𝓐𝓵𝓮𝔁𝓪
Era passato un mese da quando ero entrata a vivere nella casa di Alexander. Un mese in cui molte cose erano cambiate. Alexander non toccava alcol da allora e, anche se la strada era stata tutt'altro che facile, ero riuscita ad aiutarlo a non bere. Era un piccolo traguardo, ma lo vivevamo come una grande vittoria. La sua ex moglie, Marie, veniva ancora a trovarlo, e ogni volta finivano per litigare nel suo studio. Le urla spesso trapelavano anche attraverso la porta chiusa, e in quei momenti preferivo uscire o andare a trovare le ragazze che si erano affittate la casa di mio padre. Di mio padre, invece, non avevo notizie. Era sparito senza lasciare traccia, e onestamente non sapevo se preoccuparmi o se fosse meglio così.
Ora eravamo sdraiati sul divano del soggiorno, cercando di rilassarci. Io stavo cercando di prepararmi mentalmente per l'esame di domani, ma la presenza di Alexander, così vicina, era una distrazione costante. Si era offerto di farmi da insegnante, aiutandomi a ripassare, ma alla fine aveva lasciato perdere, offeso quando gli avevo detto che volevo fare da sola. Indossavo una maglia che mi veniva decisamente troppo grande, morbida e confortevole, una delle tante che Alex mi aveva comprato quando mi aveva portato a fare shopping. Era stato un gesto gentile, un altro piccolo passo verso quella che sembrava una nuova normalità tra noi.
Alexander, invece, era vestito in modo casual: indossava solo un paio di pantaloni della tuta neri della Nike, lasciando il petto scoperto. Si muoveva con quella disinvoltura che solo lui poteva avere, come se si sentisse perfettamente a suo agio nel proprio corpo, anche nei momenti di semplice tranquillità domestica. Avevamo deciso di mangiare fragole con la panna, un piccolo piacere che ci concedevamo ogni tanto. Avevo appena finito di agitare la bomboletta di panna montata quando Alexander mi guardò con un mezzo sorriso, gli occhi che brillavano di quella curiosità tipica di quando stava per farmi una domanda.
«Allora, signorina,» disse Alexander, con quel tono che usava sempre quando voleva stuzzicarmi. «Vediamo se hai studiato davvero. Mi sapresti dire quale sia la principale differenza tra la resistenza di materiali isotropi e anisotropi?» La sua voce era leggera, ma c'era una sfumatura di sfida, come se fosse un gioco, un modo per distrarmi e allo stesso tempo tenermi sul pezzo.
Sospirai, mentre prendevo una fragola e la intingevo generosamente nella panna, pensando alla risposta. Sentivo il suo sguardo fisso su di me, in attesa. Sapevo che non mi avrebbe lasciata in pace finché non avessi risposto, quindi cercai di mettere insieme i pensieri. «Materiali isotropi hanno proprietà che sono uguali in tutte le direzioni," dissi, guardandolo con un sorriso trionfante mentre portavo la fragola alla bocca. «Anisotropi, invece, hanno proprietà che variano a seconda della direzione.»
Alexander annuì, sembrando soddisfatto della mia risposta. «Brava,» disse, allungandosi per prendere una fragola dal piatto. «Sei sulla buona strada. Vedrai che l'esame andrà benissimo.» Poi, con un gesto fluido, intinse la fragola nella panna e la mangiò in un sol boccone, come se il semplice gesto fosse un modo per celebrare il mio piccolo successo.
Mi sentii sciogliere un po' dentro. Alexander aveva questo modo di far sembrare le cose più semplici, più leggere, anche quando la vita si complicava. Sapevo che dietro quel suo atteggiamento spensierato c'era ancora tanto che lo tormentava, ma almeno in quei momenti riuscivamo a trovare una sorta di pace, una tregua dai pensieri pesanti. Mentre lo guardavo, con i suoi capelli spettinati e il sorriso rilassato, mi sentii grata per quei piccoli attimi di serenità.
«Sei pronto per domani?» gli chiesi, cambiando discorso. «Dovrai sopportarmi per altre ore di studio, e chi lo sa come andrà a finire.»
Alexander rise piano, un suono caldo e rassicurante che mi fece sentire ancora più a mio agio. «Sei tu che devi sopportare me,» disse, accarezzandomi la guancia con dolcezza. «Ma non preoccuparti, ce la caveremo. Sempre.»
Ci guardammo per un momento, lasciando che il silenzio riempisse lo spazio tra di noi. Era un silenzio pieno di promesse, di cose non dette, ma che entrambi sapevamo. E mentre continuavamo a mangiare le fragole, sentii che, per quanto tutto fosse ancora incerto, almeno per ora eravamo esattamente dove dovevamo essere.
