𝓐𝓵𝓮𝔁𝓪
La luce di San Francisco si rifletteva nei miei occhi mentre l'auto di mio padre sfrecciava lungo le strade affollate. Avevo sempre pensato che la città avesse un'anima oscura, un’energia pulsante che si nascondeva dietro la facciata scintillante dei suoi grattacieli. Ma ora, mentre mi avvicinavo a quello che una volta era il Velvet, il club che aveva segnato le mie notti di libertà e disperazione, sentivo che l’oscurità mi stava abbracciando nuovamente.
Mio padre mi osservava dal sedile anteriore, il suo sguardo era gelido e severo. Non sapevo esattamente perché fossi qui, né perché avesse deciso di riportarmi in questo posto maledetto. Sapevo solo che, da quando mi aveva strappata via dalla mia vita, ogni giorno era stato un tormento. Alexa Club, il nuovo nome del locale, risuonava nelle mie orecchie come un avvertimento. Era come se il club fosse un'entità a sé stante, un'entità che cercava di reclamarmi.
Mentre scendevo dall'auto, un brivido di ansia mi percorse la schiena. Le luci del club pulsavano come un cuore malato, e la musica assordante si mescolava ai rumori delle risate e dei gemiti. Le nuove ragazze che avevo sentito menzionare, tutte con volti giovani e sorrisi abbaglianti, si muovevano come ombre tra la folla. Non sapevo cosa aspettarmi. La mia mente si affollava di pensieri confusi e di memorie che preferivo dimenticare.
Mio padre mi fece cenno di seguirlo. Camminai accanto a lui, il cuore che batteva all'impazzata. Il profumo del club, una miscela di alcool e dolcezza, mi avvolse come una nube tossica. Entrai, e la stanza si riempì di luci colorate che danzavano sulle pareti. Mi sentii come un pesce fuor d’acqua, un’anima perduta in un mare di desideri e di esperienze che non volevo più affrontare.
Ci sedemmo a un tavolo vicino al palco. Le ragazze danzavano con movimenti sinuosi, i loro corpi avvolti in tessuti trasparenti, mentre gli uomini le osservavano con sguardi affamati. Non riuscivo a staccare gli occhi da loro. C’era qualcosa di inquietante in quelle danze, come se stessero vendendo non solo il loro corpo, ma anche la loro anima. E io ero intrappolata in questa gabbia dorata, non sapevo se avrei resistito.
«Questa è la tua nuova vita,» disse mio padre, la voce bassa e profonda. Le sue parole colpirono il mio petto come un colpo di pistola. Non potevo crederci. «Dovrai lavorare qui. Sei destinata a brillare, Alexa. Non deludermi.»
Le lacrime mi si erano accumulate negli occhi, ma non le lasciai cadere. Dovevo essere forte. La mia vita si stava svelando in modi che non avrei mai immaginato. Avevo sempre cercato di scappare da questo mondo, e ora vi ero stata riportata dentro, come una marionetta nei fili di un burattinaio senza pietà.
Mi alzai per andare in bagno, sperando di trovare un momento di tranquillità. Il corridoio che conduceva alle toilettes era stretto, le pareti erano decorate con immagini di donne seducenti, tutte pronte a svelare i loro corpi in cambio di denaro. Mentre camminavo, sentivo gli sguardi appiccicosi degli uomini seguirmi. Volevano solo una cosa da me.
Entrai nel bagno e chiusi la porta dietro di me. Il riflesso nello specchio era quello di una sconosciuta. I miei capelli erano disordinati, la mia pelle era pallida e gli occhi... erano pieni di paura. Cosa mi stava succedendo? Il battito del mio cuore si era accelerato. Era un gioco pericoloso, e io non ero pronta a giocarci.
Mi sciacquai il viso, ma l’acqua non riusciva a scacciare il senso di angoscia che mi attanagliava. Sapevo che dovevo tornare, ma l’idea di affrontare quel mondo mi sembrava insopportabile. E mentre mi perdevo nei miei pensieri, sentii una voce alle mie spalle.
«Sei nuova qui, eh?»
Mi girai di scatto. Era una delle ragazze del club, il suo sorriso era affascinante ma freddo come il ghiaccio. «Non è facile adattarsi, lo sai?»
