì, forse è così,» ammisi, con un sospiro pesante. «Marie veniva sempre a rompere i coglioni nei momenti peggiori. Ero caduto in un abisso, un inferno personale, e in parte è stata colpa sua, ma solo in parte. La verità è che ho fatto tutto da solo.»
Alexa rimase in silenzio, aspettando che continuassi. Dovevo dirle tutto, dovevo liberarmi di quel peso. «Sì, lei è ancora innamorata di me,» continuai, parlando con un tono più basso. «Ma il peggio è che non ricordo neanche di averle dato quello schiaffo... me l'ha raccontato lei dopo. E, nonostante tutto, non ci siamo lasciati per questo. Lei mi ha perdonato, ha cercato di darmi un’altra possibilità. Ma io... io l’ho lasciata perché avevo un’amante. E quell’amante era una mia studentessa.»
Le parole rimasero sospese nell'aria, cariche di vergogna e rimorso. Avevo tradito Marie non solo come marito, ma anche come uomo, infrangendo tutto ciò che rappresentava una relazione, l'amore, la fiducia. Il pensiero mi bruciava dentro, come una ferita che non si sarebbe mai rimarginata.
Alexa rimase in silenzio per un attimo, cercando di elaborare ciò che le avevo appena confessato. Poi, con una calma sorprendente, chiese: «E tu... ami ancora quella studentessa?»
Scrollai la testa, sentendo un’ondata di emozioni contrastanti travolgermi. «No, non era amore, Alexa. Era solo un’altra scusa, un altro modo per scappare da me stesso, dai miei problemi. Marie non meritava quello che le ho fatto. E nemmeno tu meriti di essere coinvolta in questo disastro.»
Alexa mi guardò, la sua espressione piena di compassione e forse, in qualche modo, anche di comprensione. «Alex,» disse, la sua voce tremante ma ferma, «Tutti abbiamo fatto degli errori. Tutti abbiamo dei demoni. Ma non possiamo continuare a farci distruggere da loro. Forse, possiamo trovare un modo»
Quelle parole mi colpirono più di quanto volessi ammettere. Mi sentii piccolo e vulnerabile, ma allo stesso tempo, per la prima volta in tanto tempo, sentii anche una piccola scintilla di speranza. Magari, solo magari, non tutto era perduto. Ma sapevo che il cammino davanti a me sarebbe stato lungo e difficile, e non ero sicuro di essere pronto a percorrerlo. Ma con Alexa accanto, forse avrei potuto provare.
Alexa mi guardò con un'espressione di tristezza mista a preoccupazione. «Quindi... Marie è incinta,» disse, quasi sussurrando, come se le parole fossero troppo pesanti da pronunciare. Non riusciva a nascondere la sua confusione, forse anche la sua paura.
Cercai di sorridere, ma il mio sorriso era più disperato che genuino. «Sì, è incinta,» risposi, con la voce che mi tremava leggermente. Mi sentivo intrappolato, come se stessi affondando sempre più in un pantano da cui non riuscivo a uscire. Tolsi le mani dalle sue, il contatto mi faceva sentire ancora più colpevole, e mi alzai dal divano, cercando di mettere un po' di distanza tra di noi.
«Abbiamo scopato,» dissi, quasi a me stesso, mentre camminavo nervosamente per la stanza. «Dopo che lei se n’è andata... è successo tutto così in fretta. Non so nemmeno come sia accaduto, ma adesso... ora è incinta.»
Alexa mi osservava in silenzio, cercando di capire, forse di trovare un senso in tutto questo. Era come se stesse cercando di comprendere il caos che mi circondava, le scelte sbagliate che avevo fatto, le conseguenze che ora mi trovavo ad affrontare.
«Adesso cosa farai?» chiese finalmente, con una voce che era un misto di compassione e rassegnazione.
Scrollai le spalle, sentendomi più perso che mai. «Non lo so,» ammisi. «Non ho la più pallida idea di cosa fare. Marie è incinta e io... io sono un disastro. Ho cercato di andare avanti, di dimenticare tutto, ma sembra che ogni mia azione mi riporti sempre al punto di partenza. E ora ci sei tu, Alexa. Non volevo coinvolgerti in questo casino.»
