6. La tradizione è importante
«Natale è ogni giorno, nei cuori ricchi d'amore.».
Me lo ha insegnato mio padre, che onorava le feste pure se non credeva alla nascita di Gesù bambino: quel che contava era stare insieme.
È rimasto un solo pranzo all'anno, a riunirci. La data viene scelta in base alle disponibilità di tutti; non è affatto facile: ognuno impegnato con qualche impegno (la scuola, il lavoro, la musica); qualcuno con la voglia d'essere in tutt'altro luogo.
Nel 2016 fu anticipato al 22 dicembre. L'attesi contando le settimane, i giorni, le ore, i minuti. Quando arrivò, passò tanto in fretta che quasi non me ne accorsi.
Maria Dolores m'aveva vestita di rosso da capo a piedi, reggiseno, mutandoni e calzini compresi. Solo le scarpe erano fumé e il filtro con il quale gli occhi avevano preso a guardare, sempre più spesso, alla realtà.
Il salone delle feste, uno stanzone rettangolare che aprivamo solo nelle occasioni speciali perché troppo grande da riscaldare e tenere pulito, era addobbato con ghirlande e stelle di Natale. Tre tavoli in legno massello erano stati uniti a formarne uno unico, coperto da una tovaglia damascata rossa con ricami dorati. Oltre le sedie rustiche e due candelabri, non vi erano altri mobili o componenti d'arredo e le pareti, in cemento grezzo a vista, erano spoglie.
Lo spazio era stato organizzato in modo da lasciare delle aree per carrozzine e passeggini e far scorrazzare i bambini senza preoccuparsi che sporcassero dappertutto con residui di cibo, pongo, pennarelli e quant'altro.
I bambini! Da quanto tempo non ce n'erano?
Erano cresciuti, uno dopo l'altro; persino i gemelli, che sembravano essere nati due giorni prima.
Eppure avevo voluto lasciare tutto immutato.
Nell'angolo più ampio, ci stava un'enorme cuccia vuota: Sally preferiva il nudo pavimento in cotto toscano.
La matassa del mio pensiero involse Lucilla e il nipotino che stava per arrivare. Per un attimo il filtro davanti ai miei occhi prese qualche sfumatura pastello: quello spazio non sarebbe rimasto superfluo.
Dalla vetrata che occupava per intero una delle pareti laterali, potevo vedere, alta e altera, la nostra Madre Quercia con le sue belle radici nel terreno, e tante palle appese. Era il simbolo di quanto io e Vito eravamo riusciti a costruire con quattro spiccioli e tanta buona volontà. C'eravamo lasciati alle spalle i calcinacci d'un focolare in rovina, caricandoci sulle spalle un fagottino che reclamava acqua, pappa e calore; avevamo vangato, zappato, picconato, preparato il terreno e scavato la buca in cui piantarci per crescere insieme, con un'unica corteccia. I nostri rami, forti, belli, rigogliosi, li avevo tutti attorno. Dal mio posto a capotavola li osservai.
Accanto a me, Mattia parlava in continuazione, non saprei dire di cosa, o con chi: si inzeppava la bocca di cibo e parole e risate forzate. Di fronte a lui, Walter non rispondeva, forse neanche ascoltava; mangiò due penne al salmone e quattro gamberetti.
Tra Mattia e William, Deborah un po' ascoltava il marito, un po' s'assicurava che la sua Lucilla, seduta vicino a Myriam, mangiasse bene, e avesse spazio per le gambe e aria per respirare.
I ragazzi mangiavano svogliatamente e i più piccoli avevano fretta di correre a correre; li trattenevano solo maccheroni con le noci e le mance, anche se di sermoni non ne recitavano più.
Nicolas, William e Thomas ci dedicarono alcuni brani a cui stavano lavorando. Avrei voluto ascoltare Ninna nanna per Lucy. Piaceva tanto anche ad Alex, gli ricordava il suo primo passo con Thomas, ma non era riuscito a convincere Nicolas a renderla pubblica. Nessuno dei presenti la chiese e io non potei che rassegnarmi: "Non la sentirò mai più".
Tra le altre, ascoltammo Ghiaccio. Riscosse molti applausi e richieste di bis. Mattia e i gemelli la registrarono col cellulare.
Dopo l'esibizione, Myriam, che per tutto il tempo era rimasta seduta, ripiegata su se stessa, senza dire una parola, e aveva spiluccato poche foglie di radicchio e qualche granello di noce e cioccolato, regalò a grandi e piccini una scatoletta di plastica con dentro tante monetine, come facevo io, quando ancora riuscivo, «Per conservare anche questa tradizione».
Una volta, quei soldini, servivano per giocare a carte.
"Dovrebbero esserci ancora, in qualche cassetto di qualche comò. Sarebbe bello liberare la tavola, lasciare solo bottiglie e bicchieri, e fare un giro a Sorchetta o a Settebello."
Come a comando, tutti si alzarono, neanche avessero il fuoco sotto al culo, e alla spicciolata andarono via.
Li guardai disgustata.
"Non sono più i pranzi d'una volta!"
Quando si mangiava lentamente e ci si raccontava storielle e barzellette, si sparecchiava e si tiravano fuori il Gioco dell'Oca e la Tomboletta.
Tutti avevano fretta di tornare alle loro cose da fare.
Rispettavano la tradizione solo per farmi contenta. Io contenta non ero per niente, perché la tradizione... Ha un suo (ho un mio) perché.
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