10

Nei giorni seguenti, Irèné tentò con ogni mezzo a propria disposizione di ignorare quanto accaduto quella sera.

La sua impresa si rivelò più ardua del previsto.
Iniziò a essere sempre più scontroso e irascibile, come se tutti gli anni trascorsi nel tentativo di costruirsi un'immagine di sé pacata e controllata, fossero andati a farsi benedire nello stesso momento in cui aveva aperto quella busta... e tutte quelle che erano giunte dopo di lei.

Ogni sera.

Sotto la porta d'ingresso.

Il giovane aveva iniziato a passare da lì con il cuore in gola, terrorizzato di vedere spuntare quel triangolino giallo da un momento all'altro; così come temeva che uno dei suoi figli potesse arrivare a raccogliere quelle buste prima di lui.

Nonostante ciò, non era mai riuscito a beccare colui o colei che si era fatto carico di quelle consegne.
Si trattava della stessa persona che aveva orchestrato quel... cosa? Non sapeva nemmeno cosa fosse, dato che oltre le fotografie, le buste non contenevano altro, né un biglietto, né una parola che potesse aiutarlo a comprendere il perché di quanto stava accadendo.

Se Fabien oppure Bèatrice si fossero trovati con quelle orribili foto tra le mani? Cosa avrebbe dovuto fare? Come avrebbe potuto spiegare loro il... significato?

Scosse la testa.

Si guardò intorno con fare circospetto, mentre dagli altoparlanti della stazione veniva diffusa una voce di donna, che annunciava l'arrivo del successivo treno.

E se qualche suo vicino, mentre loro erano in paese, avesse raccolto e aperto la sua posta clandestina?

Non che i suoi vicini gli avessero mai causato grandi problemi, ma quella situazione gli stava creando un disagio così grande, da fargli temere e dubitare di tutti coloro che lo circondavano.

L'artefice delle lettere doveva essere una persona che lo conosceva, o quanto meno, che lo seguiva da un bel po'.

Da almeno un anno e mezzo.

E lui non si era accorto di nulla.

Salì sul treno stringendo la manina di Bèa nella propria, tirandosi dietro il trolley, mentre con gli occhi seguiva Fabien camminare davanti a loro in cerca di tre posti.

Se davvero quella persona lo conosceva, sapeva che non sarebbe stato in casa durante il weekend: magari avrebbe sospeso l'invio delle lettere.

Arrivarono a Provins in tarda mattinata e trovarono Edith ad attenderli in stazione.

-Ciao, fratellino!- esclamò la giovane, cingendogli il collo con le braccia.
Irèné si irrigidì, senza riuscire a ricambiare l'abbraccio della sorella.

Edith si scostò un po' da lui, fissando gli occhi scuri in quelli chiari del fratello: aggrottò la fronte, rendendosi immediatamente conto che qualcosa non andava.

Il giovane cercò di smorzare i sospetti dell'altra con un sorriso, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo, mentre la pelle tirava sulle guance, facendogli tremare le labbra.

Edith salutò i nipoti, prese in braccio la piccola Bèa.
Uscirono dalla stazione mantenendo un silenzio strano, mentre Fabien faceva scorrere lo sguardo tra entrambi gli adulti, sempre più confuso da quel loro atteggiamento.

Sua zia era sempre stata una ragazza allegra: fin dal loro primo incontro, aveva cercato di conquistarli con la sua gioia, nel tentativo di rompere ogni imbarazzo e diffidenza con i suoi modi di fare un po' pazzerelli.
Vederla tanto cupa e triste agitava il bambino, che non era in grado di capire il perché di tutta quella tensione. La sentiva come scivolare sulla propria pelle, accellerandogli i battiti del cuore, rendendo i respiri più brevi, senza che fosse in grado di dare un nome a tale emozione. Eppure, la stava vivendo, forte e vera, mentre i "grandi" continuavano a ignorarlo, chiusi all'interno dei loro pensieri.