Alexa si avvicinò ancora di più, il suo respiro era calmo, ma i suoi occhi mostravano una curiosità che non avevo mai visto prima. Le sue dita sfiorarono il mio viso con delicatezza, come se volesse capire, come se cercasse una verità nascosta dietro la mia maschera di indifferenza.
«Non sei mai stato innamorato di nessuna donna?» chiese, la sua voce era un sussurro, quasi come se avesse paura di conoscere la risposta.
Abbassai lo sguardo, evitando i suoi occhi. La verità era qualcosa che avevo sempre evitato, nascosta in fondo alla mia anima, sotto strati di alcool e decisioni sbagliate. Non volevo ammettere ciò che sapevo da tempo. Non volevo riconoscere la solitudine che mi aveva seguito per tutta la vita.
«No,» risposi finalmente, la voce bassa e priva di emozioni. «Non ho mai amato nessuno, Alexa. Ho sempre vissuto nel caos, cercando qualcosa per riempire il vuoto, ma l'amore... l'amore non è mai stato parte della mia vita.»
Alexa abbassò la testa, i suoi capelli scuri che le ricadevano sul viso. Poi, con un gesto lento e deliberato, sollevò il mio viso, costringendomi a guardarla negli occhi. «Forse è perché non hai mai dato a nessuno una vera possibilità,» disse, con una fermezza che non mi aspettavo. "Forse è perché hai sempre avuto paura di aprirti, di lasciare che qualcuno entrasse davvero nel tuo mondo.»
Le sue parole mi colpirono profondamente. Aveva ragione. Avevo sempre mantenuto le persone a distanza, creando un muro tra me e il resto del mondo. Ero troppo spaventato all'idea di farmi male, di rivelare le mie debolezze, le mie paure. Avevo scelto la solitudine perché sembrava l'opzione più sicura.
Alexa, però, non sembrava voler arrendersi. «Alex,» continuò, «non è troppo tardi. Non devi continuare così. Puoi ancora cambiare, puoi ancora trovare qualcosa di vero, di reale.»
Il suo tocco era caldo, confortante, e per un momento mi sentii tentato di crederle, di credere che ci fosse ancora speranza per me. Ma sapevo che la strada sarebbe stata lunga e difficile, e non ero sicuro di avere la forza di percorrerla. Tuttavia, in quel momento, con Alexa così vicina, mi sentii meno solo, come se forse, per la prima volta, qualcuno volesse davvero aiutarmi a uscire dal buio in cui mi ero immerso.
Sospirai e, per la prima volta da tanto tempo, mi permisi di abbassare la guardia. «Forse hai ragione,» ammisi.
Alexa mi sorrise, un sorriso dolce, quasi infantile. Sembrava una bambina felice che avesse appena ottenuto ciò che desiderava da tanto tempo. Le sorrisi anch'io, incapace di resistere al suo entusiasmo. «Posso restare qui, così posso aiutarti?» disse con quella voce così piena di speranza. «Posso aiutarti a fare uscire i tuoi demoni, non darò fastidio, lo prometto.»
Sospirai, indeciso su cosa fare. Lei era così giovane, così piena di vita, e io ero perso nel mio caos. Ma in quel momento, vedere quel sorriso mi fece desiderare di credere che, forse, avere qualcuno accanto potesse fare la differenza. «Hai proprio una testolina,» dissi, mentre le toccavo i capelli, disordinandoli leggermente. «Hai una testolina dura,» aggiunsi con un sorriso.
Alexa rise, sistemando i suoi capelli con un gesto delicato. «Sì, puoi restare qui,» continuai, quasi senza pensarci. Non ero sicuro se fosse la cosa giusta da fare, ma in quel momento sembrava l'unica cosa che avesse senso.
Lei sorrise ancora più ampiamente e, senza preavviso, mi abbracciò. «Grazie, grazie mille!» esclamò, stringendomi forte, come se avesse paura che potessi cambiare idea da un momento all'altro.
Guardai l'orologio sopra il fornello. Il tempo era volato senza che me ne rendessi conto. «È tardi, devo andare a lavoro,» dissi, cercando di staccarmi delicatamente dal suo abbraccio. Mi sentivo strano, come se una parte di me fosse combattuta tra il desiderio di rimanere e la necessità di fuggire via.