«Non voglio stare qui,» risposi, la mia voce tremante.
Indossava un reggiseno di pizzo rosso che metteva in risalto il suo seno sodo e un perizoma dello stesso colore che lasciava poco all’immaginazione. Le sue gambe lunghe e muscolose erano avvolte in stivali neri alti fino al ginocchio, che sembravano scolpiti per camminare su palchi di luci soffuse e desideri inconfessabili. Le orecchie da coniglio che adornavano la sua testa la rendevano ancora più enigmatica, un richiamo al gioco e alla seduzione.
«Piacere, io sono Tamara,» disse, porgendomi la mano con un sorriso malizioso. Il suo tocco fu immediato e deciso, e mentre le nostre mani si strinsero, sentii un’energia intensa pulsare tra di noi. Era come se avesse una sorta di potere su di me, un’influenza che non riuscivo a comprendere.
«Alexa,» risposi, cercando di mantenere la mia voce ferma. La sua presenza era magnetica, e nonostante la mia riluttanza, mi trovai a desiderare di conoscerla meglio.
«Sei una delle fortunate che si è unita a noi, allora?» Un brivido di disagio mi attraversò. La mia mente tornava a pensieri inquietanti, a tutte le cose che non volevo fare, ma il club sembrava avere un’attrazione magnetica che non riuscivo a ignorare.
Sentii la mia voce tremare quando dissi: «Ti ho appena detto che non voglio stare qui.» Cercai di mantenere il controllo, ma dentro di me il nervosismo cresceva, avvolgendomi come una nebbia densa che non riuscivo a dissipare. Tamara mi osservava dall’alto, con uno sguardo che mi faceva sentire insignificante, come se fossi solo un'altra pedina in questo gioco perverso.
Lei si spostò davanti a uno specchio, controllando il proprio riflesso con indifferenza, come se il mio rifiuto non significasse nulla. Il club era oscuro, illuminato solo da qualche luce soffusa che dava alla stanza un'atmosfera soffocante e claustrofobica. Il suono della musica proveniente dall’altra stanza sembrava pulsare, come un battito lontano che mi spingeva sempre più in fondo.
La porta si aprì all'improvviso, e l'aria della stanza si fece pesante. Mio padre entrò, il volto freddo, privo di emozioni. Si avvicinò senza dire una parola, gettando una busta ai miei piedi con noncuranza. «Alexa, i tuoi vestiti,» disse in tono tagliente, come se ogni sillaba fosse un colpo affilato. Il mio stomaco si contrasse all’udire il suo tono, la sua totale mancanza di empatia.
Guardai la busta con riluttanza, già sapendo cosa ci avrei trovato dentro. Il peso delle sue aspettative incombeva su di me come un macigno. Era il mio destino, cucito nei tessuti di quel costume. Lo presi lentamente, le mani che tremavano leggermente. Non volevo aprirla, non volevo nemmeno guardare dentro. Ma sapevo che non avevo scelta.
Dentro la busta, il costume mi attendeva. Era un pezzo unico, nero come la notte, fatto di materiali lucidi e trasparenti che rivelavano più di quanto nascondessero. Era il simbolo di tutto ciò che stavo cercando di sfuggire. Lo guardai con disgusto, mentre mio padre rimaneva lì, impassibile. Era come se mi stesse dicendo che quella era l’unica versione di me che potevo diventare. Che non c’era via di fuga.
Tamara si girò, sorridendo in modo sprezzante. «Benvenuta al club, Alexa,» disse, e c’era un sottile veleno nelle sue parole, come se sapesse che ormai ero prigioniera, anche se non avevo ancora indossato quell'intimo.
La sua voce risuonava nella stanza come un eco freddo, priva di ogni traccia di umanità. «Adesso che non sei più vergine, puoi scopare,» disse mio padre, senza un minimo di esitazione. La crudeltà delle sue parole mi colpì come una frustata, e per un attimo, il mondo intorno a me sembrò fermarsi. Non riuscivo a respirare, ogni singolo muscolo del mio corpo paralizzato dall'orrore.
