19
Le strade della capitale avevano preso a tingersi dei colori delle feste. Luminarie arricchivano ogni anfratto, illuminando successivamente grandi viali, stradine strette e dal sapore antico, attività commerciali, balconi e finestre di abitazioni, lasciando che persino dal loro interno trasparisse qualche blando riflesso colorato.
Eppure, la suggestiva atmosfera di quella serata parigina non sembrava in grado di sortire alcun fascino su Irèné.
Rapito dai propri pensieri, restava fermo a ridosso della sua auto, il sedere poggiato contro lo sportello dal lato del guidatore, le mani nascoste dentro le tasche del lungo cappotto che indossava.
Fissava l'appartamento che sorgeva sull'altro lato della strada, tre finestre e un balconcino che si aprivano al terzo piano.
Aveva trascorso molto tempo in quella casa – ben quattro anni, per essere precisi – e non ricordava di aver mai udito tra quelle mura una risata che fosse davvero carica di gioia e allegria.
La sua relazione con Roland era stata un vero e proprio tormento: aveva fatto in modo che in lui crescesse quel senso di inadeguatezza che si trascinava stancamente appresso sin da quando era un adolescente.
Aveva commesso un errore nel cercare di sostituire Emil con Roland, ma quest'ultimo non aveva fatto nulla per non approfittarsi delle sue fragilità, piegarle in base ai propri bisogni, cercando di rendere il compagno succube di sé così come aveva sempre fatto con il fratello.
E per un discreto periodo vi era persino riuscito.
Fabien e Bèatrice lo avevano salvato. Gli avevano fatto comprendere che non aveva bisogno di un uomo per essere felice. Che non c'era nulla di male nell'amare devotamente e incondizionatamente qualcuno senza mai attendere nulla in cambio.
Con i suoi figli era stato esattamente così e lo avevano aiutato ad accettare anche i suoi sentimenti a senso unico nei confronti di Emil.
Avrebbe dovuto lasciare Roland, anziché insistere in quella direzione.
Ché la normalità non faceva per lui, e avrebbe di certo ottenuto risultati meno tragici nel mettere in atto quei cambiamenti che, all'inizio dell'adozione dei bambini, aveva rimandato a data da destinarsi nel tentativo di non obbligare i figli a subire ulteriori shock.
E aveva sbagliato lo stesso.
Roland si era ucciso: molto più che un semplice shock.
Sospirò e abbassò gli occhi sull'asfalto, mentre un paio di auto procedevano lentamente per la strada, altrimenti deserta.
Ne percepì il suono dei motori, mentre lo superavano e procedevano verso le loro destinazioni, tornando a lasciarlo solo con i propri pensieri, in quella stradina di periferia.
Sollevò ancora una volta gli occhi nella direzione dell'appartamento di Roland.
Ariel non lo aveva venduto, ma si rifiutava ostinatamente di metterci piede o anche solo pensare di farci qualcosa – come metterlo in affitto, ad esempio –, così ossessionato com'era a non permettere che venisse profanata la memoria del fratello.
Percepì gli occhi bruciare a causa dello sforzo a cui li stava sottoponendo nel rimanere fissi su di un punto, senza sbattere le palpebre: alla fine dovette cedere a quell'istinto corporeo.
Riaprì gli occhi, improvvisamente agitato.
Gli era parso di scorgere una luce trasparire tra le fessure delle serrande malamente abbassate, proprio come se quella venisse accesa un secondo prima che chiudesse gli occhi.
Ma quando guardò ancora quel punto, tutto era buio.
•
Un'oretta dopo, rincasando, si sentiva ancora abbastanza sconvolto da quanto era accaduto. Non riusciva a darsi una spiegazione logica per quello che credeva di aver visto, per tale motivo decise che altro non era stato se non l'ennesima allucinazione.
Prima ancora di infilare la chiave nella serratura, sentì delle voci provenire da dentro il suo appartamento.
Quasi delle urla.
Entrò velocemente e il litigio che imperversava nel soggiorno sembrò colpirlo in pieno come un ceffone.
Corse all'interno della stanza trovando Camille in lacrime, che abbracciava i suoi figli intenti a singhiozzare, in un angolo della stanza, mentre Valentine e Malorie inveivano contro un furioso Emil.
Al giovane bastò poco per comprendere la ragione di quel litigio.
-Fate silenzio!- urlò, sovrastano per pochi millisecondi le voci degli altri.
I tre si volsero nella sua direzione.
Emil gli rivolse un'occhiata satura di rabbia, odio e si precipitò nella sua direzione afferrandolo per le spalle e sbattendolo violentemente contro la parete alle sue spalle.
Qualcuno urlò e il pianto dei bambini si fece più acuto e disperato.
-Come hai osato rapire mia figlia?- urlò Emil, avvicinando il viso a quello dell'altro.
Irèné sentì le orecchie quasi fischiare a causa di quelle urla: strizzò istintivamente gli occhi e tentò di respingere l'uomo, premendo le palme delle mani sul suo petto.
Ma la presa di Emil era ferrea, e non riuscì a scostarlo da sé neanche di un millimetro, mentre percepiva le dita delle sue mani stringerlo, quasi conficcarsi nella pelle anche attraverso gli strati di vestiti che li separavano.
-Tua figlia è scappata!- ribatté Irèné ed Emil interruppe le sue parole scuotendolo con forza, impedendogli di parlare.