Alexander sorrise con quella luce nei suoi occhi che mi faceva sempre sentire un po’ più leggera, un po’ più coraggiosa. «Sono un bravo insegnante, eh?» disse con una nota di orgoglio, mentre continuava a giocare con il cucchiaio di panna.
«Direi di sì,» risposi, cercando di mantenere la mia voce ferma anche se dentro di me c'era un turbinio di emozioni. C'era qualcosa nell'aria, una tensione sottile ma palpabile che sembrava avvolgerci ogni volta che ci guardavamo. Un po' di panna era rimasta sul suo mento e per un attimo ebbi l’impulso di avvicinarmi e pulirgliela, un gesto intimo che avrebbe detto più di mille parole. Volevo baciarlo, la voglia era lì, sul bordo delle mie labbra, ma mi trattenni. Forse era meglio di no. Non volevo complicare ciò che era già abbastanza intricato. Alexander si passò una mano tra i capelli, un gesto distratto che sembrava così naturale su di lui, come se stesse cercando di domare qualcosa di selvaggio e ribelle.
«Tu, invece, non tanto,» scherzò, aprendo il quaderno e sfogliando le pagine con un sorriso malizioso. Lo colpii leggermente sul braccio, un piccolo gesto di sfida che era anche un modo per tenerlo a distanza, per ricordare a entrambi di non oltrepassare quella linea sottile che ci separava. Lui rise, un suono basso e vibrante che mi fece venire la pelle d'oca. Sembrava così facile con lui, così naturale, come se fossimo sincronizzati su una frequenza segreta che solo noi potevamo capire.
Prese la bomboletta di panna tra le mie mani, le sue dita sfiorarono le mie, il contatto breve ma intenso. Si portò la bomboletta alla bocca e spruzzò un po’ di panna direttamente sulla lingua, guardandomi negli occhi con un'espressione che era a metà tra il gioco e qualcosa di più profondo. Era come se stesse cercando di dire qualcosa senza parole, lasciando che fosse quel momento a parlare per entrambi.
«Sai,» disse infine, ancora con quel mezzo sorriso che lo rendeva irresistibile, «mi piace questa cosa di noi. Non so cosa sia, ma mi piace.» Non c'erano etichette, non c'erano promesse, solo quella strana alchimia che ci teneva legati in un equilibrio precario ma stranamente confortante. Sentii il calore salirle alle guance, e tutto ciò che riuscii a fare fu sorridere, un piccolo cenno di assenso che speravo potesse bastare a entrambi.
Alexander sembrava capire. Non aveva bisogno di altre parole, e neppure io. C’era qualcosa di tacito tra di noi, un accordo non detto, un’intesa che si costruiva lentamente, un passo alla volta. E mentre lui si appoggiava allo schienale del divano, con lo sguardo perso da qualche parte tra il mio viso e il quaderno di appunti aperto sulle sue ginocchia, sentii che per quanto fosse tutto ancora incerto, quella connessione, quell’equilibrio silenzioso, era tutto ciò di cui avevamo bisogno.
«Sì, ripassiamo, Alexa,» disse Alexander, la voce un po' distratta mentre mi porgeva il quaderno aperto sugli appunti. «Ripassa questo,» aggiunse, indicando una serie di equazioni complesse di fisica applicata, probabilmente meccanica dei materiali, uno dei pilastri fondamentali per chi studia ingegneria. Mi sedetti dritta, cercando di concentrarmi sui numeri e sulle formule mentre lui si alzava dal divano. Lo osservai di sfuggita mentre si avvicinava al mobile accanto alla finestra, dove teneva un pacchetto di sigarette. Estrasse una sigaretta e l'accese con un gesto che ormai conoscevo fin troppo bene.
L'odore acre del fumo iniziò a diffondersi nella stanza, e io trattenni il respiro per un attimo, sperando che quell'aroma pungente non mi desse troppo fastidio. Al club ero abituata al fumo, agli uomini che ne avevano sempre una accesa tra le dita, ma vederlo farlo qui, in casa, in un momento così intimo, mi dava fastidio. Forse perché con Alexander volevo qualcosa di diverso, qualcosa che non ricordasse le notti passate in mezzo a persone che non gli importavano davvero di me.
