𝓐𝓵𝓮𝔁𝓪
Mi guardai intorno nella casa di Alexander. Era bellissima, arredata con gusto e avvolta da una quiete che sembrava lontana anni luce dal caos della mia vita. C’ero già stata un’altra volta, quando mi aveva invitato a mangiare al ristorante, ma poi avevamo finito per cenare qui. Mi piaceva quel posto, mi dava una sensazione di sicurezza che non provavo da molto tempo.
Presi la mia borsa, quella che avevo lasciato lì la sera prima, quando Simon mi aveva portata qui. Alexander mi aveva avvertito di stare alla larga da Simon; sembrava saperla lunga su di lui, più di quanto potessi immaginare. In fondo, anche Alexander non lo conoscevo poi così bene, ma c’era qualcosa in lui che mi faceva sentire al sicuro. Forse era il modo in cui mi guardava, come se davvero volesse proteggermi, o forse era semplicemente il fatto che mi aveva dato un posto dove stare, lontano da tutto quel casino.
Mi tornò in mente Addison, e ciò che mi aveva detto qualche giorno fa. "Sono incinta," aveva confessato con un filo di voce, ma non mi aveva detto che il padre era Simon. Scopare con lui non era stato un caso isolato; a quanto pare, erano stati insieme altre volte. Pensai a quanto fosse giovane, e a quanto fosse incasinata la sua situazione. Era difficile non sentirsi sopraffatte in un mondo dove sembrava che ogni passo fosse già segnato dal fallimento.
Guardai la cucina di Alexander e poi il divano dove aveva dormito. Non avrei mai pensato di trovarmi qui, ma per la prima volta, forse avevo una possibilità di essere libera, lontana da mio padre, lontana dai suoi affari loschi. Alexander mi aveva dato una scelta, e questo per me valeva più di qualsiasi altra cosa.
Dovevo fare le cose per bene. Non potevo permettermi di sbagliare. Alexander aveva i suoi problemi, ma aveva anche aperto la porta di casa sua per me, e io non volevo deluderlo. Con un sospiro, mi alzai e mi diressi verso la cucina, decisa a preparare quel piatto che gli avevo promesso. Avevo ancora tanto da imparare, ma una cosa la sapevo di sicuro: volevo essere utile e dimostrargli che non mi sbagliavo su di lui.
Anche se all'inizio Alexander non voleva che restassi, alla fine aveva ceduto. Mi sentivo sollevata, anche se una parte di me era ancora insicura sul futuro. Tornai all’ingresso e salii le scale, dirigendomi verso la camera degli ospiti dove avevo dormito la volta precedente. Aprii la porta della mia nuova camera: era tutto in ordine, proprio come l’avevo lasciata. Posai la borsa che avevo portato, dentro c’erano i miei vestiti, ma volevo indossare qualcosa di diverso. Ovviamente, i costumi da stripper erano rimasti allo strip club, esattamente dove dovevano stare.
Aprii la finestra della camera per far entrare un po' d’aria fresca e poi uscii, dirigendomi verso la cabina armadio di Alexander. Sapevo che potevo prendere in prestito qualcosa; lui mi aveva detto che andava bene. Scelsi la maglia che avevo indossato l’altra volta, quella che mi stava morbida e comoda. Mi spogliai rapidamente e indossai la maglia, abbinandola a un paio di pantaloncini per non restare solo in perizoma. Raccolsi i miei vestiti lasciati sul pavimento e uscii dalla cabina armadio.
Scesi le scale lentamente, con la consapevolezza che Alexander sarebbe tornato tra tre ore. Nel frattempo, non avevo molto da fare. Mi ricordai che Alexander aveva detto di voler mangiare mac and cheese, un piatto semplice ma confortante, tipico delle tavole americane. Non ero una grande cuoca, ma mi piaceva pensare che avrei potuto fargli piacere almeno con quel piatto.
Mi diressi in cucina, decisa a preparare qualcosa che potesse strappargli un sorriso. Aprii gli armadietti in cerca degli ingredienti: formaggio, latte, burro e la pasta. Mentre mettevo l’acqua a bollire, mi persi nei miei pensieri. Era strano trovarsi in quella casa, con Alexander che aveva i suoi demoni e io i miei. Ma per qualche motivo, in quel momento, mi sembrava che forse, almeno per un po’, avrei potuto chiamare quel posto casa.
