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"Ti mando il bollettino tramite mail. Vedi di non tardare nel pagamento! Non ho intenzione di rimanere, ancora una volta, senza corrente elettrica per colpa tua!"
Irèné scosse la testa.
Rilesse il messaggio sul suo cellulare un paio di volte, cercando di annullare il senso di colpa che gli pizzicava il petto.
Non ci riuscì.
Sospirò, limitandosi a rispondere all'altro, inviandogli soltanto una emoticon di una manina con quasi tutte le dita chiuse sulla palma, a eccezione del pollice rivolto verso l'alto.
Ripose il cellulare in tasca, per poi massaggiarsi le meningi con due dita, nel tentativo di alleviare quel principio di mal di testa che aveva preso a corteggiarle.
La notte precedente non aveva chiuso occhio: dopo il primo incubo ne erano susseguiti altri, sempre più cupi e agghiaccianti.
Ciò che più lo faceva stare male era la consapevolezza di non essersi limitato a sognare. Non vi era particolare, in tutto quello che lo aveva tormentato nel sonno, che non si rifacesse a qualcosa di reale. Era stufo di non riuscire a smetterla di tormentarsi con tutti quei pensieri.
La porta della sua stanza venne aperta di colpo e il giovane sussultò, trovandosi, presto, le braccia di Fabien strette intorno alla vita.
-Buongiorno, amore- lo salutò e il bambino lo ricambiò con un sorriso timido.
-Oggi torniamo a casa?- gli chiese.
-Sì, certo. Come ogni weekend, lo sai. Domani, tu e Bèa, dovete andare a scuola: non possiamo rimanere-
-Mh- si limitò a rispondergli il piccolo, sciogliendo il loro abbraccio.
Irèné rimase a fissarlo per qualche secondo, studiandone il volto contratto da una strana espressione dubbiosa.
-Qualcosa non va, tesoro?-
Fabien scosse la testa, anche se poco convinto.
Il giovane non ebbe tempo di aggiungere altro poiché vide il figlio correre fuori dalla stanza, senza fornirgli ulteriori dettagli su quel suo, strano comportamento.
Si avvicinò alla finestra che dava sul retro della casa, aprì le ante e i raggi del sole lo colpirono in pieno, scaldandogli il petto. Era una giornata sorprendentemente mite per quel periodo: la pioggia del giorno prima sembrava parte di un lontano ricordo.
Intente a giocare in giardino intravide sua figlia e Camille.
Irèné percepì i muscoli delle spalle irrigidirsi, mentre, poco dopo, alle due si aggiungeva anche il suo primogenito.
Non gli piaceva che i suoi figli giocassero con la ragazzina: erano due bambini empatici, di buon cuore e non voleva che stringessero amicizia con lei perché, dopo l'incontro del giorno prima, si era creato di Camille un'immagine poco piacevole... ma, soprattutto, rimaneva la figlia di Emil.
Il giovane scese al piano di sotto della villetta, cercando la madre e trovandola poco dopo nel soggiorno, seduta sul divano, intenta a sfogliare una rivista di cucina, mentre sorseggiava qualcosa da una tazza.
-Mia figlia, pur di correre fuori a giocare con la tua allieva, non è salita neanche a salutarmi- esordì, fermandosi a un paio di passi da lei.
Valentine sussultò appena, allontanando la tazza da sé, alzando un sopracciglio con fare scettico, rivolgendosi al figlio.
-Buongiorno a te, caro- ribatté infastidita.
Irèné sbuffò.
-Buongiorno. Si può sapere che ci fa qui Camille anche di domenica?-
-Ed ecco che viene fuori il vero motivo del tuo disappunto-
-Vorrei ben vedere te al mio posto!-
-È una ragazzina. Tua sorella era dieci volte peggiore di lei alla sua età. Dovresti ricordarlo bene, visto che anche tu sei stato vittima delle sue angherie tantissime volte. Senza contare il tuo di caratteraccio, e dei casini in cui ti sei sempre cacciato a causa di questo-
Il giovane si morse il labbro inferiore, impedendosi di ribattere alle parole della madre.
Odiava quella situazione: Valentine aveva ragione.
Sentì l'irritazione montargli in petto sempre più feroce, con il solo desiderio di darle sfogo, seppur si rendesse conto di non avere giustificazioni per lasciarsi andare a un vero e proprio scoppio d'ira. Gli piaceva la rabbia: era un sentimento che credeva di sapere domare, gestire a proprio vantaggio.
Quando era ragazzino e a scuola, troppo spesso, veniva preso di mira da alcuni suoi coetanei più sviluppati a livello muscolare e in altezza rispetto a lui, lasciava che la rabbia gli riempisse il petto. La percepiva chiaramente scaldarlo dall'interno, aprirsi dentro di lui come una spessa e calda coperta, avvolgendo tutto, lasciandolo distante dal dolore, confortandolo.
Non contracambiava mai le violenze fisiche; serrava le labbra e attendeva che quei bulli lo lasciassero in pace ma, nel frattempo, dentro la sua mente, augurava loro le peggiori cose, immaginandosi scenari terribili in cui quei poveracci, da protagonisti assoluti, finivano per ritrovarsi vittime di morti orribili. Con il tempo la situazione era, persino, peggiorata, tanto da impedirgli di tenere quelle maledizioni per sé.
Così, quando uno studente della sua scuola cadeva dalle scale, inciampava senza motivo, si faceva male sbattendo una mano contro una parete, ... tutti divennero pronti a puntargli il dito contro, accusandolo di essere uno iettatore.