Lui rimase lì, in piedi accanto alla finestra, guardando fuori senza prestarmi troppa attenzione. Sembrava immerso nei suoi pensieri, la sigaretta a metà tra le labbra e la mano, e il suo sguardo perso da qualche parte oltre il vetro. Presi un respiro profondo e cercai di tornare sui miei appunti, ma l'atmosfera era cambiata, c'era una tensione sottile che non riuscivo a ignorare.
«C'è qualcosa che ho detto che non ti andava?» chiesi alla fine, rompendo il silenzio che si era creato tra di noi. Le parole uscirono più veloci di quanto avessi voluto, ma non potevo fare a meno di chiedermelo. Avevo notato quella leggera ombra nei suoi occhi, quel modo di voltarsi e accendere una sigaretta come se volesse scacciare un pensiero che lo tormentava.
Alexander si voltò lentamente verso di me, la sigaretta ormai consumata quasi a metà. Soffiò fuori il fumo e per un momento non disse nulla, solo mi guardò con quell'espressione indecifrabile che spesso usava quando non voleva lasciar trasparire troppo di sé. «No, non è quello,» rispose alla fine, spegnendo la sigaretta nel posacenere con un gesto brusco. «È solo... niente, lascia stare.»
Rimasi a osservarlo, cercando di capire cosa stesse davvero pensando. Sentivo che c'era qualcosa di non detto, qualcosa che si nascondeva dietro il fumo e il silenzio, ma non sapevo come tirarlo fuori. «Se è niente, allora va tutto bene,» dissi, cercando di dare un tono leggero alla mia voce, anche se dentro di me una piccola parte continuava a preoccuparsi.
Alexander annuì, ma non aggiunse altro. Tornò a sedersi accanto a me, senza parole, e riprese a guardare i miei appunti come se cercasse di concentrarsi di nuovo su di me. Ma c'era qualcosa nell'aria, una connessione fragile che sembrava oscillare tra il voler dire tutto e il voler nascondere ogni cosa. E in quel momento, capii che con Alexander non era mai solo una cosa semplice; era sempre un intreccio complesso di sentimenti e silenzi che entrambi stavamo imparando a navigare.
Alexander inspirò profondamente dalla sigaretta, trattenendo il fumo per un istante prima di espirarlo lentamente. Il suo sguardo si perse per un momento mentre assimilava le mie parole, e un piccolo sorriso increspò le sue labbra, quasi impercettibile. «Marie ha detto che nostro figlio è maschio,» disse alla fine, con una nota di vulnerabilità nella voce che raramente lasciava trasparire. Era uno di quei rari momenti in cui Alexander sembrava abbassare la guardia, permettendo di vedere il tumulto che si nascondeva sotto la sua solita facciata sicura e impenetrabile.
Lo guardai mentre spegneva la sigaretta nel posacenere con un gesto distratto, e nonostante il fumo avesse riempito l'aria intorno a noi, c'era un senso di leggerezza in quella stanza. Volevo essere felice per lui, e lo ero davvero, anche se una parte di me non poteva fare a meno di chiedersi come si sarebbe evoluta la nostra situazione con quel nuovo capitolo della sua vita all'orizzonte.
«Sono felice per te,» dissi, cercando di catturare il suo sguardo, anche se lui sembrava ancora perso nei suoi pensieri. Sorrisi appena, un sorriso sincero, sperando di trasmettergli un po' del calore che sentivo dentro. «E quindi volevi una femmina?» chiesi, la mia voce con un tono giocoso ma delicato, cercando di alleggerire l'atmosfera.
Alexander scrollò le spalle, finalmente incrociando il mio sguardo. «Non lo so,» ammise, quasi con un mezzo sorriso che però non raggiunse completamente i suoi occhi. "Non credo di aver mai davvero pensato a cosa volessi. È solo che... sapere che è un maschio rende tutto più reale." Fece una pausa, come se stesse cercando le parole giuste per esprimere ciò che provava. «Ma forse sì, una femmina sarebbe stata... diversa.»
Ci fu un momento di silenzio tra di noi, interrotto solo dal rumore della città che filtrava attraverso le finestre chiuse. Lo osservai mentre il suo sguardo si ammorbidiva, come se in quel breve scambio di parole avessimo aperto una finestra su un futuro incerto ma pieno di possibilità. Nonostante tutto, la connessione tra noi sembrava più forte che mai, un filo sottile ma resistente che ci teneva uniti anche nelle difficoltà.
«Un maschio sarà perfetto,» aggiunsi, cercando di rassicurarlo. «Sarà forte e testardo come te.» Lui rise leggermente, un suono breve ma genuino che riempì la stanza. «O magari sarà diverso da me,» rispose, con un tono che mescolava speranza e preoccupazione. «Magari sarà migliore.»