Sentii la porta d'ingresso aprirsi, il rumore familiare della serratura che scattava. Mi irrigidii per un attimo, sorpresa, perché Alexander mi aveva detto che sarebbe tornato tra tre ore. Pensai che forse avesse cambiato idea o che avesse dimenticato qualcosa. Senza pensarci troppo, chiamai: «Alexander?» La mia voce rimbombò leggermente nella casa silenziosa.
Poi udii il suono distinto di passi leggeri, ma non era il solito suono di scarpe maschili; erano passi di tacchi, decisi e ritmati, che si avvicinavano sempre più. Mi voltai verso il corridoio, il cuore che batteva un po' più forte, e lì, sulla soglia, apparve Marie.
Marie era lì, davanti a me, bellissima e sofisticata come sempre. Indossava un completo davvero elegante e allo stesso tempo audace: un top senza spalline che metteva in risalto le sue spalle e il suo collo, decorato con un motivo geometrico nei toni del verde e dell'azzurro, che si ripeteva anche sulla gonna lunga e aderente. La sua giacca oversize, con lo stesso motivo, cadeva sulle sue spalle con un’aria disinvolta, quasi casuale, ma studiata alla perfezione. Portava una borsa in tono, che le pendeva con noncuranza dal braccio, aggiungendo un tocco di lusso al suo look impeccabile.
Mi fermai di colpo, sorpresa dalla sua presenza. Marie sembrava altrettanto sorpresa di vedermi lì, e ci fu un attimo di silenzio che pesò come un macigno. Poi, la sua espressione cambiò rapidamente da sorpresa a qualcosa di più freddo e distante.
«Cosa ci fai tu qui?» chiese con un tono tagliente, la sua voce appena velata da una calma artificiale.
Non riuscivo a trovare le parole, mi sentivo paralizzata. Posai le chiavi sull'ingresso, cercando di nascondere il tremore nelle mani. Marie mi guardò con un misto di disapprovazione e curiosità. «Non voglio litigare con le ragazzine,» disse, facendo un passo avanti e incrociando le braccia. «Ragazzina, cosa ci fai qui? Rispondimi.»
Mi sforzai di mantenere la calma, anche se dentro di me ribolliva la rabbia e la paura di essere scoperta in una situazione che poteva sfuggire di mano. Le parole mi si bloccavano in gola, come se ogni tentativo di spiegarmi venisse subito soffocato. Mi sforzai di respirare profondamente, mentre cercavo di capire come affrontare quella donna che sembrava aver preso il controllo della stanza con la sua sola presenza.
Marie si mise le braccia sui fianchi, lo sguardo severo mentre mi scrutava dall’alto in basso. Il suo sguardo si fermò sui miei vestiti abbandonati sul pavimento, un mucchio disordinato di tessuti. Con un'espressione di disappunto, disse: «Perché indossi i vestiti di Alexander?» La sua voce era pungente, carica di una tensione che non mi aspettavo. Sentii il rossore salirmi sulle guance, imbarazzata dalla sua presenza e dal suo giudizio.
Marie avanzò con un passo deciso verso la penisola della cucina, posando la sua borsa con un gesto elegante e rapido. Poi si sfilò la giacca, lasciandola cadere sulla sedia più vicina, quasi con noncuranza, ma con un chiaro intento di stabilire il suo territorio. Si avvicinò ai miei vestiti sparsi sul pavimento, chinandosi lentamente per raccoglierli con cura, uno per uno. Li esaminò come se stesse cercando qualcosa, o forse semplicemente prendendo le misure della situazione.
Sollevo il mucchio di vestiti all’altezza del suo sguardo, continuando a guardarli con un misto di disgusto e curiosità. Poi alzò lo sguardo verso di me, le sue sopracciglia leggermente inarcate. «Non ti piacciono i tuoi vestiti?» mi chiese con una voce meno severa, ma ancora carica di sottintesi.
