5. Il ragazzino sul ponte
La camera era illuminata dall'applique a foggia di foglia sopra il comodino di Godfried, il quale, seduto al suo posto nel letto, stava leggendo, con le gambe allungate e la schiena poggiata alla testiera, ricoperto solo in vita da un lembo di lenzuolo di cotone percalle color tortora. Il suo dopobarba riempiva la stanza d'un chiaro messaggio che Walter non ebbe dubbi nel decifrare. Non rispose direttamente; restò con indosso solo quel cerchietto d'oro giallo che portava all'interno la data della sua rinascita e si sdraiò a pancia in giù, con le mani sotto la testa rivolta verso l'esterno.
Dopo tre righe di cui non colse non il contenuto, Godfried posò libro e occhiali; si girò verso di lui, contemplò il collo tornito, le spalle larghe, la schiena costellata di nei. Avvicinò l'indice destro a uno di essi, movendolo in piccole spirali, a sfiorare la pelle chiara: un cerchio, due cerchi, tre cerchi, sempre più larghi, sempre più profondi; poi lo lasciò scivolare lungo tutta la colonna vertebrale, millimetro dopo millimetro, anello dopo anello, fino a raggiungere l'incavo tra le natiche e lì si fermò, per mettersi più comodo e far seguire lo stesso percorso alle labbra e alla lingua. Walter non si oppose, né restò inerte.
Stavano entrando nel loro campo neutro, dove erano soliti deporre le armi; il territorio circoscritto nel quale, anche se fuori bisticciavano, si davano tacito appuntamento per ritrovarsi e riconoscersi coppia; il luogo privilegiato della loro comunicazione, in cui i corpi riuscivano a sintonizzarsi l'uno con l'altro, ricongiungendosi.
A nessuno dei due bastava più e non sarebbe servito a nulla, se non si fossero concessi del tempo anche per parlarsi: sapevano ch'era un passo obbligato per stuccare le crepe e rinfrescare l'intonaco imbrattato da mesi di chiarimenti mancati.
Bruciarono di passione, fino a consumare ogni energia. Si addormentarono. Si svegliarono. Erano ancora insieme. Nessuno dei due aveva tolto la fede. Il matrimonio era in piedi, traballante, in attesa d'un puntello e d'una sostanziale ristrutturazione
«Scusami.» Lo dissero in coro e in coro si risposero: «Scusami tu».
«Sì, sono geloso; siete così abbrancati! Mi sento un mulo in mezzo alle zebre.» Godfried fece uno sforzo enorme per ammetterlo.
Walter l'apprezzò e lo ripagò con la stessa moneta preziosa. «Forse se sapessi il perché, potresti capire. C'è qualcosa che non ti ho mai detto.»
Nei due passi in corridoio tra la camera di Mirko e la loro, Walter aveva trovato in sé una nuova determinazione: era ora di toccare il tasto dolente con Godfried. Quella mattina decise di fare un passo indietro. Per calarsi nel futuro, doveva racconciare il presente e questo richiedeva un tuffo nel passato. In esso allignava il suo segreto, inumato trai sedimenti dei ricordi; apparteneva a un Walter che non c'era più, ma gliene restava dentro il riflesso.
Dissiggillò il cuore all'uomo a cui aveva recitato, accettando di farlo in olandese: «Nel bene e nel male, in salute e malattia», e gli parlò d'un ragazzino che non avrebbe potuto né voluto dimenticare, e che l'aveva condizionato più di quanto si fosse reso conto, fino a quel momento.
Aveva diciassette anni: era piccolo? Era grande? Una via di mezzo; un misto tra la percezione che aveva di sé, il desiderio di come sarebbe voluto essere, e ciò che pensava vedessero gli altri. Stava imparando a conoscersi, ma non ancora a volersi bene. Viveva in un contesto in cui la vita era rappresentata da un convoglio in movimento perpetuo lungo un'unica ferrovia, verso una direzione prestabilita. Chi si fermava, chi non rigava dritto o scendeva dalla sua carrozza, non era visto di buon occhio. Nessuno si soffermava a comprenderne lo smarrimento. Non gli venivano fornite carte topografiche che mostrassero sentieri o strade alternative. Trovava solo aperta campagna in cui andare a tentoni, sperando d'incontrare qualcuno che conoscesse il percorso o un posto dove fermarsi.