Lo guardai, gli occhi pieni di un odio che non riuscivo a contenere. Come poteva un padre dire una cosa del genere? Come poteva qualcuno pretendere di ridurmi a questo, di strappare via quel poco che restava di me? Sentivo il cuore battere forte nel petto, il sangue che mi ruggiva nelle orecchie. Ero paralizzata dal terrore, dall'incredulità.
Provai a parlare, ma le parole sembravano soffocate in gola. «Io...» tentai di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma la mia voce si spezzò, incapace di uscire completamente. Le lacrime cominciarono a scendermi lungo le guance, calde e brucianti, segni silenziosi del dolore che non riuscivo a esprimere a parole.
Lui non mostrava alcuna reazione al mio tormento, al mio dolore. Al contrario, si avvicinò ancora di più, il suo volto privo di emozioni, freddo come il ghiaccio. La sua mano ruvida si posò sul mio viso, accarezzandolo in un gesto che avrebbe dovuto essere tenero, ma che mi faceva solo ribrezzo. «Tutte qui scopano, Alexa,» disse, la sua voce priva di compassione, priva di rimorsi.
Le sue dita callose scivolavano sulla mia pelle, lasciandomi un senso di nausea profonda. Volevo urlare, volevo scappare, ma non potevo muovermi. Le sue parole continuavano a risuonare nella mia mente, ripetendosi come un mantra malato: "Tutte qui scopano."
Tamara osservava la scena dall’angolo della stanza, il suo sguardo privo di empatia, quasi divertito. Era come se tutto fosse già scritto, come se fossi solo l’ennesima ragazza intrappolata in questo incubo. Il club, le luci soffuse, la musica che vibrava lontano—tutto contribuiva a creare una prigione invisibile dalla quale non riuscivo a fuggire.
Il costume che stringevo tra le mani sembrava bruciare contro la mia pelle, un promemoria tangibile del destino che mi aspettava se non avessi trovato un modo per scappare. Eppure, non c’era via d’uscita. Non c’era nessuno che potesse salvarmi da quest’uomo che chiamavo padre. Sentii un nodo stringersi alla gola, l’aria divenne pesante, soffocante.
Mio padre uscì dalla stanza, lasciando dietro di sé solo il suono sordo della porta che si chiudeva e un silenzio soffocante che mi riempiva l'anima di terrore. Il suo odore acre, misto a tabacco e alcool, sembrava ancora impregnare l’aria. Tamara mi guardava, con quel sorriso strano e vuoto che non riuscivo a capire. Si avvicinò lentamente, come se fosse normale fare quello che stava per chiedermi.
«Forse è meglio che tu ti vesta,» disse, la sua voce fredda e priva di compassione. Prese l'intimo dalle mie mani, sollevandolo come fosse un abito da regina, il suo sguardo orgoglioso per qualcosa che per me era solo una catena. Era un pezzo di lingerie rossa, con ricami che sembravano tagliare la pelle solo guardandoli. Lo stringeva tra le dita come un trofeo. «È perfetto,» continuò. «Ti starà molto bene, perché sei una delle più belle qui dentro.»
Il suo tono era piatto, distante, come se stesse parlando di una cosa qualunque. Ma per me, quel vestito significava solo una cosa: prigionia. Sapevo che a lei piaceva stare lì, dentro quel club che adesso portava il mio nome, un macabro segno di possesso. Ma io... io mi sentivo intrappolata, legata a una realtà che non volevo, incatenata a un destino che non avevo scelto.
Mi mancava l'aria. L’opprimente calore del club, con le sue luci basse e i muri scuri, sembrava chiudersi su di me. Ogni respiro diventava più difficile, come se stessi annegando lentamente in un mare di disperazione. Non ero altro che una marionetta nelle mani di mio padre, e ogni volta che cercavo di immaginare una via di fuga, il terrore mi stringeva il petto, impedendomi anche solo di sognare la libertà.
«Mi sento come in una prigione,» mormorai, quasi senza voce. Tamara alzò un sopracciglio, il suo sguardo divertito. Per lei, tutto questo era normale, forse addirittura desiderabile. Ma per me... per me era un inferno.
Avevo passato quarantadue ore di viaggio in macchina con mio padre. Quarantadue ore di silenzio, interrotte solo dalle sue richieste di fermarsi per dormire, per mangiare. Ogni sosta era un'illusione, una piccola speranza che potessi scappare. Ma ogni volta, qualcosa mi tratteneva. Il terrore che provavo per quell'uomo. L'inutile speranza che Alexander sarebbe venuto a salvarmi.