Scossi la testa, la voce quasi un sussurro mentre rispondevo: «No, non mi piacciono.» Non ero sicura di cosa altro dire, o come spiegare perché mi ero sentita così a disagio nei miei abiti e perché avevo cercato conforto nei vestiti di Alexander.
Marie li esaminò un po’ meglio, i suoi occhi che passavano dal tessuto al mio viso, come per valutare quanto corrispondessero a me. Poi, con un cenno della testa, mi indicò di seguirla. «Vieni,» disse, con un tono che lasciava poco spazio al rifiuto.
Ci dirigemmo insieme verso le scale, lei davanti e io dietro, con il cuore che batteva forte. I suoi passi erano decisi, i tacchi che facevano eco lungo le pareti, mentre io seguivo con il fiato sospeso, chiedendomi cosa avesse in mente e come sarebbe andata a finire questa strana e inaspettata visita.
Marie aprì la porta e disse con un tono amaro, «Questa casa era anche mia.» Fece un respiro profondo, quasi come se stesse cercando di assorbire ogni ricordo che quei muri racchiudevano, e poi entrò. La seguii dentro, e mi ritrovai nella cabina armadio, una stanza che sembrava uscita direttamente da una rivista di lusso.
La cabina armadio era impeccabile, un ambiente elegante e sofisticato. Le pareti erano ricoperte da scaffali illuminati, pieni di abiti ordinati per colore e tipo. C’erano scomparti con maglioni perfettamente piegati, giacche ben appese e scarpe disposte in modo meticoloso. Al centro della stanza, due grandi pouf rosa imbottiti, con le gambe dorate, invitavano a sedersi per scegliere con calma un outfit. Il pavimento era coperto da un tappeto dai motivi delicati, che aggiungeva un tocco di raffinatezza al marmo lucido sottostante. Sopra di noi, due lampadari di cristallo splendevano con una luce soffusa, creando riflessi brillanti che rendevano l’ambiente ancora più opulento.
Marie si avvicinò agli scaffali, sfiorandoli con le dita come se stesse ripercorrendo i momenti passati. Alcuni scaffali erano vuoti, testimoni silenziosi di ciò che un tempo era stato riempito con i suoi abiti. «dovevo prendere alcuni vestiti»
Prese un vestito dal guardaroba, un abito elegante che rifletteva perfettamente lo stile sofisticato di quel posto, e lo mise accanto a me, scrutandomi con un occhio critico, come per valutare se mi sarebbe andato bene. «Ma servono più a te che a me,» aggiunse, il suo sguardo che passava dall’abito al mio viso, quasi a cercare una conferma di quel passaggio di testimone involontario e inevitabile.
Dissi «Grazie,» prendendo l'abito con un gesto gentile, anche se un po' impacciato. Marie mi sorrise con un'aria quasi materna, un sorriso che conteneva una mescolanza di nostalgia e rassegnazione.
«Cosa cucinerai per Alexander?» mi chiese, quasi per rompere quel silenzio carico che si era creato nella cabina armadio. Risposi dicendo il nome del piatto che avevo in mente, un classico americano che sapevo Alexander avrebbe apprezzato.
Marie posò l'abito sugli scaffali, il tessuto ondeggiando lievemente come a salutare il suo posto vuoto tra gli altri capi. «Lui ha sempre avuto gusti difficili,» commentò con una smorfia. «Non gli è mai piaciuto quel cibo sano.» La guardai mentre si voltava e usciva dalla stanza con un passo deciso. La seguii, lanciando un'ultima occhiata alla cabina armadio, come per imprimere nella memoria ogni dettaglio di quell'opulenza che mi sembrava ancora così distante e inaccessibile.
Scendemmo le scale insieme, i passi che rimbombavano leggermente sul legno lucido. Marie mi chiese con un tono casuale, ma carico di curiosità, «Ti fermerai a lungo qui a casa?» La seguii verso la cucina, osservando i movimenti aggraziati con cui si muoveva nello spazio che un tempo era stato suo.
«Sì, penso di sì,» risposi, cercando di sembrare sicura di me stessa anche se una parte di me era ancora incerta sul futuro. Marie sorrise, un sorriso che aveva un che di complice e di avvertimento insieme.
