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Arrivo in gelateria alle dieci, giusto in tempo per il turno.
Non c'è tanta gente così mi metto a pulire il bancone e a spazzare il pavimento. Mi sorprendo come le persone riescano a mangiare il gelato anche in inverno, io da quando lavoro qui non lo mangio più nemmeno in estate.
"Tani che brava, oggi sei di pulizie?" scherza Larry.
"Mi tengo impegnata."
"Pensavo che magari potremmo assumere una nuova dipendente quest'estate. Sai da giugno ad agosto qui si lavora molto soprattutto quando mettiamo i tavolini fuori."
"Mi sembra una bella idea, ne hai parlato con Gabrielle?"
"Non è molto d'accordo perché dice che questa è una gelateria a gestione famigliare e non le fa piacere assumere altre persone." sbuffa.
"Famigliare? E io?"
"Tani lo sai, per noi sei come parte della famiglia."
Mi viene da piangere quando dice così e Larry lo sa quindi mi abbraccia.
"Che succede? Tesoro che c'è?" mi domanda Gabrielle.
"Niente Gaby, vi voglio bene. E penso che l'idea di prendere qualcuno per l'estate non è poi tanto male."
"Gliene hai già parlato Larry? Sbaglio o dovevamo dirglielo insieme?" lo sgrida lei.
"Le sta bene l'hai sentita. Non farti paranoie Gabrielle."
"Paranoie per cosa?" domando io.
"Niente cara." risponde Gabrielle.
"Non voglio che mi trattiate con i guanti, sto bene."
Sto bene. L'ho detto così tante volte che non le so nemmeno contare. Sto bene. Starò mai bene davvero?
Alle quindici sono di nuovo in ospedale, saluto Michelle, l'infermiera di turno e vado da David.
Oggi non ho voglia di parlare, accendo la tv e metto i cartoni animati, a lui piacevano molto e ormai mi sono abituata anche io a guardarli. Mi siedo e mi metto a seguire Le avventure del fantasma Jo.
Alla fine dell'episodio vado in corridoio a prendere un the alle macchinette, prima di tornare in stanza vedo due uomini in divisa. Si dirigono verso la guardiola, poi escono, sono poliziotti. Michelle è dietro di loro e io mi sento come paralizzata, non riesco a muovere un muscolo e il the mi cade.
"Tanisha sai male?" mi domanda lei.
La sento come un suono lontano, un ronzio.
"Signorina è lei Tanisha Wilson?" mi chiede un poliziotto.
"Sì, servo questo gelato e sono subito da lei." rispondo sorridendo.
Porto il gelato crema e fior di latte a una signora seduta al tavolino poi torno dietro al bancone per ascoltare il poliziotto.
"Mi dica pure." dico gentilmente.
"Forse è meglio se si siede signorina..."
"Perché? Così mi fa preoccupare, che è successo?"
Sento il cuore in gola.
"Signorina la sua famiglia ha avuto un incidente stradale sulla statale sud."
"Cosa?" grido.
"Sì... suo padre è morto sul colpo, sua madre e suo fratello sono stati trasportati d'urgenza in ospedale."
Ricordo le grida che facevo, le lacrime calde che scendevano sul mio viso. Mi sentivo impaurita, terrorizzata, spaesata, in un incubo.
"Tanisha guardami! Sono io, Michelle." grida Michelle in ginocchio di fronte a me.
La mia testa è fra le sue mani, anche i due poliziotti sono di fronte a me e cercano di farmi riprendere.
Non riesco a trattenere le lacrime, piango disperata tra le braccia della ragazza che da mesi mi vede crollare in quel modo di fronte alla vista della polizia.
"Andate pure, ci sto io con lei." la sento dire ai signori in divisa.
"Vieni con me, andiamo in guardiola che ti rifaccio il the." mi dice dolcemente.
Mi siedo in una delle sedie intorno alla lunga scrivania e inizio a giocherellare con una penna blu. Michelle si siede vicino a me e mi porge un bicchiere di plastica bianco con all'interno il liquido caldo.
"Mi dispiace per ciò che è successo..." dico prima che lei possa aggiungere qualsiasi cosa.
"Non è successo niente, stai tranquilla. È comprensibile con tutto quello che stai passando e a proposito... noi abbiamo fatto una riunione e pensavamo di parlartene tutti insieme ma dato che ora il reparto è tranquillo posso dirti tutto io."
"Di cosa stai parlando? Riguarda David?"
"No, riguarda te Tanisha. Come sai il nostro è un reparto complicato per i pazienti ma lo è molto anche per i famigliari quindi già da qualche anno c'è la presenza di una psicologa. Viene una volta..."
"Guarda che io non sono pazza, non ci vado dalla strizza cervelli." La interrompo perché so già dove vuole arrivare.
"Tanisha lasciami finire. È importante. Dicevo... viene una volta alla settimana, il mercoledì ma è sempre reperibile sul cellulare. Molti parenti la trovano di grande aiuto per l'elaborazione del lutto o della fase comatosa dei loro cari, inoltre svolge un percorso che dura tutto il tempo necessario, alcune persone hanno continuato a vederla nel suo studio anche dopo la dimissione di chi avevano ricoverato qui. Noi come equipe pensiamo che dovresti incontrala, almeno provaci."
"Ci penserò, grazie per il the." mi limito a dire.
Prendo il bicchiere, finisco il the e lo getto, poi prendo le mie cose e vado da David.
"Scusa se sono rimasta poco oggi, ti prometto che domani mi fermerò di più. Devo tornare a casa. Ciao piccolo."
Gli do un bacino sui suoi ricciolini ramati e vado verso l'uscita.