Il viaggio in auto verso la casa dei Laurant passò alla storia come quello più silenzioso in assoluto: non venne pronunciata una sola parola durante il breve tragitto, mentre anche la piccola Bèatrice iniziava a risentire di quella atmosfera poco piacevole.

Iniziò a fare capricci, senza trovare soddisfazione nelle rassicurazioni del padre, piagnucolando tra le sue braccia.

Quando, finalmente, giunsero a destinazione, i bambini scesero dall'auto di corsa, andando incontro ai nonni che li attendevano sul patio. Si aggrapparono a Valentine e da lei non si scollarono più.

-Vuoi dirmi che sta succedendo?- domandò Edith, rallentando il passo in direzione della casa, poggiando una mano sul braccio del fratello, invitandolo a fermarsi nel giardino per parlare un po'.

I genitori di entrambi captarono quel piccolo movimento da lontano, si scambiarono uno sguardo complice e decisero di precedere i due giovani dentro casa, portando con loro i bambini.

Irèné si strinse nelle spalle.
-Sai se Emil è in paese?-

Edith sgranò gli occhi, sorpresa da quella domanda.
-Perché ti interessa saperlo? Credevo che non volessi più avere a che fare con lui-
-Ho bisogno di chiedergli una cosa-
-E cosa mai potrebbe esserci di così terribile da portarti a parlare ancora con lui? Ero certa che non volessi più avvicinarti al bel falconiere, non dopo quello ch'è accaduto tra di voi quando eravate ragazzini-

Il giovane notaio deglutì un paio di volte. Sentì le labbra farsi secche, quasi incollarsi tra di loro.
Non voleva affrontare quell'argomento con la sorella, ma non aveva grandi alternative. Aveva bisogno di aiuto, di quello era certo.
Si rendeva conto di sentirsi ancora come quel ragazzino di quindici anni prima: solo e incompreso.

Ma aveva due figli. Era anagraficamente un adulto. Non poteva permettersi di mollare ogni responsabilità per dedicarsi alla risoluzione del suo problema.

Sospirò e si decise a condividere il suo segreto almeno con Edith.
Fece per aprire bocca, ma vide la sorella trasalire, mentre qualcuno gli poggiava una mano su di una spalla, richiamando la sua attenzione.

Irèné sussultò e si voltò.
Alle sue spalle trovo Emil e percepì il sangue come gelarsi nelle vene.

-Che ci fai qui?- mormorò stupito.
-Sono venuto a portare Camille- rispose quello, senza allontanare la mano dalla spalla dell'altro.

Da dietro il padre sbucò fuori la giovane Camille: incrociò le braccia sotto il piccolo seno, mentre sul viso le si dipingeva un'espressione carica di disappunto.

-Volevi vedere lui- disse, mentre le guance le si facevano rosse di rabbia.
Emil scosse la testa.
-Non dire assurdità e vai da Valentine, ti starà aspettando. Torno a prenderti tra un paio d'ore.- le rispose l'uomo e la ragazza scosse la testa risentita, superando i tre e dirigendosi con passo marziale verso il patio.

Edith fece saettare lo sguardo tra i due, scosse la testa indecisa se essere sorpresa, preoccupata o felice per quell'inaspettata novità.
Non voleva che suo fratello soffrisse ancora a causa di quell'uomo, ma sapeva benissimo quanto Irèné fosse innamorato di Emil, nonostante lo scorrere del tempo, nonostante tutto quello che gli aveva fatto passare.

La paura di commettere un madornale errore di valutazione la teneva come inchiodata sul quadratino di terra che la ospitava, facendola oscillare nell'indecisione.

Alla fine, Emil sembrò decidere per tutti.
-Ho bisogno di parlare con te. Ti andrebbe di prendere un caffè a casa mia?- chiese, rivolgendosi a Irèné, ignorando completamente Edith.

