9

La serata si tramutò ben presto in qualcosa di soffocante, quasi straziante.

Ogni boccone che Ariel mandava giù lo obbligava subito dopo ad alzarsi da tavola, per correre al bagno, cercando di placare la nausea.

Irèné a malapena toccò cibo, rimanendo tutto il tempo con un sorriso tirato dipinto sulle labbra.

I bambini guardavano il padre non comprendendo cosa stava succedendo, spostando di tanto in tanto la loro attenzione sull'ospite, senza riuscire a trovare in lui nulla che potesse suscitare loro un minimo di simpatia.

-Papà, il tuo amico sta male?- domandò ad un tratto Fabien, riuscendo ad incrinare del tutto il sorriso del giovane.

Irèné si passò un tovagliolo sulla bocca, sospirò e si alzò dalla sedia, decidendosi a seguire l'altro dentro al bagno. Bèatrice seguì il genitore, ma il fratello la intercettò appena in tempo impedendole di andargli dietro.

Il padrone di casa si trovò davanti la porta del bagno, assolutamente confuso su ciò che avrebbe dovuto fare.

L'unica cosa che gli era divenuta chiara, era la consapevolezza di aver fatto una stronzata: non avrebbe mai dovuto invitare Ariel per cena.

Bussò, prima di abbassare la maniglia, trovando la porta aperta.

Il giovane fece capolino dentro la stanza e sorprese l'altro seduto sul bordo della vasca, la testa china ed entrambe le mani premute con forza sull'addome.

-Tutto bene?- sussurrò.
Ariel scosse la testa in segno di diniego.
Irèné sospirò ancora, entrò nella stanza avvicinandosi al suo ospite.
Si sedette sui talloni, poggiando entrambe le mani sulle ginocchia dell'altro.

-Ariel...?-
-Non sarei dovuto venire- mormorò il diretto interessato, cercando di respingere l'altro, allontanandolo da sé in malo modo con una spinta. Irèné perse l'equilibrio e cercò di non cadere, afferrando un braccio del giovane.
Ariel, sorpreso, si trovò catapultato in avanti ed entrambi finirono sul pavimento.

Rimasero a fissarsi per un paio di secondi, in imbarazzo, mentre le guance di Ariel si andavano tingendo di un rosso sempre più acceso.

Irèné sgranò gli occhi, rendendosi conto della situazione in cui si trovavano: uno sopra all'altro, sul pavimento, mani e gambe intrecciate; le parti intime di entrambi fin troppo vicine e a contatto... un contatto che sapeva di dover interrompere il prima possibile.

Sgusciò da sotto l'altro, ma Ariel gli strinse le spalle, impedendogli di allontanarsi troppo da lui. Spinse il proprio petto contro quello dell'altro, avvicinando il viso pericolosamente al suo.

-Non mi sento molto bene- disse e Irèné percepì il cuore iniziare a battere più velocemente in petto.
Ariel era... strano: sembrava febbricitante, con le guance arrossate, gli occhi lucidi e colmi di una strana emozione.

Tentò nuovamente di allontanarsi da lui, con maggior violenza, ma l'altro rinsaldò la presa e, nonostante fosse meno possente di lui, riuscì a sottometterlo, obbligandolo a distendersi sul pavimento.

Irèné deglutì, percependo il proprio Pomo d'Adamo tremare per la tensione: la pelle si fece tirata sul viso, ricoprendosi di brividi, mentre le orecchie sembravano non essere in grado di percepire altro suono all'infuori di quel martellare furioso del suo cuore.

Non gli piaceva quella situazione.

Ariel protese il viso verso di lui, con la chiara intenzione di baciarlo. Il giovane sentì il sangue defluire dal viso: non aveva intenzione di commettere per due volte lo stesso errore.

Premette una mano contro il petto dell'altro, voltando il viso di lato, nel tentativo di porre la maggior distanza possibile tra di loro.

-Ariel. Non possiamo, ma soprattutto... non dobbiamo-
-Perché non dovremmo volerlo?- gli chiese e il giovane serrò gli occhi.