Non potei fare a meno di sorridere a quel pensiero. «Sarà perfetto, Alexander. Proprio come deve essere.» Lui annuì, e anche se non disse nulla, sentii che aveva apprezzato le mie parole. Era uno di quei momenti in cui non servivano tante spiegazioni; bastava esserci, uno accanto all'altro, per affrontare tutto ciò che la vita ci stava preparando.
Alexander si sedette di nuovo sul divano, spengendo la sigaretta nel posacenere con un gesto lento e misurato. Mi guardò con un'espressione tra il severo e il divertito, poi posò una mano sulla mia gamba, un tocco leggero ma abbastanza per far battere il mio cuore un po' più forte. La sua mano restò lì, ferma, come se pesasse un'eternità. Sentivo il calore della sua pelle attraverso la stoffa dei pantaloncini, una sensazione che mi faceva trattenere il respiro.
«Sei capace di fare queste equazioni?» mi chiese, inclinando la testa in un modo che era allo stesso tempo paziente e sfidante. Feci di no con la testa, incapace di distogliere lo sguardo da lui. Un lieve sorriso apparve sulle sue labbra, uno di quelli che usava quando stava cercando di non perdere la pazienza. «È la decima volta che te lo spiego, Alexa. Devi fare più attenzione, signorina.» Le sue parole erano dolci, ma c'era una nota di ammonimento che non potevo ignorare.
Alexander si spostò più vicino, la distanza tra noi ormai quasi inesistente. Sentii il suo corpo sfiorare il mio, il suo calore avvolgermi in un modo che mi fece venir voglia di restare immobile, sospesa in quel momento. Il suo respiro era appena percettibile, ma era abbastanza per farmi desiderare di avvicinarmi ancora di più, di colmare quel minuscolo spazio che ci separava. I suoi occhi erano fissi sui miei, così intensi che era come se volesse leggermi dentro, scavare oltre la superficie.
Mi sforzai di concentrarmi sul quaderno davanti a me, ma le parole e i numeri sembravano fluttuare fuori dalla mia mente. Tutto quello che riuscivo a sentire era la presenza di Alexander accanto a me, il modo in cui le sue dita sembravano quasi voler stringere la mia gamba, ma senza mai farlo davvero. Mi morsi il labbro, combattendo contro l'impulso di girarmi verso di lui, di toccarlo a mia volta, di rompere quella barriera invisibile che sembrava trattenerci entrambi.
Alexander continuò a spiegare, la sua voce bassa e calma, ma ogni parola sembrava un sussurro destinato a me soltanto. Ogni tanto, la sua mano si muoveva appena, un gesto quasi impercettibile, ma abbastanza per mandare un brivido lungo la mia schiena. C'era una tensione palpabile tra di noi, una corrente sottile che ci legava in un modo che era impossibile ignorare. Era come se entrambi sapessimo cosa stava succedendo, ma nessuno di noi fosse pronto a fare quel passo decisivo.
«Capito adesso?» chiese, il suo sguardo ancora fisso su di me. Annuii lentamente, anche se non ero del tutto sicura di cosa stessi rispondendo. Forse stavo dicendo sì alle sue spiegazioni, forse stavo solo acconsentendo a qualcosa di molto più profondo e complesso. Alexander lasciò scivolare la mano via dalla mia gamba, il contatto che svaniva ma lasciava un'impronta bruciante.
Mi passò il quaderno, e per un attimo le nostre dita si sfiorarono. Fu solo un attimo, un tocco lieve e fugace, ma abbastanza per farci entrambi trattenere il respiro. Il suo sguardo non si staccò dal mio, e per un attimo tutto sembrò fermarsi, come se fossimo rimasti intrappolati in quell'istante sospeso. Poi, lentamente, Alexander si ritirò appena, rompendo la tensione che aveva saturato l'aria, ma lasciando dietro di sé un senso di desiderio inesplorato che non potevamo più ignorare.
Alexander si grattò la fronte, come se cercasse di scrollarsi di dosso un pensiero troppo pesante. «Vuoi ancora ripassare?» chiese, ma la sua voce sembrava più un mormorio, distratto. Lo guardai, mordendomi leggermente il labbro, e dissi con un sorriso incerto: «No, voglio andare in piscina. Mi devi insegnare a nuotare e poi portarmi al mare.»
Lui mi sorrise, un sorriso che sembrava nascondere qualcosa di più dietro quella maschera di calma. Mi alzai dal divano e lui fece lo stesso, allungandomi la mano per aiutarmi a sollevarmi. Si tirò su i pantaloni della tuta, quasi in un gesto di preparazione, e disse con un tono divertito: «Ne sei sicura?»