Alexa mi lasciò andare, ma il suo sorriso non si spense. «Va bene,» disse, «vai pure. Io sarò qui quando tornerai.» Mi guardava come se avesse appena trovato un rifugio sicuro, un posto dove finalmente sentirsi al sicuro.
Annuii, cercando di ignorare il nodo che si era formato nello stomaco. C'era qualcosa di strano nel sentire qualcuno che mi aspettava a casa. Era un sentimento nuovo, che mi metteva a disagio ma allo stesso tempo mi dava un leggero conforto. Mi preparai velocemente, cercando di non pensare troppo a tutto quello che stava accadendo. Prima di uscire, mi girai verso Alexa. «Ci vediamo dopo,» le dissi, cercando di suonare più tranquillo di quanto mi sentissi davvero.
Lei annuì, ancora con quel sorriso che sembrava non volersi spegnere. Chiusi la porta dietro di me, con la mente già piena di pensieri su quello che avrei dovuto affrontare al lavoro. Ma, per un momento, il pensiero di tornare a casa non mi sembrò così terribile.
Alexa poteva davvero essere d'aiuto in casa. Era grande, troppo grande per me da solo. Quando c'era Marie, era diverso. Nonostante i nostri problemi, riuscivamo a gestirla insieme. Dopo il lavoro, mi mettevo a darle una mano, cercando di alleggerirle il carico. Ora, però, la solitudine rendeva tutto più pesante, più difficile da sopportare.
Uscii di casa, ma non trovai la mia Tesla. In un primo momento, fui confuso, poi ricordai che ieri sera era stato Simon ad accompagnarmi a casa. Mi maledissi mentalmente per non aver pensato di recuperarla prima. Presi il mio iPhone dalla tasca dei pantaloni e digitai il numero di Simon mentre camminavo sul vialetto. Il parcheggio era deserto.
Il telefono squillò una, due, tre volte. Iniziavo a perdere la pazienza. Quando finalmente Simon rispose, mi trattenni a malapena dal urlare. «Dove cazzo sei?» chiesi, il tono della mia voce più aggressivo di quanto avessi voluto.
Dall'altra parte, Simon rispose con il suo solito tono indifferente. «Grazie, Simon, per aver portato Alexa a casa. Visto che non vedeva l'ora di vederti,» disse, con un leggero sarcasmo nella voce.
«Voleva vedermi?» ripetei, più per me stesso che per lui. C'era qualcosa di strano in tutto questo, ma non avevo tempo per pensarci ora. «Simon, vieni a casa e accompagnami a prendere la mia macchina,» dissi, più come un ordine che come una richiesta.
Simon sospirò dall'altro capo del telefono, ma alla fine accettò. «Sì, sì, arrivo. Dammi dieci minuti.»
Chiusi la chiamata e rimasi lì, nel parcheggio, a guardare il vuoto. Il pensiero di Alexa che voleva vedermi mi ronzava nella testa. Mi chiedevo se avesse detto a Simon qualcosa che io non sapevo, qualcosa che mi avrebbe cambiato le carte in tavola. Ma non c'era tempo per pensarci troppo. Mi concentrai su ciò che dovevo fare: recuperare la mia macchina, andare al lavoro, e cercare di rimettere insieme i pezzi di una vita che sembrava scivolarmi tra le dita.
Rientrai in casa rapidamente, chiudendo la porta con un colpo secco alle mie spalle. Alexa era ancora lì, nel soggiorno, e mi guardava con un’espressione innocente, come se non capisse il motivo del mio improvviso ritorno.
«Che cosa gli hai detto a Simon?» le chiesi con un tono che tradiva la mia irritazione. Mi avvicinai a lei, cercando di mantenere la calma, ma sentivo il nervosismo crescere dentro di me. «Non devi raccontare niente a nessuno, va bene?» aggiunsi, cercando di farle capire la gravità della situazione.
Lei mi guardò con occhi spalancati, visibilmente confusa, ma poi abbassò lo sguardo e annuì lentamente. «Ho detto soltanto che volevo vederti per ringraziarti,» rispose, la sua voce tremante ma sincera. «Per avermi liberata,» aggiunse, quasi come se avesse bisogno di giustificarsi.