-Perché io non ricambio i tuoi sentimenti- sussurrò Irèné.

L'altro si allontanò da lui, allentando la tensione del suo corpo, donandogli la possibilità di respirare nuovamente senza essere costretto ad inalare anche il suo profumo.

Il giovane tirò un sospiro di sollievo, felice che l'altro stesse rinsavendo. Non vedeva l'ora di tornare in soggiorno dai suoi figli, concludere quella cena disastrosa e andare a dormire: era certo che quella sera avrebbe condiviso il suo lettone con Fabien e Bèatrice.
Perché si sentiva proprio in quel modo: come un bambino bisognoso di conforto.

Quella situazione lo stava destabilizzando, tanto che non si sentiva più in grado di difendersi, di proteggere i propri sentimenti dietro quello che era da sempre stato il suo scudo: la rabbia.

Quando si trovava ad avere a che fare con Ariel, il senso di colpa gli impediva di arrabbiarsi con lui, portandolo a lasciarsi usare dall'altro a proprio piacimento.

Si mosse, pronto a rialzarsi da terra, ma  al suo ospite quel movimento non piacque per niente.

Gli puntò i gomiti contro le spalle, serrando le braccia contro la sua gola, obbligandolo a stare giù, intrecciando ancora una volta le gambe con le sue.

Irèné provò a toglierselo di dosso, ma Ariel gli premette due dita sulla pelle sottile della gola, mozzandogli il respiro.
Tentò ancora una volta di baciarlo, ma l'altro non si fece intimorire e lo afferrò per i capelli, allontanando il suo viso dal proprio.

Bussarono alla porta.
-Papà?- chiamò Fabien e la rabbia arrivò, così come Irèné aveva sperato che accadesse.

Sentì la pelle scaldarsi, i battiti prendere a rallentare la loro folle corsa, il gelo del panico sciogliersi, mentre acquisiva nuova sicurezza.

-Sì, sto arrivando- disse, rivolgendosi al figlio: -Ariel non sta molto bene. Ma adesso gli chiamiamo un taxi così potrà tornare a casa a riposare-
-Bèa ti vuole- aggiunse il bambino.
-Sono qui. Un paio di minuti e vi raggiungo, fate i bravi, okay?-
-Okay-

Sentirono i passi di Fabien mentre si allontanava da dietro la porta del bagno.

-Mi dispiace- mormorò Ariel.
-Facciamo che adesso sparisci dalla circolazione il più velocemente possibile, sei d'accordo?-
-Non puoi mollarmi così...- protestò il suo ospite, mentre Irèné si alzava dal pavimento, battendosi i vestiti con le mani, nel tentativo di darsi un aspetto più dignitoso, di modo da non spaventare i figli.

Sapeva che quei movimenti non avevano granché senso: era il suo viso quello che lasciava trasparire le emozioni contrastanti che lo avevano animato sino a quel momento. Nulla poteva risolvere togliendosi di dosso una polvere del tutto immaginaria: Ariel lo faceva sentire sporco.
Se voleva davvero ripulirsi, quello che avrebbe dovuto rimuovere era proprio lui.

-Devi andartene- ripeté poco dopo.
Ariel scosse la testa: era mortificato, glielo si leggeva chiaro in viso e gli occhi erano tornati a riempirsi di lacrime.

Ma Irèné era furioso con lui, stava lottando contro se stesso per equilibrare il tono di voce, misurare le parole e i gesti.
Vestiva la rabbia come se fosse il miglior vestito da gala, cucito su misura per lui dal più grande sarto al mondo.
Ma come ogni abito elegante, doveva stare attento ad ogni più piccolo movimento, per evitare di rovinarne la linea perfetta.

-Non voglio. Io ho bisogno di te!- disse Ariel, mentre le prime lacrime iniziavano a rigargli il viso.

Il suono prodotto dallo schiaffo soverchiò ogni altra cosa.
Rimasero immobili, mentre Irèné sentiva la palma della mano pulsare e la guancia di Ariel bruciava di un nuovo tipo di rossore.