Alexander.
Mi mancava così tanto che il solo pensiero di lui mi faceva male. Mi stringeva il cuore e mi lasciava un vuoto nello stomaco. Non sapevo dov'era, ma sapevo che mi stava cercando. Doveva esserci un modo, doveva esserci una possibilità di fuga. E Addison, la mia migliore amica... lei era l'unica persona che mi aveva dato speranza, anche nei giorni più bui. Ma ora, anche lei era lontana, e io ero sola in questo incubo.
Tamara mi guardò negli occhi, il suo sorriso ancora sulle labbra, ma privo di calore. «Non è poi così male,» disse, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. «Una volta che ti abitui... tutto diventa più facile.» La sua voce era morbida, quasi ipnotica, come se volesse convincermi che quello fosse l'unico modo per sopravvivere.
Ma io non volevo abituarmi. Non volevo perdere me stessa in quel posto, tra quelle mura soffocanti e quelle luci spietate. Volevo tornare da lui, da Alexander, l’unica persona che mi aveva mai fatto sentire viva, vera.
Con le mani che tremavano, mi passai le dita tra i capelli, cercando di riprendere fiato, cercando di trovare una via d'uscita.
Sospirai profondamente, sentendo un nodo stringermi la gola. «Sono obbligata a stare qua, non capisci!!» gridai, cercando di mantenere il controllo, ma la mia voce tremava, incrinandosi sotto il peso dell’angoscia. Presi il vestito dalle sue mani con un gesto brusco, come se quel semplice contatto fosse una minaccia.
Tamara si limitò a sorridere, ma non c’era gentilezza in quel gesto. Il suo sguardo era freddo, calcolatore, come se la mia disperazione fosse solo un’inevitabile fase per chi si trovava in quella gabbia dorata. «Certo che lo capisco,» disse, la sua voce serpeggiante, quasi provocatoria. «Tutte quelle che arrivano da John sono ‘obbligate’. Ma alla fine, tutte si arrendono. Nessuna può scappare davvero.»
Le sue parole mi tagliarono come lame, fredde e spietate. Era vero. John, mio padre, non lasciava mai che qualcuno sfuggisse al suo controllo. Ogni singola ragazza che era passata per le sue mani era stata annientata, spezzata, resa schiava dei suoi desideri malati. Eppure, Tamara parlava come se fosse inevitabile, come se dovessi solo rassegnarmi.
«Vi siete tutte scappate, sì,» continuò con un tono quasi derisorio, «o almeno ci avete provato. Ma guarda dove siete finite. Tornate sempre indietro.» Fece un passo verso di me, i suoi occhi brillanti di una consapevolezza che mi terrorizzava. «Perché la libertà è un'illusione, Alexa. Qui dentro, John controlla tutto. E tu... tu appartieni a lui, come tutte le altre.»
Il vestito rosso che stringevo tra le mani sembrava pulsare tra le mie dita, un simbolo della mia sottomissione, della mia impotenza. Mi sentivo soffocare. Il pensiero di dover indossare quell'indumento, di dover cedere a quell'inferno, mi riempiva di orrore. Ma Tamara mi guardava come se sapesse già la mia risposta, come se sapesse che non avrei avuto scelta.
«Non appartengo a nessuno,» sibilai tra i denti, cercando di dare forza alle mie parole, ma dentro di me, sapevo che stavo mentendo. Perché in quel momento, tutto sembrava perduto. Mio padre mi aveva trascinato qui, lontano da ogni possibilità di fuga, e ora ero in trappola. Le luci soffuse del club si riflettevano nei miei occhi, distorte, come il riflesso di una vita che non era più mia.
Tamara rise, un suono crudele che rimbalzò contro le pareti. «Vedremo quanto durerai, Alexa. Vedremo quanto resisterai prima di crollare come tutte le altre.» Fece un cenno verso il vestito che tenevo tra le mani, il simbolo della mia sottomissione. «Indossalo. Il club non aspetta.»