Mi rilassai leggermente, anche se il mio cuore batteva ancora forte nel petto. Alexa non sembrava avere cattive intenzioni, ma il pensiero che Simon potesse fraintendere o, peggio, che potesse usare questa informazione contro di noi, mi metteva sul chi vive.
«Va bene,» dissi infine, cercando di modulare la voce in modo più rassicurante. «Ma devi stare attenta. Nessuno deve sapere cosa succede qui, specialmente Simon. Capito?» Alexa annuì di nuovo, con lo sguardo serio e determinato.
Mi avvicinai e le sfiorai il braccio in un gesto che speravo fosse rassicurante. «Sono contento che tu sia qui, ma dobbiamo essere cauti,» aggiunsi. Poi mi allontanai, cercando di lasciare alle spalle la tensione che si era accumulata tra noi. Non potevo permettermi di distrarmi adesso, non con così tanto in gioco.
«Adesso vado a recuperare la mia macchina,» dissi, più a me stesso che a lei, mentre mi dirigevo di nuovo verso la porta. «Tu cerca di rilassarti un po', ok?»
Mi fermai un attimo sulla soglia, voltandomi verso di lei. «Simon non è un tipo di cui puoi fidarti,» le dissi con un tono serio. «È un puttaniere, capisci? Non devi raccontargli nulla di importante, anzi, meglio se gli stai alla larga.»
Alexa annuì, gli occhi fissi su di me, come se stesse cercando di assorbire ogni parola. «Sì,» rispose con un filo di voce, quasi sottovoce, ma abbastanza convinta da farmi capire che aveva capito la gravità della situazione.
Cercai di alleggerire l'atmosfera, anche solo un po'. «Bene,» dissi, cercando di rilassare i muscoli del viso e abbozzare un sorriso. «Allora, cosa mi cucinerai?»
Alexa sollevò lo sguardo, un lieve sorriso che si formava sui suoi lineamenti delicati. «Beh, posso fare un po' di tutto,» rispose, visibilmente più rilassata.
«Cucinami dei mac and cheese,» le dissi, immaginando già il piatto cremoso e confortante che sarebbe stato perfetto dopo una mattinata movimentata.
Alexa annuì, apparentemente felice di avere qualcosa da fare. «Va bene,» rispose con un sorriso rassicurante. «Per che ora tornerai?»
«Saranno l'una,» le dissi, controllando l'orologio. «La lezione dovrebbe finire verso le dodici e mezza e poi torno subito qui.»
Lei annuì di nuovo, sembrando più sicura di sé. «Allora ti aspetterò con i mac and cheese pronti.»
Mi girai verso la porta, ma prima di uscire, mi voltai per guardarla un'ultima volta. «Grazie, Alexa. E ricordati quello che ti ho detto su Simon, ok?»
«Ok,» rispose lei, il suo sorriso ancora presente, ma con una sfumatura di serietà negli occhi. Sembrava capire che la situazione era più complessa di quanto potesse sembrare.
Chiusi la porta dietro di me, con la speranza che tutto andasse bene mentre ero fuori. Ora dovevo solo recuperare la mia macchina e risolvere la situazione con Simon, poi avrei potuto tornare a casa, mangiare un bel piatto di mac and cheese e magari, finalmente, rilassarmi un po'.
Vidi una macchina parcheggiata fuori dal vialetto: era Simon. Scendendo le scale del portico, aprii il cancello e lo richiusi dietro di me con un clangore metallico. Simon mi osservava attraverso il parabrezza, con un'espressione che non riuscivo a decifrare. Aprii la portiera della sua auto e mi sedetti accanto a lui.
«Grazie, Simon, per averla portata qui,» dissi, cercando di mantenere la voce calma. «Ma potevi semplicemente lasciarla con le altre.»
Simon alzò un sopracciglio, accendendo il motore senza distogliere lo sguardo da me. «Lei non voleva stare con le altre. Voleva stare con te,» rispose, con un tono che sembrava oscillare tra il divertito e il serio. «Non è che mi sono divertito a fare il babysitter, sai? Ma sembrava così disperata... E poi, diciamocelo, non era male l’idea di vederla più contenta.»