«Alcune volte,» disse mentre prendeva la giacca che aveva appoggiato sulla sedia e la sua borsa Birkin, «inviterà la sua studentessa, qui a casa per scopare. Non essere sorpresa.» Le sue parole mi colpirono come un pugno nello stomaco, anche se cercai di non mostrare la mia reazione. Marie mi fissò per un momento, come se volesse essere sicura che avessi capito bene cosa mi stava dicendo, poi infilò la giacca e sollevò la Birkin con un gesto elegante.
Non sapevo cosa rispondere. Restai lì in piedi, guardandola mentre si preparava a uscire, un turbinio di pensieri che mi frullavano in testa, cercando di afferrare il senso di tutto quello che stava accadendo. Marie si voltò per un ultimo sguardo, il suo viso serio, quasi severo, prima di dirigersi verso la porta.
Marie si fermò sulla soglia, un piede già oltre la porta, e si girò di scatto verso di me. La sua voce fu ferma, ma con una sfumatura di malinconia, come se stesse rilasciando un avvertimento, non solo per me, ma forse anche per se stessa. «Poi, non innamorarti di Alexander,» disse, le parole sospese nell'aria come una minaccia sottile. «Lui è ancora un po' mio.»
Il suo sguardo si addolcì per un istante, come se in quella frase ci fosse un mondo di sentimenti non detti, ricordi e rimpianti che lei non era pronta a condividere. Chiuse la porta dietro di sé con un gesto deciso, il suono del legno che si incastrava nell'intelaiatura rimbombò leggermente nella casa silenziosa. Rimasi lì, immobile, fissando la porta ormai chiusa, cercando di capire cosa significassero davvero quelle parole. Era ancora innamorata di lui? Mi chiesi. Sembrava più una dichiarazione di possesso, come se Alexander fosse una parte del suo passato che non riusciva completamente a lasciar andare.
Eppure, per quanto fossi tentata di pensare che ci fosse qualcosa di profondo tra di loro, sentii una convinzione radicarsi in me: per me, Alexander era soltanto una presenza magnetica, un fascino pericoloso che mi attirava più di quanto volessi ammettere. Mi piaceva la sua sicurezza, il modo in cui riempiva una stanza solo stando lì, ma amore? No, non era quello. Era attrazione fisica, niente di più. La sua vita era un vortice caotico di problemi e tentazioni che non volevo davvero far mie.
Mi girai lentamente, lasciando alle spalle quella porta e i pensieri confusi che Marie aveva seminato nella mia mente. Tornai verso la cucina, i passi che risuonavano sul pavimento in un ritmo calmo e misurato, mentre cercavo di raccogliere i miei pensieri. La luce del mattino filtrava dalle grandi finestre, illuminando ogni angolo con una luce calda e dorata che rendeva tutto più accogliente. Aprii il frigorifero e cominciai a tirare fuori gli ingredienti per il pranzo che Alexander mi aveva chiesto.
Presi un tagliere e un coltello, iniziando a preparare con cura gli ingredienti. Il suono del coltello che tagliava le verdure riempiva il silenzio della cucina, mentre i miei pensieri vagavano. Mi concentrai sui movimenti, cercando di mettere in ordine il caos che avevo nella testa, come se tagliare quelle verdure potesse mettere ordine anche nei miei pensieri. Accesi i fornelli, facendo scorrere l'olio caldo nella padella, e il profumo iniziò a diffondersi nell'aria.
Alexander sarebbe tornato tra poco. Preparai ogni cosa con attenzione, quasi volendo dimostrare a me stessa che potevo essere utile, che potevo fare qualcosa di buono. Mentre il cibo sfrigolava, gettai un'ultima occhiata alla porta d'ingresso, ormai vuota. Marie era andata via, ma le sue parole risuonavano ancora. Non innamorarti di Alexander.
Abbassai lo sguardo sul cibo che stavo preparando, determinata a non lasciarmi sopraffare da quelle insicurezze. Mi sarei concentrata su ciò che dovevo fare e avrei tenuto ben presente il confine tra ciò che era reale e ciò che era solo frutto di un'attrazione momentanea. Non mi sarei innamorata di Alexander, lo avrei solo aiutato come potevo, perché era questo che volevo fare: essere utile, essere indipendente, e non lasciarmi coinvolgere più del necessario.