Mi sentii svuotata, prosciugata di ogni forza. Ogni passo che facevo sembrava una condanna. Mi voltai lentamente verso lo specchio, con quel pezzo di stoffa rosso tra le mani, e vidi riflessa una versione di me stessa che non riconoscevo più. Ero diventata solo un’altra pedina nel gioco perverso di mio padre. Tutto il mio essere urlava per scappare, per fuggire lontano da lì. Ma il suono di quelle catene invisibili mi tratteneva.
Con le mani tremanti, iniziai a spogliarmi lentamente, sentendo ogni pezzo di stoffa che lasciavo cadere a terra come un peso che mi inchiodava sempre più alla realtà di quel momento. Non avevo scelta, lo sapevo. La paura di mio padre era troppo forte, troppo radicata dentro di me. Ogni volta che provavo a ribellarmi, a pensare di oppormi, quella paura mi soffocava come una mano invisibile che stringeva il mio collo.
Il vestito che avevo tra le mani sembrava bruciare la pelle al solo contatto. Era come un ritorno a quell’incubo dal quale non ero mai veramente uscita. Lo indossai con una lentezza dolorosa, come se ogni gesto fosse una resa definitiva, una capitolazione al mondo che mio padre aveva costruito intorno a me.
Il tessuto rosso mi avvolse in modo scomodo, stretto, segnando ogni curva del mio corpo come se fossi un oggetto da esibire. Era un vestito che una volta avevo già portato, e ora tornava a risucchiarmi in quell’inferno dal quale avevo cercato di fuggire. La sensazione di essere imprigionata si fece ancora più forte. Ogni fibra di quel tessuto sembrava stringermi, ricordandomi chi ero davvero in quel momento: una prigioniera. Una schiava del volere di mio padre.
Mi guardai nello specchio, osservando la mia immagine riflessa. Ero tornata esattamente dove tutto era cominciato. Le luci soffuse del club si riflettevano contro la mia pelle nuda, mentre i miei occhi vuoti cercavano disperatamente un motivo per non crollare. Ma non trovavo niente.
Mi scesero alcune lacrime, silenziose, lente, quasi rassegnate. Non erano lacrime di rabbia o di ribellione. Erano lacrime di accettazione. Mi asciugai il viso con un gesto veloce, quasi automatico, come se piangere fosse ormai inutile. Non c’era più spazio per la debolezza. Non lì, non in quel posto.
Non avevo nemmeno la forza di truccarmi. Mi sentivo troppo stanca, svuotata. Il mio viso, pallido e privo di colore, rifletteva il mio stato interiore. Non volevo sembrare bella, non volevo apparire attraente. In quel momento, non volevo essere notata. Volevo solo sparire, diventare invisibile.
Tamara si avvicinò a me, osservandomi dall'alto in basso con uno sguardo che non riuscivo a decifrare. Sembrava quasi compiaciuta, come se vedermi così sconfitta fosse per lei una vittoria personale. Non disse nulla, ma il suo silenzio era più rumoroso di qualsiasi parola. Quell'indifferenza mi spezzava ancora di più.
Rimasi lì, immobile, mentre il vestito aderiva al mio corpo come una seconda pelle. La mia mente era annebbiata da pensieri contrastanti, dalla paura e dall’incertezza. Mi chiedevo dove fosse Alexander, se mi stesse cercando, se sapeva che ero stata portata qui. Ma in quel momento, ogni speranza sembrava distante, irraggiungibile. Ero sola.
Il club, con le sue luci soffuse e la musica bassa e inquietante, si stava preparando ad aprire le porte. Le altre ragazze erano già pronte, abituate a quel mondo che per me era un incubo senza fine. Ma io... io ero lì, con il cuore pesante e l'anima spezzata, intrappolata in una prigione che sembrava sempre più buia.
Alexa Club. Il nome risuonava nella mia testa come un’ironica beffa.
Le luci soffuse del club si accesero lentamente, immergendo l'ambiente in un'atmosfera inquietante e sinistra. L'aria vibrava di una tensione palpabile, e il rumore delle porte che si aprivano annunciava l'inizio di quella che sarebbe stata un'altra notte lunga, un'altra notte da incubo. Il club era molto più grande del Velvet, il che lo rendeva ancora più opprimente. Le pareti erano coperte da specchi, riflettevano ogni angolo della stanza, amplificando ogni movimento, ogni sguardo. Sembrava di essere intrappolata in un labirinto di illusioni.