Sospirai, guardando fuori dal finestrino. Il cielo era grigio, e l'aria sembrava pesante, come se anche il tempo stesso si fosse stancato delle complicazioni della mia vita. «Avresti comunque dovuto lasciarla lì, Simon. Ora è solo un’altra complicazione.»
«Una complicazione, eh?» Simon sorrise, ma il sorriso non raggiunse i suoi occhi. «Senti, Alex, capisco che tu abbia un sacco di merda per la testa, ma a volte sembra che tu cerchi complicazioni invece di evitarle.»
Non risposi, semplicemente guardai la strada davanti a noi mentre Simon si allontanava dal vialetto. Aveva ragione, ma non avevo bisogno di sentirlo dire. Non in quel momento.
«Dove sono le altre?» chiesi, fissando la strada mentre Simon guidava.
«In hotel,» rispose, quasi distrattamente. Poi, dopo un attimo di pausa, aggiunse: «Tranne due.»
«Tranne due?» ripetei, girandomi verso di lui con uno sguardo interrogativo.
Simon sorrise, un sorriso che aveva qualcosa di sornione. «Una è Alexa, ovviamente. L'altra è Eddison.»
«Eddison è incinta,» dissi improvvisamente, il pensiero mi colpì come un fulmine.
Simon sospirò, la sua espressione cambiò, diventando più cupa. «Sì, lo so,» rispose lentamente. «E ti ricordi quando ti ho parlato di quella ragazza incinta che avevo lasciato? Quella ragazza... era Eddison.»
Mi voltai verso di lui, incredulo. «Era lei?» chiesi, cercando di mettere insieme i pezzi di questa rivelazione inaspettata.
«Già,» confermò Simon, senza traccia di sarcasmo o ironia nel suo tono, il che era raro per lui. «Non era previsto che succedesse, ma... è successo. E ho fatto un casino, come sempre.»
Il peso della situazione sembrava crescere, diventando sempre più soffocante. Eddison non era solo una delle tante ragazze, ora era chiaro che la sua situazione era molto più complicata e carica di implicazioni. «E adesso?» chiesi, cercando di capire cosa Simon intendesse fare, o se avesse anche solo una vaga idea del da farsi.
«Adesso?» ripeté Simon, lasciando che la parola galleggiasse nell'aria per un momento. «Adesso non lo so. Non sono proprio il tipo che pianifica, lo sai. Cerco solo di affrontare le cose come vengono.»
«Madison è incinta, Simon,» Simon annuì lentamente, il suo solito sorriso svanito. «Lo so,» disse con voce bassa, quasi rassegnata.
«Lo sai?» domandai, cercando di capire quanto fosse consapevole della gravità della situazione. «E tu pensi di poter continuare come se niente fosse?»
Lui sospirò, fissando la strada davanti a sé. «Non è che non mi importi, Alex. So che ho fatto un casino, ma non so come sistemarlo. Madison è una delle poche persone che non merito di avere nella mia vita.»
Quelle parole mi colpirono. Non ero abituato a vedere Simon così serio, così vulnerabile. Solitamente era l’uomo delle battute pronte e delle soluzioni semplici. Ma questa volta, sembrava davvero perso.
«Madison non è come le altre,» continuai. «E non sto parlando solo del fatto che è incinta. Lei non è una ragazza qualunque, Simon. Non puoi trattarla come se fosse una delle tante.»
«Lo so,» ripeté, la sua voce quasi un sussurro. «Ma non so nemmeno da dove cominciare per rimediare.»
C'era una pausa carica di tensione. L'aria tra di noi era pesante, come se entrambi fossimo consapevoli che qualcosa di più grande stava per accadere, qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutto.
«Dobbiamo trovare un modo per aiutarla,» dissi finalmente, rompendo il silenzio. «Non possiamo lasciarla sola in questo casino.»
Simon annuì, ma non disse nulla. Era come se, per la prima volta, fosse costretto a fare i conti con le conseguenze delle sue azioni, senza poterle evitare o minimizzare con una battuta.
«Non so come farlo, Alex,» ammise infine, con un'onestà che non avevo mai visto in lui. «Ma se tu hai un piano, io ci sono. Non voglio fare altro danno.»
