VIII. PREZIOSE MANI - 1. Mani zitte
Sono preziose le mani.
Abbiatene cura!
(Ph: La mia mano)
Dove sono finite le mie mani? Zitte, come la bocca che s'apre solo per mangiare, stanno inermi sotto un lenzuolo di cotone bianco lavato a sessanta gradi, inutili come questa coperta di lanetta marrone tirata su fino al collo: il freddo m'è dentro; i fuochi di multiformi passioni non riescono a scaldarmi da che non possono zampillare al di fuori, attraverso gli occhi, i vocaboli o i movimenti delle mani.
Queste mie mani! Ferme. Che non servono più a niente.
Sono preziose le mani. Abbiatene cura!
Esse costruiscono case e relazioni, dirigono orchestre e viandanti smarriti, accarezzano cuori affranti; applaudono "Mi piace!" che rimbombano di entusiasmo, erigono barriere in fermi "Non mi toccare". Con le mani puoi mandare tutti a quel paese: quante volte l'ho fatto, seppure di nascosto!
Che siano discorsi ricchi in grammatica e sintassi o gesti minimali, le mani parlano.
E io... Sono così stanca!
Sono stanca di non potermi esprimere, di non poter dire la mia, cosa voglio, cosa so e quanto comprendo o rammento.
A volte i pensieri sembrano divergere e perdersi in labirinti senza uscita, in spirali che non hanno inizio né fine. Riacciuffo le idee prima che cadano nel nulla. Riprendo dal principio i ragionamenti cercando di giungere alle stesse conclusioni. Fisso i ricordi reiterando tra me e me il riverbero dei fatti che ascolto o i residui di quelli che ho vissuto.
Perché ho paura di perdere le une e gli altri, ritrovandomi non più così giovane come vorrei. Come Povera Zia Tina che diventò anziana a poco a poco, cominciando col confondere i giorni, troppo uguali gli uni agli altri, e i nomi dei nipoti.
Io i nomi dei miei nipoti li so bene uno a uno. Walter l'ho scelto io: era il nome del mio divo favorito. Gli altri li ha scelti Walter, «Per non essere l'unico ad avere un nome straniero»; tranne Myriam, per ovvi motivi, e Lucilla, a cui Mattia teneva, «Perché è l'unica cosa che ho di lei, insieme a quella fotografia».
Ogni sera recito le tabelline e Trenta dì conta novembre, rifletto sulle notizie giunte dal mondo esterno, tramite la tv o portate da chi qui lavora o viene in visita. Non comunico, ma non sono rimbambita, mi tengo in allenamento.
Oggi è martedì: lo so perché è il giorno in cui Norina riceve quella visita che le fa colorire le guance.
Con tenerezza e una punta d'invidia, guardo la mia compagna di stanza che si mette il rossetto e il profumo al mughetto; stornella sotto voce e aspetta quelle labbra che baceranno le sue labbra, quelle mani che stringeranno le sue mani.
Lo spazio attorno si farà cornice a forma di cuore da cui resterò esclusa. Provo a estraniarmi, a salire sul mio palco punteggiato di stelle posticce, a tornare da voi, cari amici dei miei monologhi non più solitari, a narrarvi di quei giorni in cui la bravura dei Cipì aumentava di pari passo al desiderio di Alex.
Ma... non riesco a concentrarmi: c'è un'inconsueta elettricità che mi fa rizzare i peli delle braccia.
O forse è l'età. O il cortocircuito nel mio cervello.
Mi scuserete, spero, se passo di palo in frasca e non spiego bene le cose. Il mio arzigogolare non è privo di logica.
Nei ritagli di tempo in cui i miei ragazzi si sedevano sulla sdraio sotto al portico o nelle poltrone del mio salotto, quel che a me premeva era captare non tanto i fatti, le informazioni, ma le emozioni.
Essi raccontavano ciò che accadeva loro, di fuori e di dentro, il mio torace se ne faceva cassa di risonanza, e se ora vi sembrerà inverosimile che io conosca anche i rumori e i colori che abitavano l'animo di Alex o quello di Godfried, è solo perché mi furono rivelati poi.
Io assorbivo la loro vitalità che tanto contrastava col mio essere immota. Ascoltavo e guardavo. Mi nutrivo delle loro parole e dei loro gesti. Attraverso di loro animavo la mia esistenza piatta di sguardi fatui e minestrine insipide.
Non ero nelle condizioni di elargire encomi o dispensare consigli; ma loro davano prova di conoscermi bene, se il più delle volte le mie risposte erano in grado di darsele da sé.
Per loro, semplicemente, stavo.
Per me, erano pane quotidiano. E sale e pepe.
Gioivo del loro entusiasmo. Mi dolevo di dubbi e delusioni. Godevo del loro stesso piacere.
Anche ora è così. Qui dove vivo, non c'è posto per l'espressione di certe intime pulsioni. Non per me, che riesco a malapena a comunicare con piccoli movimenti e brontolii. Né per chi mi sta attorno.
Non voglio negare le cure che riceviamo, balsamo per il corpo e per la mente; ci fanno mangiare, bere, e dormire bene, ma c'è poco spazio per lo spirito; ancor meno per il sesso. Ingrediente impreteribile per il nostro benessere, non è considerato: non è nel menù, non è nella liste delle terapie, azzerato, come non fosse mai esistito.
Forse perché abbiamo una certa età; forse, nel mio reparto, perché siamo donne. Per cultura, educazione, religione o non so che cosa, per esempio, a noi quel uso della mano non è concesso; anzi, direi che non è per nulla annoverato.
Eppure com'è importante esplorarci, per sapere come siamo fatte, scoprire su di noi, in noi, rotondità, cunicoli o avvallamenti, le ciliegine sulle torte, il bottoncino del piacere; per conoscersi a fondo, capire come funzioniamo, stare meglio nell'intimità a due, o anche per bastare a noi stesse, coccolarci, farci passare il mal di testa!
Non esistono stanze singole, qui. In bagno non puoi stare più di qualche minuto che già son dietro alla porta: «Serve un clistere?»
È frustrante. Che sia per questo che siamo spesso nervosi, se non depressi, abulici, sottomessi?
A me le mie mani mancano tanto.
"Anche le tue, amore mio! E le tue labbra su di me."
Per fortuna ho la fantasia. E i miei splendidi ragazzi.
Torniamo a loro, dunque, alla crescita in ambito musicale, alle rivoluzioni dei guardaroba, ai bronci e ai desideri, alle disillusioni.
Su questa pedana di metallo, sparsi ai miei piedi, stanno spartiti, grammofoni, travestimenti, costumi di scena, insegne al neon, pacchi, valigie e custodie per strumenti. Saranno portati via da un allegro ciuf ciuf i cui fischi ne annunceranno l'arrivo tappa dopo tappa, fino al ritorno.
Una figura flessuosa osserva da sotto una pensilina. Il suo non è un restare indietro; anch'essa ha il suo treno, che incede lungo un binario parallelo. Sa che c'è tempo per incontrarsi tutti alla stessa stazione. Una voce da dentro la sua pancia la rassicura.
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