Decisi che avrei apparecchiato fuori. La veranda di Alexander era perfetta per pranzare all’aperto, e con la piscina sullo sfondo, sembrava un piccolo angolo di paradiso lontano dal caos della città. Aprii le porte scorrevoli di vetro e sentii il fresco della brezza estiva accarezzarmi la pelle. La luce del sole si rifletteva sull’acqua azzurra della piscina, creando riflessi che ballavano sulle pareti bianche.
Sorrisi quando vidi che c'era già un tavolo pronto, ben posizionato sotto l’ombra di un grande ombrellone. Era elegante e semplice, con una tovaglia bianca e delle sedie comode, perfetto per un pranzo rilassante. Mi risparmiava il lavoro di dover sistemare tutto da zero, così mi concentrai solo sul preparare la tavola. Scelsi dei piatti bianchi e puliti, posizionandoli con cura davanti ai posti a sedere.
I mac and cheese, ricchi, cremosi e con quella crosticina dorata in cima che li rendeva irresistibili. Era un comfort food che sembrava un po’ fuori posto in quella casa elegante, ma era quello che lui aveva voglia di mangiare, e a me andava bene così. Preparai due porzioni generose, una per lui e una per me, facendo in modo che fossero perfette, con una spruzzata di erba cipollina fresca e una spolverata di parmigiano.
Sistemai i piatti fumanti al centro del tavolo, aggiungendo due calici per il vino e una bottiglia di acqua fresca. Mi fermai un attimo, guardando il risultato del mio lavoro: la tavola apparecchiata, il cibo invitante, e la vista della piscina che aggiungeva quel tocco in più. Era tutto pronto.
Mi girai verso l'interno della casa, come se potessi sentire l'eco dei passi di Alexander mentre si avvicinava. Tra poco sarebbe arrivato e sapevo che avrebbe apprezzato trovare tutto pronto. Respirai profondamente, cercando di scacciare l'ansia e concentrarmi sul momento presente. Sarei stata qui per lui, senza aspettarmi nulla di più di una giornata tranquilla e un pasto condiviso.
Guardai l’orologio: mancava poco al suo arrivo. Mi sedetti a uno dei posti, incrociando le mani davanti a me mentre attendevo. Sentivo ancora l’eco delle parole di Marie nella mia mente, ma decisi di ignorarle. Oggi sarebbe stata una giornata diversa, un piccolo passo verso qualcosa di nuovo, senza complicazioni e senza aspettative. Solo un pranzo semplice, con Alexander, sotto il sole della veranda.
Sentii la porta chiudersi con un leggero colpo, seguito dal rumore dei suoi passi mentre attraversava la casa. Mi sedetti al tavolo, sistemando i tovaglioli con attenzione per ingannare il tempo, quando Alexander fece capolino sulla veranda. Si fermò sulla soglia per un attimo, osservando la scena con un'espressione sorpresa.
«Che buon odorino,» disse con un sorriso leggero. I suoi occhi si posarono sulla tavola apparecchiata, sui piatti fumanti di mac and cheese, e poi su di me. Sembrava quasi sorpreso, come se non si aspettasse di trovare tutto pronto e in ordine.
Si avvicinò, posando la valigetta sul divano con un gesto stanco. Si diresse verso il frigorifero, aprì lo sportello e tirò fuori una bottiglia di birra. Si sedette al tavolo di fronte a me, svitando il tappo con un colpo secco e prendendo un lungo sorso.
«Chi ti ha dato il permesso di prendere i miei vestiti?» chiese, il tono di voce più curioso che arrabbiato, mentre i suoi occhi si posarono sulla maglia che indossavo. Mi guardò con uno sguardo che mescolava un po’ di rimprovero e un accenno di divertimento.
Abbassai lo sguardo per un attimo, sentendomi improvvisamente in colpa. Non volevo mancare di rispetto, ma era l’unico modo in cui mi sentivo a mio agio. «Scusami,» dissi con voce bassa, stringendo le mani sotto il tavolo. «Non mi piacevano i miei vestiti, e questi erano comodi... Li rimetterò a posto dopo, promesso.»