«Sí,» risposi, decisa, ma con il cuore che batteva forte.
In un attimo, mi afferrò per la vita, sollevandomi come se fossi leggera come una piuma, e mi mise sulle sue spalle. Sentivo il suo respiro regolare sotto di me, il calore del suo corpo che mi avvolgeva mentre mi teneva stretta. «Cosa stai facendo?» chiesi, un misto di risate e sorpresa nella mia voce.
Lui mi guardò con quello sguardo che non riuscivo mai a decifrare del tutto, una scintilla nei suoi occhi che mi faceva quasi dimenticare dove finiva la pelle e dove iniziava la sua. «Voglio insegnarti a nuotare,» rispose, e per un momento, mentre mi portava fuori, mi sembrò che non parlasse solo dell’acqua della piscina.
Alexander si fermò sul bordo della piscina, l’acqua scintillava sotto il sole e la tensione tra di noi era palpabile, come se l'aria si fosse caricata di elettricità. Mi guardò con un'intensità che mi fece trattenere il respiro per un istante. «Facciamo un patto,» disse, la sua voce bassa e avvolgente. «Se domani passi l'esame, ti porterò al mare.»
Sorrisi, un sorriso che nascondeva l’agitazione e l’eccitazione di quel momento. Prima che potessi rispondere, Alexander si tuffò in piscina, tenendomi salda tra le sue braccia. L’acqua ci avvolse in un abbraccio freddo, ma la presa di Alexander rimase sicura e decisa. Risalimmo in superficie insieme, e lui si assicurò che io stessi bene, il suo sguardo sempre fisso su di me.
«Va tutto bene?» chiese, il respiro pesante ma rilassato. Annuii rapidamente, spostandomi i capelli bagnati dal viso. «Sì,» risposi, anche se dentro di me c'era un turbinio di emozioni. Alexander mi teneva stretta con un braccio, il suo tocco fermo e sicuro, mentre io mi aggrappavo al suo collo, cercando un ancoraggio nel mare di sensazioni che stavo provando.
Il suo respiro caldo sfiorava il mio viso, creando un contrasto con il fresco dell'acqua. Eravamo così vicini che potevo contare le gocce d'acqua sulle sue ciglia, sentire il ritmo irregolare del suo respiro che si mischiava al mio. I nostri occhi si incontrarono, ed era come se tutto il resto si dissolvesse, lasciando solo noi due in quell’istante sospeso.
«Alexa,» disse infine, la sua voce un sussurro che sembrava portare con sé una promessa, un richiamo. Mi resi conto di quanto fossimo vicini, il suo volto a pochi centimetri dal mio. C’era qualcosa nei suoi occhi, un desiderio inesplorato, una domanda non detta. E in quel momento, persi ogni senso del tempo, come se stessimo sfidando il mondo intero semplicemente restando lì, sospesi tra il desiderio e il timore di quello che sarebbe potuto accadere se avessimo ceduto a ciò che stavamo entrambi evitando di dire.
Le nostre labbra si sfiorarono per un istante, quasi per caso, come un tocco involontario. Un momento che sembrava durare un'eternità. Il contatto era così leggero, ma bastò a far scattare qualcosa dentro di me. «Alexander,» sussurrai, cercando di riportarci alla realtà. Mi guardò intensamente, poi distolse lo sguardo come se cercasse di controllare i suoi impulsi. «Sai come devi andare sott'acqua?» chiese con una voce rauca, quasi spezzata dal momento. Scossi la testa lentamente, ancora persa nel vortice delle emozioni.
«Lascio che il tuo corpo si rilassi,» spiegò, «e spingiti giù con le gambe, senza usare le mani. Rilassati e vedrai che è più facile di quanto pensi.» Annuii, seguendo le sue istruzioni, e ci immergemmo insieme.
Sott’acqua, tutto era più tranquillo, il rumore del mondo sopra di noi si dissolse. Aprii gli occhi e lo vidi davanti a me, i suoi occhi mi guardavano con un'intensità che non avevo mai visto prima. Gli sorrisi, sentendo una strana libertà in quella profondità azzurra. Avvicinai le mani al suo viso, il contatto era morbido e dolce contro la sua pelle bagnata. Mi sporsi verso di lui e lo baciai, un gesto naturale, inevitabile. Le sue labbra risposero con lo stesso desiderio che mi aveva consumata.