-L'ho giurato sulla tomba di Roland: ripagherò il mio debito con la vostra famiglia. Ma non osare mai più mettermi le mani addosso, sono stato chiaro?- il tono sibillino con cui Irèné pronunciò quelle parole fece tremare Ariel e, per la prima volta da quando lo conosceva, ebbe paura di lui.

Annuì brevemente e corse fuori dal bagno.
Oltrepassò il corridoio e il soggiorno, incontrando velocemente gli sguardi straniti di Bèatrice e Fabien, intenti a giocare con la riproduzione di due piccoli pony coloratissimi.

Uscì da quell'appartamento dopo aver recuperato le sue cose, senza salutare nessuno.

Irèné trasse un lungo respiro, espirò piano, sentendo il corpo cedere alla calma.

Tornò dai figli. Li ammonì nel trovarli a giocare sul tavolo, tra gli avanzi di quella che era stata la loro cena.
Il suo rimprovero non durò a lungo: alla fine cedette alle suppliche dei due birbanti, rimosse ogni traccia di ciò che era stato e si unì ai loro giochi.

Più tardi, quella stessa sera, dopo aver messo a letto i bambini - invitandoli a dormire nel suo letto così come aveva precedentemente previsto -, prima di concludere definitivamente quella giornata disastrosa, si concesse qualche minuto per sé.

Rimase a fissare il paesaggio di Parigi: illuminata dalle più seducenti luci serali, sovrastata da un cielo scuro, rischiarato dai riflessi meno piacevoli e inquinanti di quelle stesse luminarie; mentre la luna si celava in buona parte dietro grigie nubi.

Si accese una sigaretta, mentre l'aria serale gli accarezzava la pelle facendolo rabbrividire.
Ripensò al calore delle mani di Ariel, allo sgomento, la paura, la tensione e la rabbia.
Più andava avanti, meno gli veniva facile mantenere la sua stessa promessa.

Avrebbe voluto sbarazzarsi di Ariel, cancellarlo dalla sua vita.

Lanciò la cicca di sigaretta nel vuoto, oltre la ringhiera del balconcino e rientrò in casa.

Oltrepassò l'ingresso per recarsi in camera da letto, ma una strana inquietudine lo spinse a tornare presto su i suoi passi.

Si fermò al centro del piccolo ambiente che introduceva al corridoio della zona notte alla sua destra e il soggiorno alla sua sinistra.

Guardò le pareti, le foto dei suoi figli e della sua famiglia, l'appendiabiti carico di giacconi, gli zainetti di Fabien e Bèatrice. Mancavano le chiavi dell'auto, ovviamente: non si trovavano al loro solito posto nel piattino sul mobile d'ingresso di fianco la porta.
La sua automobile era rimasta a Provins.

Aggrottò la fronte. Era l'unica cosa fuori posto, eppure...

Scosse la testa e abbassò gli occhi sul pavimento, senza un preciso motivo.

Ed eccolo lì: quel qualcosa che lo aveva mandato in allarme.

Sotto la porta d'ingresso si intravedeva una porzione di carta, gialla.

Irèné la raccolse, tirandola fuori da lì, scoprendo che si trattava dell'angolo di una busta grande più o meno come una cartolina.

L'aprì tirandone fuori il contenuto.

Non appena scorse le sagome dei due uomini immortalati in quelle foto, le gambe gli si fecero molli e il panico tornò a serrargli i muscoli del corpo in una morsa dolorosissima, come tante piccole lame intente a colpirlo simultaneamente dappertutto.

Era chiaro cosa stessero facendo i due, nudi, su di un letto.
Chiari erano i lineamenti di Irèné, i quali restituivano un'immagine perfettamente riconoscibile del suo viso, a differenza di quello del secondo uomo immortalato con lui, di cui si poteva scorgere quasi ogni curva del corpo, eccetto, appunto, il volto.

Ma il giovane non aveva bisogno di vederne la faccia per attribuirgli un'identità: sapeva benissimo chi era.

Ed evidentemente, non era il solo a conoscere quel suo segreto.

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