Alexander continuò a fissarmi per un momento, poi sospirò e fece un cenno con la mano, come a dire che la cosa non era così importante. Prese un’altra sorsata di birra e poi si concentrò sul piatto davanti a lui, infilzando la forchetta nei mac and cheese.
«Sembra davvero buono,» disse, cambiando argomento mentre prendeva un boccone. Gli occhi si chiusero per un istante, assaporando il sapore del piatto. «Non pensavo ti mettessi a cucinare davvero.»
Sorrisi, finalmente un po’ più rilassata. «Avevo tempo, e poi mi piace cucinare. Spero sia di tuo gradimento.»
Alexander annuì, masticando lentamente. «È perfetto,» disse, e per un attimo tutto sembrò a posto. Era un piccolo momento di pace, seduti insieme sotto la veranda, con la piscina scintillante alle spalle e il sole che filtrava tra le foglie degli alberi.
Presi una forchetta anch'io, cercando di mantenere la calma mentre Alexander diventava sempre più agitato. Lui si alzò barcollando leggermente e andò a prendere un’altra bottiglia di birra dal frigorifero, già un po’ ubriaco, con il viso che iniziava a diventare rosso. Afferrò la nuova bottiglia con decisione, aprendo il tappo con un movimento brusco, poi tornò a sedersi al tavolo di fronte a me.
«Forse non ti va bene?» mi chiese con un sorriso storto, i suoi occhi leggermente vitrei. «Faccio quel cazzo che voglio a casa mia,» aggiunse con tono di sfida, mentre versava la birra nel bicchiere e ne tracannava un sorso abbondante, finendo quasi tutta la bottiglia in un colpo solo.
Sospirai, cercando di mantenere la calma. «È venuta tua moglie,» dissi, cercando di capire se fosse davvero il momento giusto per parlargliene. Lui prese un altro lungo sorso dalla bottiglia, ma bevve troppo velocemente e si affogò, tossendo forte mentre il liquido gli andava di traverso.
«Che cazzo!» urlò tra un colpo di tosse e l’altro, cercando di riprendere fiato. «Perché l’hai fatta entrare?» mi chiese, il tono della voce pieno di rabbia e frustrazione.
Mi sistemai nervosamente sulla sedia, stringendo la forchetta come se potesse darmi un po' di sicurezza. «Mi ha detto che potevo prendere i tuoi vestiti,» risposi con voce bassa, cercando di non provocarlo ulteriormente.
Alexander posò la bottiglia con un colpo secco sul tavolo, facendola tintinnare contro il vetro del bicchiere. «Preferisco vederti con i miei vestiti che con i suoi,» disse, fissandomi intensamente. «Non fidarti di lei,» aggiunse, puntando un dito verso di me come per sottolineare le sue parole. Prese un altro sorso di birra, il terzo o quarto, ormai senza più controllo.
Sospirai, alzando leggermente le mani in segno di resa. «Non posso fidarmi di nessuno, né di Simon né di lei,» dissi con sincerità, sentendo la tensione crescere nella stanza.
Alexander si alzò di scatto, la sedia raschiò contro il pavimento con un suono stridente. Gli occhi si fecero ancora più scuri, e il suo sguardo mi trapassò come un pugnale. «Sei nella mia casa!» urlò, il tono pieno di rabbia e alcol. «Sono io quello che comanda qui, cazzo! Sei nella mia cazzo di casa e qui si fa come dico io!»
Le sue parole riecheggiarono sulla veranda, rimbalzando contro le pareti in un silenzio improvviso che sembrava pesante come il piombo. Non sapevo cosa dire, il suo urlo mi aveva colpito come una frustata. Restai ferma, la forchetta stretta tra le dita, mentre Alexander si risiedeva, scuotendo la testa come per scacciare via i suoi pensieri.
Era come se un'altra persona fosse emersa dentro di lui, una che non conoscevo e che mi spaventava. Respirai lentamente, cercando di trovare un punto di equilibrio in quel mare di incertezza e caos.