Lui guardava i binari e guardava lo spazio aperto, con la voglia di correre per prati e la paura di farlo veramente. Si chiedeva che faccia avessero quelli che scendevano dal treno perché sui vagoni stavano stretti, se si sarebbe imbattuto nel cacciatore o nel lupo, e cosa sarebbe successo se i suoi genitori, nonni, fratelli, amici avessero saputo che aveva smesso di seguire le rotaie o che l'aveva anche solo ipotizzato. Stava fermo a un bivio e non sapeva come muoversi. Molte cose sono cambiate, ma per alcuni, per certi versi, è ancora così.
Non tutti hanno degli esempi con cui confrontarsi. A Thomas è bastato dire: «A me piacciono i maschi, come a Walter». Aveva dieci anni. La mamma di Myriam aveva commesso l'errore di chiedergli se avesse la fidanzata. Ebbe la prontezza di rimediare: «Scusa, ce l'hai il fidanzato?»
Non tutti hanno una famiglia come la nostra o un fratello maggiore a cui fare mille domande. Quel ragazzino si sentiva allo sbando e questo non era l'unico motivo.
Ci si può sentire soli anche soffocati da mille attenzioni, se ci si convince d'essere di troppo.
Cercava compagnia nella natura e spesso andava a passeggiare nei pressi d'un ponte, non troppo lontano da dove abitava. Ci saliva su, lo percorreva per metà e si fermava proprio al centro, a guardare giù e a chiedersi come sarebbe stato volare su quelle acque scure che in quel punto confluivano in una piccola cascata. Avrebbe avuto il tempo di pensare o sarebbe arrivato subito l'impatto con l'acqua gelida? Sarebbe riuscito a nuotare tra i vortici di schiuma o si sarebbe lasciato andare all'abbraccio mortale delle piccole onde?
Walter parlava lentamente, a ogni frase si toglieva un peso dal groppone.
«No, non andare avanti.»
Godfried non voleva sentire altro. Troppo giovani erano finiti male per il male di vivere. Quando guardava i suoi alunni, alcuni dei quali già delusi e carichi di rabbia, spesso ritorta su se stessi, cercava d'infondere entusiasmo, curiosità, gioia. Era difficile insegnando Economia Aziendale, ma ce la metteva tutta. Se non altro, indossando maglie sportive dai colori vivaci.
Walter gli diede un lieve bacio di tenerezza, il primo dopo giorni di lacrime e risentimento.
«Solo se saprai come è andata, potrai capire.»
Riprese a seguire le mosse di quel ragazzino infelice, a cui sarebbe bastata una carezza per sentirsi amato, fino a quel giorno in cui, per l'ultima volta, ascoltò il torrente chiamare il suo nome; la sua voce suadente sovrastava quelle dei genitori. Li aveva sentiti discutere, non era mai successo. Cioè, non era mai successo che lui li sentisse, ma quante altre volte avevano discusso a sua insaputa? S'erano sempre mostrati d'accordo, sulle decisioni che lo pertinevano; come mai, mentre lo credevano con gli amici, avevano alzato la voce? Sua madre, dopo anni di sacrifici, alcuni dei quali consumati dietro a un marito di passaggio con uno zaino da campeggio sempre pronto per l'uso, era riuscita ad accaparrarsi un posto in un viaggio organizzato a cui teneva moltissimo; nello stesso mese in cui le due coppie di nonni avevano prenotato un soggiorno in Liguria e il padre doveva assolutamente andare in Sardegna con la nuova moglie, per presentare ai suoi parenti la sorellina uscita dal cilindro già due anni prima. La sorella maggiore era in vacanza con le amiche, i due fratelli più piccoli erano stati piazzati in campagna dalla madre d'uno dei due, e il figlio non piccolo, non grande, non potevano lasciarlo da solo né volevano portarselo dietro.