Irèné sentì il cuore accelerare i battiti e un terribile dubbio iniziò a prendere forma nella sua mente: se fosse stato proprio Emil a mandargli quelle fotografie?

Non riusciva a comprendere che senso potesse avere tutto quello, dopotutto, se fossero venute fuori, sarebbero potute divenire un problema anche per lui.

Ma Irèné lo sapeva: non conosceva più Emil, non aveva idea di che tipo di uomo fosse diventato negli ultimi anni e tutte le ipotesi che si era costruito a riguardo, erano appunto... delle ipotesi, senza un minimo di fondamento.
Totalmente campate per aria.

Trasse un profondo respiro.
-Va bene- disse.

Si congedarono da Edith e prese a camminare in direzione dell'abitazione di Emil.

Inaspettatamente, il tragitto fu molto breve, e si fermarono a meno di cento metri dall'abitazione dei Laurant, senza abbandonare la via in cui, quella, si erigeva.

Il giovane aggrottò la fronte.
-Non vivi con Malorie?- domandò.
Emil scosse la testa.
-Mia madre non sopporterebbe convivere ancora con il suo sciagurato figlio. Almeno, così mi disse due anni fa, dopo il mio... quarto?- aggrottò la fronte. Rimase in silenzio qualche secondo, prima di tornare ad avere un'espressione impassibile, riprendendo a parlare: -Quinto rapporto andato in malora. Era già abbastanza infastidita che fossi corso a cercarmi qualcun altro dopo il mio terzo divorzio. Da allora non abbiamo più una relazione madre e figlio degna di questo nome-

Irèné seppe di essere impallidito a quelle parole: era geloso e quello, di per sé, pensava fosse già assurdo. Senza contare quanto quella parte della vita di Emil gli restituisse un'immagine dello stesso fragile e disperata... il ché, era sicuro, non aveva molto senso.

La casa di Emil non era molto grande: si apriva all'ultimo piano di una palazzina che ne contava appena tre. A comporlo trovò lo stretto indispensabile: l'ingresso introduceva a un unico ambiente che fungeva sia da cucina che da soggiorno, e all'interno del quale si aprivano tre porte e due piccoli balconi.

L'appartamento era arredato in modo minimalista, non c'era nulla che non potesse vantare una funzionalità necessaria alla vita di una persona. Eppure mancava quel calore tipico di una casa: niente fotografie, niente quadri, niente cuscini sui divani, neanche una tenda alle finestre. Non c'erano soprammobili né oggetti che facessero pensare che lì dentro vivesse anche una ragazzina di undici anni.

-Passi molto tempo in albergo?- domandò il giovane ed Emil gli rispose con un gesto annoiato della mano, mentre apriva un mobiletto affisso nella parete sopra il lavandino, estraendo una teiera.
-Non so cosa ti abbia detto tua madre, ma questo è l'albergo. Caffè non ne ho, va bene del tè?-

Aggrottò la fronte.
-In che senso?-
-È un bed and breakfast come tanti. Ho sistemato i primi piani, adeguandoli a tale uso e vivo qui su con Camille.-
-Ah-
-Che ti aspettavi? Siamo a Provins. Non hanno senso grandi alberghi-
-Probabilmente, hai ragione-

-Allora... tè?- chiese, ancora, Emil.
Irèné scosse la testa guardandosi intorno.
-Bene. Perché mi ero già stancato di questa recita- continuò il moro, tornando a fissarlo, incrociando le braccia sul petto.
Irèné sussultò, stranito da quel repentino mutamento che aveva captato nel tono di voce del suo ospite.

Emil appoggiò il fondoschiena contro il ripiano di marmo bianco della cucina, allungò una mano verso il primo di una sfilza di cassetti che si aprivano nella parte anteriore del mobile alla sua sinistra.

Estrasse un plico di buste e lo lanciò, senza aggiungere altro, sul tavolo posto a pochi centimetri di distanza da lui.

Irèné deglutì: erano tutte gialle e grandi tanto quanto una cartolina.

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