Alexander mi fissava con un'intensità che mi faceva venire voglia di guardare altrove. L'atmosfera nella veranda era pesante, il sole fuori splendeva, ma dentro sembrava esserci una tempesta in corso. Si passò una mano tra i capelli disordinati, poi tamburellò le dita sul tavolo con impazienza. «Perché non vai a trovare le tue amiche oggi?» chiese di nuovo, ma il tono questa volta era più tagliente, quasi infastidito dalla mia presenza.
Mi morsi il labbro, cercando di mantenere il controllo. «Sei già ubriaco,» risposi, il mio sguardo che passava dalla bottiglia di birra ormai vuota al pacchetto di sigarette che aveva appena tirato fuori. Era chiaro che non aveva intenzione di fermarsi. Lui sbuffò, un misto di disprezzo e stanchezza, e si accese una sigaretta con mani leggermente tremanti. Il fumo si alzò lentamente verso il soffitto, creando una sorta di nebbia leggera tra noi.
«Perché non rispondi alla mia domanda?» insistette, soffiando fuori il fumo con una lentezza studiata, come se avesse tutto il tempo del mondo. Mi guardava con quegli occhi che ormai avevo imparato a conoscere: erano gli occhi di qualcuno che stava combattendo contro se stesso, ma che non voleva ammetterlo.
Gli lanciai un’occhiata veloce, incerta se fosse il caso di rispondere o meno. Sapevo che qualunque cosa avessi detto avrebbe solo peggiorato le cose. «Perché dovrei?» ribattei alla fine, cercando di mantenere la voce calma. Sentivo il mio cuore battere più forte del normale, come se sapesse che stavo per entrare in un territorio pericoloso.
Alexander prese un lungo tiro dalla sigaretta, poi gettò la testa all'indietro, guardando il soffitto come se lì ci fosse la risposta a tutti i suoi problemi. «Non so,» disse lentamente, il fumo che usciva dalle sue labbra come un respiro stanco. «Magari perché stare qui non ti farà bene.»
Quelle parole mi colpirono più forte di quanto avrei voluto ammettere. Sapevo che dietro quel tono duro e quella maschera di uomo forte c’era qualcosa che non riusciva a dire. Ma non era il momento di scavare, non mentre lui era così e io mi sentivo già abbastanza a pezzi.
Gli occhi di Alexander tornarono su di me, brucianti come le braci della sua sigaretta. «Devi imparare a non fidarti troppo,» aggiunse, quasi con un tono di rimprovero. «Di nessuno, cazzo.»
Ci fu un lungo silenzio. L’unico suono era quello del leggero scoppiettio della sigaretta e del respiro pesante di Alexander. Mi sentivo come se fossi su un filo, sospesa tra il restare e l’andare, tra il voler capire e il voler scappare.
Respirai a fondo, cercando di calmare la mia mente. Non era la prima volta che lo vedevo così, e non sarebbe stata l’ultima. Ma qualcosa dentro di me si ribellava a quella situazione, a quella dinamica di silenzi pesanti e parole taglienti. «Forse hai ragione,» dissi infine, cercando di evitare il suo sguardo. «Forse non dovrei stare qui.»
Alexander non rispose subito. Si limitò a guardarmi, poi scosse la testa lentamente, quasi come se non fosse sicuro di quello che voleva. «Fa come ti pare,» disse alla fine, alzando le spalle e gettando la sigaretta nel posacenere con un gesto rapido. «Ma ricorda, Alexa: questa è casa mia, e qui comando io.»
Quelle parole risuonarono nella mia mente mentre mi alzavo dal tavolo, lasciando il cibo ormai freddo intatto davanti a noi. E mentre mi allontanavo, sentivo ancora gli occhi di Alexander su di me, pesanti e giudicanti, ma anche disperati e pieni di qualcosa che non riuscivo a definire. Qualcosa che forse, in fondo, non riusciva a definire nemmeno lui.
Alexander sembrava crollare davanti ai miei occhi. Quando mi voltai, i suoi occhi tradivano un'emozione che raramente mostrava: paura, disperazione, un dolore sordo che non riusciva a nascondere. Sembrava sul punto di spezzarsi, come un uomo che stava perdendo la battaglia contro i propri demoni. «Aspetta, Alexa, non andare via,» disse, la sua voce incrinata, quasi spezzata. Non era l'uomo sicuro e sfrontato che avevo conosciuto fino ad allora; ora era solo qualcuno che chiedeva aiuto.