Le gabbie metalliche si trovavano al centro del locale, grandi, minacciose, illuminate da un'oscura luce rossa che faceva brillare il metallo freddo. Non erano solo decorazioni. Erano lì per un motivo preciso, pronte a essere riempite, pronte a contenere corpi umani come animali in mostra, oggetti da sfruttare per il piacere altrui.
Sul palco, diverse ballerine si muovevano già con grazia forzata, eseguendo le loro coreografie come se fossero macchine programmate per compiacere. Ognuna di loro indossava costumi che lasciavano poco all'immaginazione: stoffe brillanti, pizzi che sembravano più fragili del vetro, e tacchi così alti da sembrare strumenti di tortura. Il loro trucco era impeccabile, e i sorrisi che sfoggiavano erano maschere studiate alla perfezione, nascondendo chissà quali pensieri dietro quegli sguardi vuoti.
Le ragazze di mio padre, quelle che avevano lavorato al Velvet, non c'erano più. Erano sparite, come se non fossero mai esistite. Al loro posto, volti nuovi, corpi nuovi, più giovani, più docili. Ma io, io ero l'unica a essere rimasta. L'unica che portava ancora il peso del passato sulle spalle. L'unica a ricordare cosa voleva dire sopravvivere sotto il controllo di quell'uomo.
Mi sentivo terribilmente sola.
Ogni angolo del club mi sembrava familiare e allo stesso tempo alieno. Era come se il Velvet fosse stato smantellato e ricostruito in una versione più grande, più perversa. C’erano delle stanze private dietro tendaggi di velluto nero, e sapevo benissimo a cosa servissero. Luoghi nascosti dove le persone potevano fare qualsiasi cosa senza essere viste, dove i limiti non esistevano.
Non ero più una semplice ballerina o una barista che poteva scegliere di rifiutare certi "servizi" se lo desiderava. Ora non ero niente. Solo un corpo, un vestito di carne che poteva essere venduto e comprato come una merce qualunque. La consapevolezza di questo mi faceva stringere il petto, come se un'ombra invisibile mi stesse schiacciando.
Tamara si era dileguata da qualche parte, lasciandomi completamente sola, in piedi nell'angolo buio. La musica era iniziata, un ritmo lento, sensuale, ma per me era solo un altro segnale di allarme. Sentivo il sangue pulsarmi nelle tempie mentre guardavo le altre ragazze esibirsi, una dopo l'altra, come se tutto fosse normale, come se fosse giusto.
Mi sembrava di soffocare. Il mio respiro si faceva sempre più corto, mentre la consapevolezza di non avere via d'uscita mi travolgeva come un'onda. Non c'era nessuno che sarebbe venuto a salvarmi. Alexander non sapeva nemmeno dove fossi. E anche se lo avesse saputo, mio padre non lo avrebbe lasciato avvicinarsi. Era un uomo potente, troppo potente, e io non ero niente per lui se non uno strumento per il suo guadagno.
Le mie mani si strinsero attorno al bordo del bancone dietro di me, mentre cercavo di mantenere la calma. Ma ogni suono, ogni risata, ogni occhiata lasciva che sentivo puntata su di me, mi faceva sprofondare ancora di più in quel pozzo senza fondo.
Sola. Terribilmente sola.
Salii sul palco, i riflettori puntati su di me mentre ogni passo sembrava affondare in un mare di fango. Il rumore dei tacchi rimbombava nelle mie orecchie, sovrastato solo dal battito accelerato del mio cuore. Mi avvicinai al palo centrale, la superficie di metallo fredda sotto la mia mano destra. La sensazione mi fece rabbrividire, non solo per il gelo, ma per il ricordo di cosa rappresentava: la sottomissione, la vergogna, il controllo di mio padre su di me.
Mio padre mi seguiva con il suo sguardo imperturbabile. Sembrava compiaciuto, come se ogni mio movimento fosse la realizzazione del suo piano. Salì anche lui sul palco, affiancandomi, con la sua presenza che mi faceva sentire soffocata. Si avvicinò, troppo vicino per il mio comfort, e con un sorriso diabolico mi porse una bottiglietta d’acqua.