Quando è nato sembrava biondo, poi man mano che cresceva si assomigliava sempre di più a me. Abbiamo gli stessi ricci e gli stessi occhi nocciola, a volte penso che se fosse nato femmina sarebbe stato la mia sosia in miniatura.
Come sempre, do uno sguardo nelle altre camere mentre attraverso il corridoio e noto che il ragazzo della prima stanza è ancora solo. Mi fa tristezza vederlo sempre qui tutto solo e c'è qualcosa che mi spinge a volerlo vedere in viso. Mi avvicino al letto e lo osservo, è pieno di lividi e ha molte fasciature che lasciano intravedere i capelli rasati sottostanti, mi chiedo cosa gli sia successo.
"Conosci Mark?" mi coglie in flagrante il dottor Scott.
"Io... in realtà no. Mi scusi dottore me ne vado subito."
"Non puoi entrare nelle stanze dei pazienti. Stiamo cercando di venirti incontro ma ci sono delle regole da rispettare." risponde il dottore.
Mi scuso nuovamente e me ne vado più velocemente che posso.
Prima di salire in casa, passo dal giornalaio e compro un libro per bambini. Mi sento in colpa di aver trascorso così poco tempo con David quindi domani gli leggerò qualche pagina.
Mi siedo sul divano e ascolto i messaggi nella segreteria del telefono. Ce n'è solo uno, di Larry, che mi informa che la gelateria rimarrà chiusa domani e che mi ha trovata irraggiungibile al cellulare.
Irraggiungibile? Come mai?
Inizio a cercare il mio cellulare, non ricordo l'ultima volta che l'ho usato: forse la settimana scorsa o poco prima. O forse un mese fa, quando ho smesso di rispondere ai messaggi di condoglianze.
All'improvviso mi sale l'ansia. Se all'ospedale avessero bisogno? Loro hanno il mio numero di telefono come contatto e il mio cellulare è chissà dove, devo trovarlo.
Ed è proprio in questo momento che mi guardo attorno per davvero. La casa è un disastro, ci sono cose ovunque, resti di cibo abbandonati sul tavolino della sala, sul pavimento, vestiti sporchi buttati insieme a quelli puliti, polvere, confusione...
Casa mia è lo specchio di come mi sento dentro: sola, impaurita, confusa, ansiosa. Sottosopra.
Vado in camera mia e, dopo tanto tempo, la vedo sul serio.
Ci sono cornici rotte sulle mensole e tutto buttato dove capita, come se fossero passati i ladri. Io vorrei conoscerli e vorrei chiedergli perché, di tutto quello che potevano rubare, hanno deciso di portare via la mia famiglia.
Cammino lungo il corridoio e apro la porta della camera dei miei genitori, qui è rimasto tutto com'era, con solo un po' di polvere in più.
Tiro su il cuscino e prendo la camicia da notte della mamma, sento il suo profumo e mi vengono i brividi e un nodo alla gola. La piego e la risistemo dove l'ho presa. Faccio la stessa cosa con la maglietta del papà e non riesco a trattenere le lacrime.
Mi appoggio alla porta e mi lascio scivolare giù, senza forze, non riesco più a combattere contro tutto, non ce la faccio più.
Il telefono di casa inizia a squillare e lo sento lontano, sempre di più, il suono va svanendo e dopo poco sparisce.
Quando mi sveglio sono le sei del mattino mi rendo conto di aver dormito per terra, ero esausta, lo sono ancora.
Mi alzo e vado in bagno.
Alzo il viso verso lo specchio e quella che vedo non sono io.
Ciò che rimane della ragazza che ero, sono dei ricci ramati, crespi e scompigliati, sopracciglia folte, un colorito pallido tendente al grigiastro e delle occhiaie pronunciate.
Dovrei lavarmi e forse togliere qualcosa dal pavimento che ci sono i mucchi di rifiuti. Ma chissene frega, qui non viene nessuno, qui ci sono solo io.
Mi lego i capelli ed esco.
Quando arrivo in ospedale mi viene incontro Tania.
"Tani ciao." mi saluta sorridente.
Io di sorridere a lei non ne ho voglia, non voglio sorridere a nessuno.
"Ciao." dico fredda.
"Ho saputo che ti hanno detto della dottoressa Martinez."
"Chi?"
"La psicologa." mi ricorda.
Ah sì, la psicologa.
Annuisco.
"Hai bisogno di aiuto Tanisha. Lo sappiamo e lo sai anche tu, non sarai una sorella peggiore se ti fai aiutare a gestire la situazione." è seria, anzi, non l'ho mai vista così seria da che la conosco.
"Io non sono pronta per parlarne..."
"È una brava dottoressa, ti aiuterà vedrai."
"L'unica cosa che mi potrebbe aiutare sarebbe riavere indietro la mia famiglia e non si può quindi smettila di dire stronzate. Tu non sai cosa significa essere soli al mondo quindi non dirmi cosa può o non può aiutarmi!" urlo con tutta la forza che ho prima di rendermi conto che sono in reparto, davanti alla stanza di David.
Tania sta zitta e fa cenno al dottor Scott che è tutto a posto.
"È vero, io non so cosa significa non avere più una famiglia ma voglio farti una domanda. Se tuo fratello si risveglierà dal coma, avrà bisogno di te, ma tu sarai in grado di aiutarlo in queste condizioni? Tanisha non ti prendi cura nemmeno di te stessa, come puoi prenderti cura di lui?"
"Io prendo cura di me stessa..."
"Puzzi, indossi quei vestiti da giorni e quando è stata l'ultima volta che hai mangiato?"
"Io... non me lo ricordo, forse ieri..."
"Se non vuoi farlo per te, almeno fallo per lui."
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