8. I pensieri di Nicolas, l'apatia di Mirko
Scorreva, seguendo il suo andamento naturale, scandito dai meccanismi degli orologi, dal susseguirsi dei programmi alla tv, dal variare delle luci e delle ombre attorno agli alberi; eppure sembrava non andare da nessuna parte, come girasse intorno. Sospeso. Ancora. Il tempo. Come Jacopo.
Sonno e veglia, alti e bassi di ormoni nel sangue, la temperatura corporea che si alzava e abbassava; ognuno aveva ripreso le proprie attività, un ritmo ordinato e invariato, ma nulla era più come prima.
Era attesa, che diveniva azione.
Era vuoto, che si riempiva di incontri.
A nessuno piacevano più la solitudine e il silenzio.
Neanche a Nicolas.
Dalla finestra della sua camera, guardava la pioggia irrigare gli orti al suo posto.
Mezzora ancora e avrebbe cenato con Sergio e Mirko e magari guardato un varietà.
I minuti scorrevano lenti come le gocce sui vetri, rendendo veloci i pensieri; ne avrebbe deciso lui la direzione, affinché facessero meno male.
S'era trasferito a La Fattoria per aiutare Sergio con quei lavori di campagna che aveva sempre disprezzato, ma che stavano offrendo una valvola di sfogo fisica e psichica.
Thomas, ancora a casa di Alex, stava preparando la tesi di laurea, "Forse per convogliare i pensieri su qualcosa che non sia il sonno di Jajo".
William aveva ripreso il lavoro e i preparativi per il matrimonio: "È il suo modo per scongiurare la malaventura".
A rotazione, i suoi fratelli andavano a La Fattoria, perché: «Insieme si fa prima e meglio».
"Anche Walter, col marito che non c'era stato mai. Che comici, becco a becco come quei pappagallini che non possono stare l'uno senza l'altro."
Godfried gli avevano chiesto di vedere il Rifugio ed era come se avesse scoperto il Paese dei balocchi. Aveva guardato, domandato, provato tutti gli strumenti a percussione per saggiarne la differenza. Poi era tornato, con o senza Walter, s'era lordato le mani e gli abiti spalando nella porcilaia e aveva raccolto salvia o rosmarino. Dopo una lavata e una fetta di torta, aveva voluto provare qualche altro strumento; insieme avevano improvvisato brevi lezioni teoriche e pratiche.
"Se ne intende di musica, il tulipano, chi l'avrebbe mai detto."
Stava entrando nella nostra famiglia non più come commensale fortuito, imparando a conoscere angoli del mondo di Walter dai quali s'era tenuto volutamente alla larga, stabilendo un contatto vero con le persone che l'abitavano. Non era un caso che avesse cominciato da lui: entrambi ci mettevano un po' a entrare in confidenza.
"Non è tipo da mettersi in mostra, ma forse anch'io non l'ho guardato mai con interesse, considerandolo un'appendice di Walter, un suo accessorio e nulla di più."
Superate le prime diffidenze, Nicolas aveva scoperto un cognato simpatico e alla mano, con la sua stessa proclività all'educazione musicale.
"Mai fermarsi alla penna."
È un giochino che gli ho insegnato io.
Sono in piedi al centro del palco, con una penna in mano, tenuta in alto bene in vista. Cosa vi sto mostrando? Una penna? Sbagliato: una penna, tenuta da una donna che sta al centro d'un palco, all'interno d'un edificio, in una via di Milano, eccetera. Fa niente che sia tutto nella mia mente, è la morale che conta. Le persone sono molto più di quel che vediamo anche perché spesso mutano e noi neanche ce ne accorgiamo.
"Come Lucy."
Non più una bambina, ma una donna, una mamma. Era andata a trovarla quel pomeriggio, dopo le lezioni di pianoforte. Con lei c'era Myriam, più solare del solito. Tra un bignè e due coccole al piccolo Yuri, s'era lasciato coinvolgere nei pettegolezzi sulla breve ricomparsa di Claudio.
Prima di tornare a casa, era passato da me e aveva trovato suo padre esagitato. Aveva provato a rispondergli: «Ma no, dai, Lucy non andrebbe mai a Essen! E poi, papà, se pure fosse? Non è mica in America!» S'era beccato una sberla.
"Le persone cambiano, le situazioni cambiano",come il panorama che aveva davanti.
S'era alzato il vento e la pioggia s'era calmata. I lampioni illuminavano la strada comunale. Il buio si prendeva tutto il resto, stendendosi sui campi addormentati. Non lo spaventava più come quando era bambino.
Fisicamente, era stanco, eppure si sentiva ricaricato. In un giorno solo aveva gustato una bella fetta della sua famiglia; tante piccole fette ne stava gustando tutt'i giorni da più d'un mese.
"Mi farà male tanto zucchero tutto insieme?"
La risposta era nell'appetito e nella voglia di confrontarsi con Sergio su tematiche inerenti la politica internazionale e la geoeconomia, e quel motivetto che gli ronzava nelle orecchie da qualche giorno.
"Ho giurato che non suonerò più, ma posso scrivere."
Sulla sua scrivania un foglio riportava già qualche nota e i versi appuntati la sera prima; in un'altalena tra accoramento e speranza, li lesse ad alta voce, per farsi compagnia:
«Danzano
Gocce trasparenti
Tra labbra asciutte
Di terra riarsa
Scivolano
In rivoli leggeri
Su guance sfiorite
Bruciate dal sole
Cantano
In eco gioiosa
Tra gole profonde
Di colli addormentati
Nutrono,
Lacrime di delizia,
Campi coltivati
Distesi sui fianchi
Danzano
Gocce trasparenti
Davanti ai miei scuri
Occhi Incantati.»