«Alexa, bevi un po’ d’acqua,» disse con voce calma, ma carica di quell’onnipresente controllo.
Gli lanciai uno sguardo rapido, confusa. Non riuscivo a capire cosa stesse cercando di ottenere questa volta, ma presi la bottiglietta e bevvi un sorso, più per dare tregua alla mia gola secca che per altro. L’acqua scivolò giù fredda, ma non riuscì a placare la nausea che mi attanagliava lo stomaco.
Lui mi osservava ancora, il suo sguardo glaciale che sembrava sezionarmi, scavando dentro di me, cercando la paura. Sorrise, un sorriso che non aveva nulla di paterno, solo sadico.
«Brava ragazza,» disse con quel tono mellifluo che mi faceva venire i brividi. «Fai il tuo lavoro.»
Il significato di quelle parole era più pesante di qualsiasi altro comando che mi avesse mai dato. Fai il tuo lavoro. Come se fossi solo una cosa da usare, un corpo da esibire per il piacere degli altri. Le sue parole rimbombavano nella mia mente, distorte dal mio disgusto, ma ero intrappolata.
Non ero io quella che ballava. Era un fantoccio, una marionetta controllata da fili invisibili che mio padre teneva in mano.
Il mondo intorno a me iniziava a sfocarsi, i contorni delle luci e delle ombre si mescolavano in un caotico vortice. Ogni movimento che facevo era più lento, come se stessi ballando sott'acqua. Il freddo del palo si era intensificato, mentre il sudore scivolava lungo la mia schiena, ma non era solo il caldo a farmi sentire male.
La nausea si fece più forte. Sentivo lo stomaco ribollire, ma non potevo fermarmi. Dovevo continuare a ballare, a fingere che tutto fosse normale. Ogni passo mi sembrava un'enorme fatica, le gambe pesanti come se fossero fatte di cemento. Guardai giù, verso gli uomini seduti sui divani, i loro occhi avidi fissi su di me, come predatori che aspettavano il momento giusto per attaccare.
L'aria si faceva densa, irrespirabile. Sentivo le risate, le chiacchiere indistinte provenire dalla sala, ma erano solo rumori di fondo, lontani e ovattati, come se provenissero da un'altra dimensione.
Poi il mondo si inclinò. Sentii un'ondata di vertigine così forte che dovetti aggrapparmi al palo per non cadere. Ma le mie mani scivolarono via, deboli, senza forza. Le gambe mi tradirono e non riuscii a restare in piedi. Guardai per un istante il soffitto, le luci lampeggianti che sembravano divorare tutto intorno a me.
Non riuscivo più a controllare il mio corpo, come se fosse stato completamente scollegato dalla mia mente. Il suono delle risate si fece più acuto, ma poi si spense. Ogni cosa diventò buio. Il pavimento si avvicinò rapidamente, e prima che potessi reagire, caddi, il mondo scomparve.
Svenni.
Sentii la freddezza del pavimento contro la pelle nuda prima che tutto svanisse.
Quando riaprii gli occhi, il mondo sembrava ruotare attorno a me, ancora confuso e distorto. La musica pulsava nei miei timpani, battendo come un martello incessante, facendomi sentire come se fossi intrappolata in un incubo da cui non riuscivo a scappare. Mi trovavo in una gabbia, il freddo metallo contro la mia pelle nuda. L'intimo che indossavo sembrava ancora più stretto, soffocante. Mi guardai intorno, disorientata, cercando di capire dove fossi e come fossi finita lì.
Davanti a me c'era un uomo, immobile. Indossava una maschera che copriva tutto il suo volto, nascondendo la sua identità. Solo i suoi occhi brillavano attraverso i fori, fissandomi con un'intensità inquietante. Il cuore mi batteva all'impazzata, il panico si insinuava nel mio petto. La sua presenza era opprimente, come un predatore che osserva la sua preda senza fretta, sapendo di avere tutto il tempo del mondo.
Le mie mani tremavano mentre cercavo di sollevarmi, ma le gambe erano ancora deboli, incapaci di sostenermi. Provai a parlare, la mia voce uscì spezzata, soffocata dal terrore. «Ti prego... non farmi del male...» sussurrai, le parole quasi soffocate dalla paura che mi stringeva la gola.