«Ne parleremo,» dissi, cercando di mantenere la calma nonostante il caos che sentivo dentro. «Ma dobbiamo fare qualcosa, e dobbiamo farlo subito.»
Simon si limitò ad annuire, e mentre la macchina continuava a muoversi lungo la strada, sapevo che avevamo preso una decisione che avrebbe cambiato tutto. Ma in quel momento, non avevo idea di come avremmo potuto risolvere tutto questo. Ero solo consapevole che non potevamo permetterci di fallire.
Il nome di Eddison e il pensiero della sua gravidanza mi martellarono la testa come un tamburo incessante. Ricordai improvvisamente quello che Simon mi aveva raccontato tempo fa, ma la connessione mi colpì come un fulmine. «Ma Madison è incinta,» dissi, con un misto di preoccupazione e incredulità nella voce.
Simon sospirò, girando lo sguardo verso di me per un attimo prima di tornare a guardare la strada. «Ti ricordi quando ti ho detto della mia ragazza incinta?» domandò, con un tono che tradiva la gravità della situazione.
Annuii lentamente, cercando di mettere insieme i pezzi. «Sì, ma... non stavi parlando di Madison, vero?»
Lui annuì, il suo volto serio per una volta. «Era lei, Alex. Madison. La situazione è complicata, lo so. Ma sì, è stata con me, ed è rimasta incinta.»
Mi sentii gelare, il peso della rivelazione che mi travolgeva. «Sei stato al club prima, vero?» chiesi, anche se la risposta era ormai ovvia.
«Certo che ci sono stato,» rispose Simon con una punta di amarezza. «Eddison lavorava lì, e io... beh, ci siamo avvicinati. Mi aveva raccontato che John, il proprietario, se la faceva, ma non mi disse subito tutto. Un giorno, io e lei... abbiamo fatto l'errore di scopare. Non sapevo che fosse minorenne, cazzo, Alex. Lo scoprì dopo, quando ormai era troppo tardi.»
Rimasi in silenzio, cercando di assorbire tutto quello che mi aveva appena detto. La gravità della situazione era immensa, e sentivo il mio stomaco ribollire. Simon aveva fatto un casino enorme, e ora ne pagavamo tutti le conseguenze. «E ora cosa intendi fare?» chiesi, cercando di capire se avesse un piano.
Simon sospirò ancora, questa volta più profondamente. «Non lo so, Alex. Non ho idea di cosa fare. Ma devo prendermi la responsabilità, lo so. Non posso lasciarla così, non dopo tutto quello che è successo.»
Annuii lentamente, cercando di capire come potessimo uscirne senza rovinare ulteriormente le vite già fragili di tutti quelli coinvolti. Ma la risposta non era semplice, e il futuro sembrava più incerto che mai.
__
Gli appoggiai una mano sulla spalla, stringendola leggermente per sottolineare la gravità delle mie parole. «Simon, Madison mi sembra una brava ragazza. Trattala bene e, per l'amor del cielo, non abbandonarla come hai fatto l'ultima volta.» Il tono della mia voce era serio, quasi implorante, sperando che il messaggio lo colpisse davvero.
Eravamo arrivati al parcheggio dove la mia Tesla ci aspettava, un'isola di tranquillità in mezzo a tutto il caos che ci circondava. Simon fermò la sua Maserati, lasciando che il motore ruggente si spegnesse, e si girò verso di me. Per un attimo, il suo sguardo sembrava meno sfacciato, più riflessivo. «Sì, amico,» disse, con un tono che tradiva un po' della sua solita spavalderia. «Non la ferirò come ho fatto l'ultima volta.»
Annuii, scendendo dalla macchina. «Bene, ci vediamo all'università.» Chiusi la porta della Maserati dietro di me, sentendo il suono rassicurante della chiusura mentre Simon si allontanava. Mi avviai verso la mia Tesla, il freddo metallo sotto le dita quando aprii la portiera.
Guardai Simon allontanarsi, mentre riflettevo su tutto quello che era successo nelle ultime ore. Erano giorni come questo che mi facevano mettere in discussione ogni decisione presa, ogni passo intrapreso. Sospirai, infilandomi nella Tesla, consapevole che la giornata era appena iniziata e che le sfide non erano ancora finite.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top