PROLOGO


QUEL GIORNO

Scarpe da running bianche

riverse a dorso in giù sull'asfalto bagnato: 

un lampo nella mente, uno squarcio nel cuore



Le luci nelle stanze sono spente. Restano quelle in fondo al corridoio; le vedo agonizzare sul pavimento in resina fin davanti l'uscio: le porte, qui, non si chiudono mai. Non giungono rumori; i miei gemiti e i rantoli della mia vicina di letto sincopano un ritmo lentissimo nell'accompagnarci verso il mattino.

Dovrei dormire. Le goccine tardano a fare effetto: quando passano a controllare, mi fingo assopita, allora non aumentano la dose.

Lancio lo sguardo al di là della finestra sbarrata, alla ricerca d'altri ambienti, d'altri tempi; la natura si mostra amica, mi viene incontro; m'inganna e mi porta dove non vorrei.

La pioggia picchietta sui vetri e nelle mie tempie. Un fulmine taglia a metà l'oscurità profonda della notte, mi ferisce gli occhi. Il tuono che ne consegue, rimbomba sopra i tetti e setaccia tra i ricordi. È un flash, la scena che n'emerge; m'attanaglia la gola.

Quel che ho visto, è di nuovo davanti a me; quel che m'hanno detto, lo immagino.


Accadde tutto in pochi minuti, sotto il cielo plumbeo di Milano, nel pomeriggio in cui mi portarono qui, il terzultimo giorno d'un anno bisestile tanto difficile per tutti noi.

Thomas piange ancora, quando ci pensa. Era Giovedì: il giorno di Sally. I sedili posteriori dell'auto erano intrisi del suo odore, benché fossero stati spazzolati con cura. Mentre Mattia m'allacciava la cintura di sicurezza, pensai con nostalgia al suo muso bianco e nero che sembrava sorridere e mi faceva stare tanto bene, anche se c'incontravamo solamente una volta a settimana. Rivedevo i suoi occhi nei miei, il suo naso toccare il mio. Poche ore prima c'eravamo salutate con la promessa di ritrovarci presto: non avevamo parlato, no! Non avremmo potuto; ma c'eravamo guardate e lei aveva scodinzolato vivace come a suggellare il nostro patto. Quando Mattia aveva messo in moto, l'avevo sentita guaire appena; stavo andando via, per qualcuno c'ero già da tempo, in un antro arcano in cui nessuno riusciva a raggiungermi.

Pioveva tanto. Per le strade del centro c'era un traffico pazzesco, non s'arrivava mai. Davanti allo Strehler, a parecchi giri di ruota da noi, una monovolume sbandò.


Lo stridore dei freni arrivò tanto improvviso quanto assordante, come il tonfo ripetuto di masse di metallo che s'urtavano e il suonare isterico dei clacson. 

Poi le urla.

Arrabbiate: «'Azzo fai!»

Oscene: «Guarda sta troia».

Preoccupate: «Ci sono feriti?»

Compassionevoli: «Poveri ragazzi».

Fu tutt'un susseguirsi di gesti: un dito medio alzato, un paio di corna; di odori: gomma bruciata, asfalto bagnato; di rumori: sbattere di portiere, ticchettio di tacchi a spillo; di parole: cacofonia d'intreccio d'idiomi diversi che Mirko udiva appena. 

A terra, stordito, cercava di guardarsi attorno; un uomo in frac lo teneva fermo. Dopo un tempo infinitamente lungo, riuscì a scorgere la ruota anteriore del suo motorino e due scarpe da running bianche, qualche metro più in là. 

Quanto saranno rimaste su quello scaffale, in un Centro Commerciale fuori mano, lo stesso che ora vedo dalla vetrata della sala comune? Scarpe da uomo, d'adulto, "Da grande", di due o tre stagioni precedenti, "Immacolate, ammortizzate, impermeabili, belle"; identiche alle sue: "Fa che non si siano rovinate troppo! L'ha desiderate così tanto!"

Erano state il regalo di Natale più inatteso e sperato, ricevuto qualche giorno prima durante l'annuale pranzo di famiglia; a volte sembra che Walter sappia leggere nel pensiero. Stavano allacciate al loro posto intorno a calzettoni di cotone grigio; non un accenno di movimento, un tremore o uno spasmo: il collo ruotato verso destra, Mirko non smetteva di fissarle.