Posò il foglio accanto ai disegni che aveva notato prima di Natale; nessuno li aveva tolti o reclamati.
"Jacopo."
Un brivido gli corse lungo la schiena.
"Forse Mirko sa."
Mirko, come un animale ferito, restava per ore chiuso nella sua tana, con la scusa dei compiti, anche se a scuola non era tornato. Ne usciva solo tre volte al giorno, perché:«Non devi saltare i pasti»; quando dettava le regole, Sergio era intransigente e Mirko non era Jacopo, lui non si ribellava. Si metteva a tavola, mangiava meno d'un uccellino, aspettava che tutti avessero terminato, poi si alzava e se ne andava. Nessuno era riuscito a creare un varco nel suo muro d'apatia. Forse quei disegni avrebbero potuto aprire una porta segreta.
"Domani, quando Sergio sarà in ospedale."
Il mattino seguente pioveva ancora e ciò rendeva Nicolas ancora più triste. Un breve messaggio di Sergio lo informò che i numeri segnati sulla cartella clinica di Jacopo erano gli stessi dell'ultima misurazione. Poggiò l'orecchio al muro; dalla cameretta accanto non giungeva la musica spacca testa a cui i gemelli l'avevano abituato. Il cellulare di Mirko non bramiva più. Aveva provato a chiedergli di Ilenia; gli aveva risposto: «Ilenia non esiste».
Prese i fogli che aveva trovato sulla sua scrivania e un bel respiro, e scese dabbasso. Mirko era seduto al suo posto: agli ordini di Sergio non si trasgredisce neanche quando non è in casa. Indossava ancora il pigiama del Milan e stava mandando giù a forza un bicchiere di latte freddo.
Nicolas posò i disegni sul tavolo.
«Ho trovato questi, sulla mia scrivania; sai cosa sono?»
«Fumetti, non vedi? Sono di Jajo.»
Mirko era scocciato, come se l'avessero beccato ad aprire il frigorifero dopo essere stato messo a dieta.
Nicolas non desistette.
«Perché erano in camera mia?»
«Li mette dove sa che non entra nessuno o la mamma è già passata a pulire. Ho dimenticato di toglierli.»
«Okay. Sono belli, ma le nuvolette sono vuote.»
«M'ha chiesto di riempirle, ma non mi va.»
«Non sei più tornato da lui?»
«No.»
«Preparo un bel piatto di carbonara che ti piace tanto. Dopo mangiato, ti va di venire con me nel Rifugio?»
"No. Ma non mi va nemmeno di sfogliare libri pieni zeppi di nozioni indecifrabili."
Mirko mangiò per accontentare Nicolas, poi lo seguì giù per le scale.
«Non sapevo che si potesse passare da qui.»
Conosceva solo l'accesso esterno, dalla saracinesca basculante.
«Passare da fuori è come uscire di casa, un escamotage di tuo padre per i pomeriggi invernali, quando non c'era ancora la palestra. Ci vestivamo per andare a fare una gita, con i zainetti, il plaid e la merenda. Ma ora piove e non mi sembrava il caso.»
Nicolas spostò dal muro un mobile con le rotelle alto quanto lui, facendo attenzione a non far cadere i libri che ci stavano impilati. Scoprì una porta di vetro smerigliato, l'aprì, fece scattare l'interruttore ed entrarono.
«Ciò che succede qui dentro, resta qui dentro, a meno che tu non voglia farlo uscire.»
Chiuse la porta e accese un termosifone elettrico.
Mirko avrebbe preferito essere nello stanzone adiacente, col tapis roulant, la cyclette, il sacco da box, i pesi, la barra per trazioni, le parallele. Gli strumenti musicali non l'avevano mai interessato. Stava per girare i tacchi, quando notò, sul tavolo quadrato posto in un angolo, una rima di carta, penne nere rosse e blu e matite colorate, al posto dei libri di musica e dei pentagrammi che c'erano di solito.
Nicolas gli illustrò il suo piano.
«Qui possiamo urlare e saltare, ballare e cantare e dire tutte le parolacce che vogliamo, che non ci sente nessuno.»
Le pareti avrebbero avuto funzione di contenimento, assorbendo e poi disperdendo la polvere della paura, il sudore della rabbia, le voci del dolore, i calci della frustrazione.
E quando fossero rimasti senza fiato e senza energia, avrebbero potuto scrivere o disegnare qualsiasi cosa, di getto, senza pensare.
«Che stronzata.»
Mirko abbozzò un ghigno che forse sarebbe dovuto essere un sorriso.
Nicolas prese una clessidra.
«E quella, ora?»
«Dura tre minuti. Ti chiedo di provare solo per tre minuti, poi se non ti piace, ce ne andiamo a correre.»
«Ma piove.»
«Allora restiamo qui. Che dici, proviamo?»
Si chiusero lì dentro mattine e pomeriggi interi per due settimane. Sergio non faceva domande. Quando ebbero finito, Mirko guardò Nicolas:
«Io ho fatto il mio, ora tu farai il tuo: lo sai che Jacopo ha Ghiaccio come suoneria del cellulare? Da quando sono tornato a casa non ti ho visto né sentito suonare. Prendi la chitarra».
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