Risalimmo in superficie, ma il bacio non si interruppe. Le nostre bocche si trovarono ancora una volta, più affamate, più disperate. Sentii la sua lingua che cercava la mia, un'intimità che mandava scintille lungo tutta la mia pelle. Le sue braccia mi avvolsero con forza, tirandomi più vicino a lui. Senza pensarci, avvolsi le mie gambe intorno al suo bacino, il contatto del suo corpo caldo contro il mio mi fece sentire come se stessi per esplodere. Era tutto così intenso, così perfetto, eppure c'era un senso di precarietà, come se il mondo potesse crollare da un momento all’altro.
Si staccò leggermente, i suoi occhi persi nei miei, il respiro affannato. «Alexa,» disse, il suo tono carico di emozioni contrastanti, come se stesse combattendo qualcosa dentro di sé. Mi teneva stretta, come se non volesse lasciarmi andare, in quel momento, con l'acqua che ci cullava, sembrava che niente altro importasse.
Lui mi guardò con un’espressione indecisa, come se combattesse tra il desiderio di restare e il dovere di andarsene. «Dobbiamo tornare dentro per ripassare,» disse con voce ferma, ma il suo sguardo non riusciva a staccarsi dal mio. Scossi la testa, un sorriso ribelle sulle labbra. «Aspettiamo,» sussurrai, cercando di prolungare quel momento.
Alexander mi sollevò con delicatezza e mi appoggiò sul bordo della piscina, l'acqua che scivolava via dal mio corpo. Si avvicinò di nuovo, le sue mani sui miei fianchi, il calore del suo tocco contrastava con la freschezza dell’acqua. «Alexa,» disse con un tono che cercava di essere risoluto, ma si incrinò leggermente, «te l'ho già detto, non possiamo stare insieme. Lo capisci, vero? Io e te... è complicato.»
«Sì, lo so,» risposi, eppure il mio cuore batteva forte. Mentre parlava, il mio sguardo cadde sul suo viso, sulla linea definita della sua mascella, sulla barba che accennava appena sotto il mento, perfetta su di lui, gli donava un’aria ancora più affascinante. Era un dettaglio che non avevo notato prima, ma che adesso mi sembrava così intimo, come se lo stessi vedendo davvero per la prima volta.
Sollevai una mano e gli accarezzai il mento, le dita sfiorarono il leggero ruvido della barba. «Ti sta bene,» dissi sorridendo, cercando di alleggerire la tensione, anche se sapevo che era solo una scusa per poterlo toccare ancora. Lui chiuse gli occhi per un istante, godendosi il mio tocco, e sospirò.
«Cosa stiamo facendo?» mormorò, la sua voce era un sussurro carico di emozione. I suoi occhi si aprirono di nuovo, fissandomi con una profondità che mi fece venire i brividi. Era una domanda che entrambi conoscevamo la risposta ma nessuno di noi aveva il coraggio di dirla ad alta voce. Mi guardò con un'intensità che fece sembrare il mondo intorno a noi lontano e sfocato, come se in quel momento esistessimo solo noi due, sospesi tra ciò che volevamo e ciò che era giusto.
Lui mi prese per mano con una delicatezza che non avevo mai sentito prima, come se temesse di rompermi. «Devo insegnarti a nuotare,» disse, cercando di riportare la conversazione su un terreno sicuro. Mi portò al centro della piscina, l'acqua ci circondava fino al petto. «Muovi le braccia, ma non come un cane,» aggiunse con un sorriso leggero, tentando di farmi rilassare.
Provai a muovere le braccia come mi aveva detto, cercando di seguire il suo ritmo. Sentivo le sue mani che mi sostenevano, pronte a intervenire se avessi perso l’equilibrio. Dopo qualche tentativo, cominciai a sentirmi più sicura, e il movimento diventò più naturale. Risi un po’, divertita dalla goffaggine dei miei primi tentativi. «Farai così anche quando avrai un figlio?» chiesi d'impulso, guardandolo negli occhi.
Alexander si fermò un attimo, sorpreso dalla mia domanda. Lo avevo colto alla sprovvista. Era chiaro che avevamo appena cambiato argomento, e anche se il tema era ben diverso da quello di poco prima, il senso di intimità rimaneva. «Come lo chiamerai?» continuai, cercando di spingerlo a parlare, di capire cosa provasse davvero.
Lui mi guardò intensamente, il suo sorriso era svanito, sostituito da un’espressione pensierosa. «Non lo so ancora,» ammise. «Non ci ho pensato molto.» Mi fissava come se cercasse qualcosa, forse la risposta a una domanda che nemmeno lui sapeva di avere.