"Se sapessero ciò ch'è successo lo scorso anno..." pensò, mentre la rabbia iniziava come a ribollirgli nelle vene, mischiandosi al sangue, scaldandogli la pelle, arrosando le guance.
Poco alla volta la percepì mitigarsi, non scomparve del tutto, ma divenne come una rassicurante nenia di sottofondo, restituendogli una strana calma.
-Non voglio che i bambini la frequentino. Casa tua, regole tue, sei sempre stata chiara riguardo a ciò. Ma Fabien e Bèatrice sono figli miei, decido io chi possono frequentare o meno. Perciò sei pregata, per quello che riguarda loro, di non fare di testa tua...-
-Immagino- lo interruppe Valentine. -Che adesso mi minaccerai dicendo che, se insistessi nel fargliela frequentare, non verreste più a trovarci durante il weekend-
I due rimasero a fissarsi per un po', occhi negli occhi.
A cedere per primo fu Irèné: abbassò lo sguardo, sentendosi sempre più frustato da quel sentimento di inadeguatezza che la madre gli provocava con i suoi modi di fare.
-Siete i nonni. Porto i bambini per stare con voi e con Edith, non per passare il tempo con la figlia di Emil-
-Ti darò una notizia sconvolgente, mio caro- disse Valentine alzandosi dal divano, andando incontro al figlio.
Incrociò le braccia sotto al seno prima di riprendere a parlare, con fare quasi minaccioso.
-Camille è una persona. Un essere umano che, in piccola parte, è pure figlia di Emil. Ma Camille è una ragazza, è giovane e intraprendente, sboccata, simpatica, intelligente e altre miliardi di cose che nulla hanno a che vedere con di chi è figlia. Se i tuoi bambini si trovano tanto bene con lei, forse dovresti domandarti cosa loro vedono in quella ragazza, cosa tu non riesci a vedere, troppo impegnato, come sei, ad andarle contro soltanto perché è, anche, la figlia di Emil!-
Irèné scosse la testa, sentendosi non in grado di continuare quella conversazione senza portarsi dalla parte del torto.
Il suo era solo un pregiudizio, sua madre aveva ragione. Ne era consapevole.
Sospirò, lasciando che lo sguardo vagasse per la stanza, intercettando suo padre raggiungerli, mentre lasciava la cucina in favore del soggiorno.
Dalla sua espressione, il giovane comprese che doveva aver udito tutta la loro conversazione.
-Ho preso la tua macchina, stamattina. Era parcheggiata davanti la mia e ho fatto prima a uscire con la tua-
-Va bene- disse, contento che Martin avesse deciso di non pronunciarsi su quanto era appena accaduto.
-Emette strani rumori. I freni fischiano un po'. Preferirei che partissi con la mia stasera, per evitare inutili pericoli. Domani porto la tua auto da Simeon, così potrà vedere che problemi ci sono e aggiustarla prima del tuo ritorno-
Irèné scosse la testa.
-Non posso lasciarti tutta la settimana a piedi. Come farai a fare avanti e indietro dalla falconeria?-
-Mi farò dare un passaggio-
-Tra poche settimane ci sarà la Rievocazione storica. Sarai impegnato tantissimo in vista dell'evento, come ogni anno. Preferisco lasciarti l'auto. Mi basta che ci accompagni alla stazione. Prenderemo il treno per tornare a Parigi-
-E tu, in giro per la capitale senza auto?-
-Mezzi pubblici, taxi, ... non è certo come qui. Non avrò problemi-
Martin rimase un attimo a rimuginare su quella questione. Era una cosa di poco conto ma, visto il rapporto che intercorreva tra di loro, l'uomo si sentiva costantemente costretto a soppesare ogni minima azione, anche la più piccola parola, nel tentativo di non far credere al figlio di stare agendo a suo svantaggio per chissà quale motivo.
Dopo quel famoso giorno di quindici anni prima, Martin si era trovato nella scomoda posizione di non sentirsi più in grado di rimproverare il figlio, senza che l'altro gli rivolgesse quel suo sguardo colmo di rassegnazione, facendolo dubitare, continuamente, delle proprie, buone intenzioni.
Non faceva altro che domandarsi se quel determinato ammonimento sarebbe stato meno severo, se lui non avesse...
Serrò gli occhi, cercando di scacciare quell'immagine dalla mente.
Non c'era nulla di male nel sesso.
Non c'era nulla di male a essere omosessuali.
Certo.
Sino a quando non aveva beccato suo figlio a letto con un uomo.
Allora sì, aveva iniziato a vedere del male in ogni più piccolo lineamento del volto di Emil Girard.
Se Irèné fosse stato maggiorenne e lui un padre meno geloso e attaccato al figlio, quell'episodio si sarebbe rivelato meno sconvolgente per lui?
Stentava a crederci.
-Quando hai intenzione di partire?- gli chiese, avvicinandosi all'altro di un paio di passi.
Il giovane si allontanò immediatamente, indietreggiò, tornando a porre tra di loro una certa distanza.
Martin si sentì mancare.
Avrebbe voluto stringerlo a sé, rassicurarlo, cancellare ogni suo dubbio sull'affetto che nutriva nei suoi confronti; ma restava l'imbarazzo, forte, quasi tangibile, a impedirgli di annullare, ancora una volta, la lontananza, non solo fisica, che lo separava da suo figlio.
Irèné percepì l'aria intorno a sé farsi quasi soffocante e decise di prendere la palla al balzo.
-Vista la situazione, credo che andremo via subito dopo pranzo. Così avremo più tempo per viaggiare e arrivare a casa non troppo tardi-
"E potrò tornare a respirare, lontano da qui" pensò, ma badò bene a tenere per sé quelle parole.
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