Stanco di sentirli parlare di sé come un ingombro, aveva preso la bicicletta e pedalato sull'asfalto bollente, tra i prati verdi che davano un'illusione di frescura. Fino a quel ponte. Mulinelli ipnotici lo chiamavano. Il torrente lo voleva con sé. L'avrebbe abbracciato e trascinato via... via... via... dai litigi, dalla solitudine, dall'amarezza, dalle incomprensioni, dalla sua incapacità di comprendere se stesso. Restò un po' lì a chiedersi come sarebbe stato. Si avvicinò alla balaustra; stava per scavalcarla; il cellulare, nella tasca del marsupio, fece Splash.
Un cellulare bramì sette volte, poi tornò il silenzio.
«Vado a vedere se Mirko sta bene. Ti va di preparare la colazione? Finiamo di parlare dopo.»
Trallallero trallallà!
Era il cellulare di Godfried. Prese la chiamata senza dire nulla.
«Sono a Milano. Non lo sa nessuno. Torno a Essen stasera. Ho poco tempo. Non lo voglio sprecare.»
Mirko non stava bene per niente. Trascorreva le giornate a letto. Walter e Godfried non avrebbero saputo dire se fosse davvero tanto debilitato o piuttosto depresso. Nessuno dei fratelli era riuscito a scuoterlo e a farlo uscire di casa.
Godfried cercò di coinvolgerlo nell'apparecchiare la tavola, affettare il pane, stappare le bottiglie o sgrassare un tegame rimasto a bagno dalla sera prima, mentre aspettavano Thomas, Alex, Nicolas, William e Rossella per pranzo.
Dopo mangiato, provarono a tirarlo dentro in qualche gioco di carte: il Ramino, in cui era molto bravo o, eccezionalmente, il poker, «Ma senza soldi, se no Anna e Sergio ci querelano».
Restò inappetente e scontroso per tutto il tempo; prima ancora che facesse buio, si ritirò, accusando il solito male alla di testa.
Io potevo capirlo il legame speciale tra lui e Jacopo, il senso di colpa, la sensazione di vuoto. Jacopo c'era, ma non c'era. Non era vivo, non era morto. C'era speranza; Mirko cercava di non crederci troppo. Era andato a trovarlo solo una volta. Gli aveva lasciato i brani inediti dei Crystal Piglets che avevano ascoltato al pranzo di Natale, ed era scappato via. Letteralmente. Di corsa. Lungo i corridoi, giù dalle scale, fuori da quel luogo in cui si sentiva oppresso.
"Sarei dovuto essere io al suo posto, lo portavo io il motorino!"
Gli ospiti non restarono ancora molto, l'allegria era uscita dai loro cuori con l'ingresso dei due gemelli in ospedale, e non vi sarebbe rientrata finché Jacopo non avesse dato segni d'essere ancora tra loro.
Dopo averli salutati, Walter si accostò alla porta chiusa della camera di Mirko e lo sentì disperarsi. Bussò e aprì la porta senza attendere risposta.
Mirko era raggomitolato a terra; con la testa tra le mani, ripeteva frasi sconnesse. Walter si abbassò davanti a lui e l'abbracciò. Godfried s'unì a loro e piansero tutti e tre insieme finché Mirko si addormentò. Lo coprirono e lo lasciarono così, con la porta aperta per sentire qualsiasi piccolo segno di risveglio.
«Dobbiamo fare qualcosa», disse Godfried.
«Cosa?»
«Lo riportiamo a casa sua. La scusa ce l'abbiamo: io riprendo la scuola, tu dovrai tornare al lavoro. Nicolas e William sono lì per controllare che tutto vada bene, no? L'orto, le galline, e che so io.»
«Magari riescono anche a farlo suonare.»
«Dubito, però ha la sua mini palestra e il sacco per fare a pugni.»
«E il letto vuoto di Jacopo.»
«Già, non ci avevo pensato.»
Mirko uscì dalla camera per cena.
«Vorrei tornare a casa mia», disse, soffiando sulla minestra.
Walter e Godfried si guardarono.
«Sei sicuro?»
«Sì, devo fare i compiti.»
«Okay. Domani ti portiamo a casa.»
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