«Un incidente! Un incidente terribile!» avvisava una donna gesticolando di qua e di là a beneficio dei conducenti appena sopraggiunti.

«Qui ci è scappato il morto!» Una barista accorse con un inutile bicchiere d'acqua.

S'avessi potuto, avrei approfittato del trambusto per aprire la portiera e fuggire. Non sapevo che il peggio doveva ancora arrivare e non aveva niente a che fare col mio trasferimento.

A passo d'uomo, le mani salde sul volante, Mattia riuscì a svicolare, imprecando e pregando tra sé che tutt'i ragazzi fossero rientrati.

Attraverso il finestrino appannato, mi concentrai sui giovani che camminavano nella direzione opposta alla nostra.

"Chissà cosa danno a teatro stasera", pensai per non pensare.

Un movimento attirò la mia attenzione; in seno percepii qualcosa di strano. Quella notte non sarei andata a letto tranquilla. Non solo perché questa non era, non ancora, la mia casa; la chiamano Albergo, a me sembra un ospedale.


Misto a pioggia e gas di scarico, Mirko avvertiva l'odore del sangue, ma non provava dolore. Da dieci minuti che sarebbero potuti essere tre oppure trenta, chiedeva notizie, allungando il capo verso la sagoma immobile di cui riusciva a vedere soltanto i piedi. Fece per alzarsi, mani estranee glielo impedirono. Un tranviere tentava di ripararlo dall'acqua e da occhi indiscreti. Nessuno rispondeva alle sue domande. 

«Mi chiamo Mirko, ho sedici anni», disse, prima di svenire.


Mi venne il singhiozzo, mentre l'auto imboccava una traversa e riprendeva velocità. Mattia accese la radio, forse nell'intento di distrarmi; la spense dopo il primo minuto di pubblicità: distoglieva lui dalla guida. Gli occhi attenti a guardare avanti e a destra e a sinistra, ruggì:

«Ghiaccio! Roar! 

Spirito puro bianco e lucente! 

Roar! Bobombobò. Roar!»


Cercava di riempire quel senso di vuoto che cominciava a condensarsi nel suo addome, appena sotto la cassa toracica; lo stesso senso di vuoto che s'andava condensando nel mio addome, sotto il diaframma.

Il mio futuro prossimo era un mistero. Un nugolo di "Non so" mi ronzava nella testa:

"Non so dove sto andando o cosa mangerò stasera; se potrò vedere la tv e a che ora dovrò andare a dormire. Non so dove potrò tenere - le potrò tenere? - le due fotografie, fatte su col pluriball, nel tascone della valigia; s'avrò un mio armadio o una cassettiera. Non so... Quante cose non so!"

L'acqua che batteva sui vetri sporchi dell'auto scandiva i miei pensieri, li divideva in sillabe, li scombinava e riassemblava, dava loro la sua forma liquida, affinché potessero scorrere via.

Due sirene squarciarono l'aria satura di smog e umidità alternandosi nell'ordinare ai tram, agli autobus, alle auto e alle persone accalcate sui marciapiedi: «Largo, fate largo!»

Mattia prese il cellulare.

"No! Non si fa!" avrei voluto sgridarlo, come quando era bambino e combinava una marachella, "Non si telefona mentre si guida!"

Come se m'avesse sentito, lo posò sospirando: ne aveva di motivi per stare in allerta e, tra questi, io ero il minore.

Sospirai a mia volta.

"Su, coraggio, vecchia pellaccia dura! Non è il momento di piangersi addosso. Testa ben alta e petto in fuori", imposi a me stessa.

Spazzai via dalla mente i meno rosei scenari, chiusi gli occhi, e mi chiesi chi potesse essere l'assassino: 

"Il più insospettabile? Oppure, banalmente, il portiere di notte?"


La folla andava moderatamente scemando. Le voci mormoravano sommesse. I telefonini scattavano fotografie senza flash. Quando le sirene si fermarono, la sagoma immobile, riversa a dorso in giù sull'asfalto a pochi metri da Mirko, respirava ancora. Dal suo cellulare uscivano smorzate le dolci note di Ghiaccio, brano inedito dei Crystal Piglets con Alex Au79.


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