L'uomo non disse nulla all'inizio. Invece, si avvicinò lentamente, con movimenti lenti e calcolati, fino a quando non si abbassò sopra di me. Mi sentivo come una bambola rotta, incapace di muovermi, completamente alla sua mercé. Le lacrime iniziarono a scendere sulle mie guance, mentre il terrore mi stringeva come una morsa.
Mi baciò, la sua bocca fredda contro la mia pelle umida di lacrime. Il disgusto mi travolse, un brivido di nausea mi percorse la schiena. Sentivo il suo peso su di me, la sua presenza soffocante. «Non piangere,» mi sussurrò all'orecchio con una voce bassa e tranquilla, quasi rassicurante, ma era peggio. «Non ti farò male.»
Le sue parole erano come un veleno. Non potevo fidarmi di lui, non potevo credere a nulla di ciò che diceva. Ogni fibra del mio essere gridava di scappare, ma ero intrappolata, intrappolata da lui, intrappolata in quel maledetto club che portava il mio nome. Ero prigioniera non solo della gabbia, ma della volontà di mio padre e di tutti quelli che mi circondavano.
Mentre lui continuava a sussurrare, il senso di impotenza mi travolse completamente. Sapevo che non c’era via d’uscita, non questa volta. Il club, le gabbie, le maschere... tutto mi sembrava una discesa in un inferno personale da cui non avrei mai potuto fuggire. E nel buio di quella gabbia, con le luci al neon che lampeggiavano fuori e la musica che pulsava, capii che non ero solo prigioniera di mio padre o di quegli uomini, ma di qualcosa di molto più profondo e oscuro.
Mi baciò il collo, le sue labbra fredde scorrevano sulla mia pelle, lasciandomi un brivido di paura e nausea. «Basta,» sussurrai, ma le parole erano soffocate dalla sua presenza opprimente. Il panico cresceva dentro di me mentre cercavo di mantenere la lucidità, di trovare un modo per uscire da quella situazione. Aprii gli occhi, guardandomi attorno. La gabbia era circondata da volti sconosciuti, uomini e donne, che osservavano con sguardi avidi e maliziosi. Sentivo il loro interesse, il loro divertimento, come se fossi solo un oggetto in mostra, un intrattenimento per le loro fantasie oscure.
Lui si alzò, la sua figura alta e imponente si stagliava contro la luce soffusa del club. «Stai zitta, o ti farò più male,» disse con un tono minaccioso, mentre la sua mano si posava sulla mia bocca, imponendosi silenziosamente. La mia mente cercava di trovare una via d’uscita, ma il terrore mi bloccava. La mia libertà era un concetto distante, irraggiungibile.
Poi, senza preavviso, entrò dentro di me, lentamente. La sensazione di violazione mi travolse, come se il mondo attorno a me si fosse fermato. Le lacrime scesero lungo le mie guance, mescolandosi con il disgusto e la paura. Mi dimenai sotto di lui, il corpo che cercava di ribellarsi a quell’atto. Ogni movimento che facevo sembrava futile, come cercare di liberarsi da una morsa inespugnabile.
Non era solo un corpo che stava sopra di me; era un ricordo delle mie peggiori paure, un'incarnazione di tutte le cose che avevo temuto. La gabbia, le luci tremolanti e il pubblico curioso si fusero in un insieme di tormento e impotenza. Non riuscivo a credere che fossi arrivata a questo punto, in questo luogo, circondata da persone che non vedevano altro che un animale da intrattenimento.
Con ogni attimo che passava, il mio cuore batteva più forte, quasi per tentare di lanciarsi fuori dal mio petto. La disperazione si mescolava al dolore mentre la sua presenza invadente mi riempiva di un’oscurità che non avrei mai immaginato. Provai a chiudere gli occhi, a rifiutare la realtà, ma il mio corpo era intrappolato, inchiodato alla gabbia, e la mia mente si ribellava a quell'idea.
Mi sentivo persa, sopraffatta dalla vulnerabilità. La musica continuava a pulsare, a creare una colonna sonora di orrore e disperazione. In quel momento, capii che non ero solo una ballerina, non ero solo Alexa. Ero diventata un’ombra di me stessa, una ragazza imprigionata in un incubo dal quale non sapevo come fuggire.
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