Il silenzio tra di noi era carico, non di disagio, ma di una strana complicità. Sentivo il peso delle parole non dette, delle possibilità inesplorate che ci aleggiavano intorno.
Alexander distolse lo sguardo per un momento, come se stesse riflettendo seriamente per la prima volta su un'idea che lo turbava. Poi, con un leggero sorriso appena accennato, disse: «Forse Theodore o Neil.» Era come se stesse provando a visualizzare il futuro, a dare un nome a qualcosa di ancora molto lontano e nebuloso.
Lo guardai con curiosità, cercando di cogliere ogni piccola sfumatura del suo sguardo. «Theodore,» ripetei piano, assaporando il nome come se potessi intravedere il bambino che Alexander immaginava. «O Neil.» C'era una dolcezza in quella scelta, qualcosa di semplice e onesto, che sembrava rispecchiare una parte di lui che conoscevo appena.
«Ti piace?» chiese Alexander, con una voce quasi insicura, come se il mio giudizio potesse davvero contare in quella decisione.
Annuii con un sorriso. «Sono belli,» risposi, lasciando che le parole cadessero leggere tra di noi. «Hanno carattere.»
Lui mi osservò per un attimo, come se stesse valutando la mia risposta, e poi fece un piccolo cenno con la testa, come per confermare che anche per lui andavano bene. Ma più di tutto, mi colpì la tenerezza con cui aveva pronunciato quei nomi, come se per un istante avesse lasciato cadere tutte le sue difese.
Spostai lo sguardo sull'acqua che ci circondava, cercando di mascherare l'emozione che mi si era attorcigliata dentro. Alexander sembrava perso nei suoi pensieri, e io mi chiesi cosa stesse davvero passando nella sua testa. Forse stava immaginando quel futuro di cui aveva parlato, forse stava cercando di capire come sarebbe stato. Ma in quel momento, lì nella piscina, con l'acqua che ci avvolgeva e la luce che rifletteva sui nostri volti, sembrava che tutto fosse possibile.
«Cosa c'è?» chiesi infine, rompendo il silenzio.
«Niente,» disse lui, scuotendo la testa come per scacciare via quei pensieri. «È solo strano... pensare a tutto questo.» Poi mi guardò di nuovo, con un'espressione più leggera, quasi ironica. «Spero solo che quando arriverà il momento, sarò pronto.»
«Sono sicura che lo sarai,» dissi con fermezza, e anche se non ero del tutto certa di cosa stessimo realmente parlando, volevo crederci anch'io.
Alexander mi guardò intensamente, i suoi occhi scrutavano i miei come se cercasse di leggervi la certezza che io stessa non avevo. «Tu sei pronta per l'esame di domani?" chiese, la sua voce un po' più seria.
«Sì,» risposi con un tono sicuro, anche se dentro di me l'ansia ribolliva. «Almeno credo.» Tentai un sorriso per nascondere il nervosismo, ma sapevo che lui poteva vedere oltre quella facciata.
Alexander alzò un sopracciglio, ancora non del tutto convinto. «Devi esserlo, Alexa. Non c’è spazio per i dubbi.» Si allontanò leggermente, il suo sguardo ora più deciso e determinato. «Sei stata brava finora, hai studiato e hai lavorato duro. Non lasciare che la paura rovini tutto.»
Annuii, cercando di convincermi che aveva ragione. Avevo passato ore sui libri, avevo ripassato ogni formula, ogni concetto, ogni dettaglio con la sua pazienza e dedizione. Alexander mi aveva spronato, mi aveva fatto ripetere fino a quando non ne potevo più, ma ogni volta ero migliorata un po' di più.
«Sai,» disse lui, sorridendo appena mentre giocherellava con l'acqua. «A volte la paura è solo un segno che tieni davvero a qualcosa.»
Quelle parole mi colpirono più di quanto avessi immaginato. Mi fece riflettere su quanto volessi riuscire, quanto desiderassi dimostrargli che potevo farcela, non solo per me stessa, ma anche per non deludere le sue aspettative.
«Allora,» dissi infine, prendendo un respiro profondo, «credo che mi importi davvero tanto.»
Alexander si avvicinò di nuovo, la tensione tra di noi ritornò a farsi sentire, palpabile come un filo invisibile che ci legava. «Sono fiero di te, Alexa,» disse con sincerità. «Domani sarai pronta, lo so.»
Mi sorrise e in quell’istante tutto sembrò trovare il suo posto. Non importava l’esito dell’esame, non importava la confusione dei nostri sentimenti, c’era solo la certezza che, qualunque cosa fosse successa, Alexander era lì, accanto a me. E in quel momento, era tutto ciò di cui avevo bisogno.