Mi fermai e lo guardai, cercando di capire cosa stesse succedendo dentro di lui. «Che cosa c'è, Alexander?» chiesi, cercando di mantenere la calma, anche se vederlo così vulnerabile mi colpiva nel profondo. Lui venne verso di me con passi incerti, come se ogni passo fosse una lotta contro un peso invisibile. «Non andare via,» ripeté, e la sua voce si spezzò. «La mia vita è tutta una merda.» Si coprì il volto con le mani, e per un attimo pensai che stesse per piangere. Non era solo tristezza quella che vedevo; era un'angoscia che sembrava provenire da un luogo molto profondo, una ferita aperta che non si era mai davvero rimarginata.
«Alexander...» mormorai, avvicinandomi a lui. Gli passai delicatamente una mano sul viso, cercando di asciugare le lacrime che non erano ancora scese, ma che erano lì, pronte a sgorgare. Lui chiuse gli occhi sotto il mio tocco, come se stesse cercando di trattenere tutto dentro, di non lasciarsi andare completamente. «Alexa, non andare via,» ripeté, quasi supplicante, e in quel momento mi abbracciò.
Non era un abbraccio qualsiasi. Era uno di quelli che comunicano molto più delle parole, uno di quelli che ti fanno capire quanto una persona possa sentirsi sola e persa. Sentii il suo respiro irregolare contro la mia spalla, il suo corpo che tremava leggermente. Era come se in quell'abbraccio cercasse di trovare un'ancora, qualcosa a cui aggrapparsi per non affondare.
«No, non me ne andrò,» dissi, stringendolo forte, cercando di trasmettergli almeno un po' di quella forza che sentivo crescere dentro di me. «Resterò qui con te.» Sentii il suo respiro farsi più calmo, il suo corpo rilassarsi leggermente contro il mio. Mi guardò negli occhi, e in quel momento sembrava un uomo diverso: più fragile, più vero. "Grazie," sussurrò, la sua voce così bassa che quasi non la sentii.
Sorrisi, cercando di rassicurarlo. «Marie mi ha solo prestato dei vestiti,» gli dissi, cercando di sgombrare ogni dubbio che potesse avere. «E io e Simon... non abbiamo confidenza, stai tranquillo. Non mi accadrà nulla.» Alexander annuì, ma sembrava ancora turbato, come se le mie parole fossero solo un palliativo momentaneo per un dolore che andava ben oltre le circostanze attuali.
Mi strinse ancora più forte, come se avesse paura che potessi sparire in un battito di ciglia. Restammo così, abbracciati in quel silenzio che diceva tutto ciò che le parole non riuscivano a esprimere. Sentivo la sua battaglia interna, il suo desiderio di cambiamento misto alla paura di non riuscire a lasciarsi alle spalle il passato. E in quel momento, decisi che avrei fatto di tutto per non lasciarlo solo a combattere contro quei demoni che lo tormentavano.
Alexander si staccò lentamente, ma tenne le sue mani sulle mie spalle, guardandomi con un misto di gratitudine e qualcosa che non riuscivo a decifrare del tutto. «Non so cosa farei senza di te,» ammise, la sua voce ancora carica di quella vulnerabilità che lo rendeva così umano in quel momento. Io gli sorrisi, stringendo le sue mani nelle mie. «Non lo scoprirai,» risposi con sicurezza. «Non lo scoprirai perché io sono qui, e non me ne andrò.»
Lui annuì, finalmente un barlume di speranza nei suoi occhi stanchi. Era un piccolo passo, ma forse era l'inizio di qualcosa di nuovo, qualcosa che avrebbe potuto aiutarlo a ricominciare. E mentre ci sedevamo di nuovo al tavolo, questa volta con un silenzio meno teso, sentii che forse, per la prima volta, Alexander stava cercando di trovare una via d'uscita dal suo caos interiore. E io ero lì, pronta a camminare al suo fianco, qualunque fosse il percorso.
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