-Hai messo in atto questo piano per vendicarti? Come credevi che avrei reagito se mi avessi portato via la cosa a cui tengo di più?! Hai persino reclutato le nostre madri!-
-Abbiamo già cercato di spiegarti che Irèné non c'entra nulla, Emil!- protestò Malorie: -È stata un'idea mia e di Valentine. Pensavamo che qui fosse al sicuro, lontana dal paese e da Michelle- ma il giovane parve non udire le parole della madre.
-È perché non ti ho mai detto di sì? Ti rendi conto che ti stai comportando come un bambino? Io non ti voglio! Devi lasciarmi in pace!- esclamò, tornando a scuotere Irèné.
Fabien si liberò dalla presa di Camille e corse in direzione dei due uomini: assestò un calcio a una delle gambe del moro.
-Lascia stare mio papà!- urlò con le lacrime agli occhi.
-È assurdo. Accusi mio figlio di essere un bambino, ma l'unico, qui dentro, che si stia comportando da tale sei tu. La tua presunzione ti impedisce di comprendere l'errore che stai commettendo- sussurrò Valentine e, per assurdo, le sue parole giunsero al giovane.
Mollò l'altro e si allontanò da lui di un passo, massaggiandosi la gamba.
Irèné si lasciò scivolare sul pavimento, mentre Fabien correva ad abbracciarlo, poco dopo seguito a ruota da Bèatrice e Camille.
Emil guardò la figlia, non riuscendo a comprendere il perché di quella sua reazione.
La vide rivolgergli uno sguardo d'accusa, prima di nascondere il viso contro una spalla del biondo.
-Il tuo cuore è saturo d'odio Emil. Non ti ho mai obbligato a dirmi di sì. Sono sempre stato io a risponderti così, ogni volta in cui tu hai avuto bisogno di me, mai il contrario. Mi dispiace per il tuo passato, per quello che hai dovuto subire, della solitudine con la quale hai dovuto combattere contro i tuoi demoni- Irèné socchiuse gli occhi, baciando il capo di Bèatrice, stringendo a sé i tre.
-Io sarei rimasto. Se tu me l'avessi chiesto, io ci sarei stato. Capisco la tua delusione nei confronti di tuo padre, ma sei sempre tornato da me. E hai sempre avuto ciò che volevi. Anche allora sarebbe stato lo stesso, lo sai e lo sapevi anche tu.-
Emil si guardò intorno spaesato.
Sua madre lo fissava con un'espressione così dispiaciuta da rendergli difficile reggere il suo sguardo.
Valentine era abbastanza stupita, era probabile che non avesse capito il senso delle parole figlio, che fosse all'oscuro del passato del loro ospite.
Il giovane continuò a guardarsi intorno, senza sapere cosa fare, cosa dire, come se fosse alla disperata ricerca di un appiglio.
Si fermò a guardare Irèné, ancora a terra, sprofondato all'interno dell'abbraccio dei bambini.
Percepì il proprio cuore iniziare a battere sempre più velocemente, come se stesse prendendo la rincorsa verso di loro, mentre la mente continuava a protestare, a urlare che non stava bene tutto quello.
Se avesse detto di sì ad Irèné... il suo passato avrebbe smesso di essere orribile?
La violenza che aveva subito avrebbe continuato ad essere fraintesa?
Sarebbe stata giustificata di fronte ai sentimenti che nutriva per un altro uomo?
Aveva sempre odiati gli uomini.
Aveva sempre odiato Henri.
Vincent.
Se stesso.
E per riflesso Irèné.
-Tesoro...- mormorò sua madre, avvicinandosi cauta a lui. Gli poggiò una mano su di un braccio, mentre con l'altra iniziava ad accarezzargli la schiena con lenti movimenti circolari.
Emil rimase come pietrificato, gli occhi fissi su Irèné, che contraccambiava quello sguardo, così intenso da fare quasi male.
-Non devi continuare a punirti. Non hai colpe per quanto è accaduto. Tu sei stato la vittima: nessuno, neanche tuo padre aveva il diritto di farti sentire sbagliato, come se fossi il carnefice. Hai ragione. Comprendo la tua rabbia- disse Malorie, poggiando una guancia sul braccio del figlio.
-Ma... Desideri davvero farli vincere, amore mio? Desideri davvero che continuino a violare il tuo cuore e la tua anima, impedendoti di essere felice? Perché glielo stai permettendo Emil? Perché continui a farti del male?-
Emil sembrò farsi di colpo piccolo e spaventato.
Si portò le mani al viso, cercando di nascondersi. Eppure il tremore delle sue spalle non lasciava dubbi: stava piangendo.
Irèné si alzò da terra. I bambini lo lasciarono libero di muoversi, mentre Malorie compieva un paio di passi indietro, allontanandosi dal figlio.
I ragazzini corsero dalle nonne, senza riuscire a togliere gli occhi di dosso dai due uomini.
Camille sussultò, stringendosi maggiormente a Malorie, nel sentire un singhiozzo sfuggire dalle labbra del padre, mentre gli occhi tornavano a farsi umidi.
Irèné si avvicinò all'altro, poggiò delicatamente le mani su i suoi gomiti.
Il tremore di Emil sembrò aumentare, un secondo prima che spalancasse le braccia, abbracciando di slancio l'amico, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo. Il giovane lo ricambiò immediatamente, stringendolo forte, cercando di arrivare al suo cuore, oltre i pensieri, la pelle e la paura, con tutto il suo amore.
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