***
Ero seduta in macchina accanto ad Alexander, il cuore mi batteva forte mentre osservavo il mio riflesso nel piccolo specchietto retrovisore. Mi ero preparata con cura per l’esame: indossavo una maglietta aderente a maniche lunghe di un colore verde salvia che lasciava appena scoperta la pancia, abbinata a un paio di jeans a gamba larga, di un grigio slavato che si posavano morbidi sulle mie sneakers bianche. Avevo scelto un look semplice, ma curato, perfetto per un giorno importante come quello. Mi ero fatta una coda alta, lasciando qualche ciocca libera per incorniciare il viso, e avevo aggiunto degli orecchini a cerchio d’argento per un tocco di eleganza. Sulla spalla avevo una borsa scura in pelle, piccola ma capiente, perfetta per contenere il necessario.
«Come sto?» chiesi ad Alexander, cercando di nascondere l'insicurezza dietro un tono casual. Lui sembrava concentrato sulla strada, ma colse la mia domanda con un rapido sguardo e un accenno di sorriso.
«Carina,» rispose, con un tono che mi fece capire che la sua mente era altrove, probabilmente assorta a pensare a ciò che mi aspettava.
«Carina?» ripetei, fingendo di essere offesa, ma in realtà solo in cerca di un po' di rassicurazione. Lui sorrise, finalmente girandosi un po' di più verso di me.
«Non preoccuparti, Alexa. Ai professori non importa come sei vestita. Importa quello che hai qui dentro,» disse, accennando alla mia testa con un lieve gesto. «È il cervello che conta.»
Sospirai e mi rilassai un po', cercando di trovare conforto nelle sue parole. Sapevo che aveva ragione, ma non potevo fare a meno di sentire quel bisogno di approvazione, di dimostrargli che ero all'altezza, non solo dell'esame, ma anche di essere all'altezza di lui. Mi voltai a guardare fuori dal finestrino, i pensieri che correvano veloci come il paesaggio che ci sfilava accanto. L’idea di poter andare all’università dove lavorava Alexander mi riempiva di eccitazione e timore allo stesso tempo. Mi voltai di nuovo verso di lui, i nostri occhi si incontrarono per un attimo, e in quell’istante tutto sembrava possibile.
Alexander mi aveva aiutato così tanto a prepararmi per questo esame, molto più di quanto avessi mai sperato o immaginato. Era stato paziente, presente, e aveva fatto di tutto per assicurarsi che avessi le migliori possibilità di successo. Addirittura aveva pagato per farmi avere una classe privata, in modo che potessi fare l'esame in un ambiente più intimo e meno stressante, lontano dagli sguardi giudicanti degli altri studenti.
Quando finalmente arrivammo, Alexander posteggiò la macchina in un parcheggio tranquillo, proprio davanti all'edificio scolastico. Guardai fuori dal finestrino: un edificio grande e austero, uno di quei complessi accademici tipici dove si svolgono gli esami per chi, come me, ha lasciato la scuola e ora tenta di accedere all'università. Era uno di quei centri d'esame dedicati, attrezzati con aule silenziose, cattedre scarne e file di sedie disposte in modo perfetto. Luoghi in cui il futuro di molti si decide in poche ore.
Alexander spense il motore e si voltò verso di me, il suo sguardo era calmo ma incoraggiante. «Sei pronta?» mi chiese con quella voce bassa e rassicurante che ormai conoscevo bene. Feci un respiro profondo, tentando di placare l’ansia che cresceva dentro di me, e annuii lentamente.
«Lo sono,» risposi, anche se nel mio cuore sapevo che era solo metà della verità. La mia mente era pronta, o almeno così speravo, ma il mio cuore batteva furiosamente, agitato da una miriade di emozioni diverse. Alexander mi sorrise, e per un momento sembrò che il tempo si fermasse. Il peso delle sue aspettative, della mia promessa a me stessa, di tutto ciò che avevo costruito con lui, sembrava schiacciarmi e sollevarmi allo stesso tempo.
Scendemmo dalla macchina e mi avviai verso l’ingresso dell’edificio, sentendo il peso di ogni passo. Mentre mi avvicinavo alla porta, mi voltai per un’ultima occhiata a Alexander. I suoi occhi erano fissi su di me, pieni di una speranza e di un sostegno silenzioso che mi diedero la forza di entrare.
Con un ultimo sorriso rassicurante, aprii la porta ed entrai. Questo esame era solo un altro passo, ma il primo di tanti verso un futuro che, per la prima volta, iniziavo davvero a intravedere.
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