4. Un bel casino


Lucilla trascorse ore a guardare il cellulare e a sobbalzare al primo squillo. Quasi mai era Claudio e s'era lui:«Ho delle commissioni da sbrigare. Mi sta chiamando mio padre. È pronto in tavola.»

Non s'intratteneva «Ancora dieci minuti», più dieci minuti e «Dieci minuti ancora», fino a che diventavano ore, per commentare un best seller o chiedere:«Cosa mangi stasera?»

Lucilla attese con indulgenza che le proponesse: «Una giornata tutta per noi», di quelle che tante volte avevano trascorso a perdersi in un tempo in cui solo loro esistevano, l'una per l'altro, e il nulla fuori.

Che fosse a contare passi e a rubarsi baci tra i boschi, i prati, i laghetti del Parco delle Cave; a visitare per la decima volta le mostre permanenti all'Hangar Bicocca e «Già che ci siamo diamo un'occhiata a quelle temporanee»; a passeggiare lungo i Navigli, tra le bancarelle di ninnoli e i poufs dei pub; o a casa sua a sbocconcellare salatini e a farsi le coccole. Sarebbe andata bene qualsiasi cosa, pur di stare insieme mente cuore anima e corpo. Ma così non fu.

"Forse oggi. Forse domani. O dopo."

Il giorno migliore non arrivava mai.

Capita che le coppie possano sentirsi un po' annoiate, specie se nate tra i banchi di scuola; Lucilla non s'annoiava mai con Claudio; stava bene, si divertiva, vagliava ipotesi sul domani.

«È ancora così? O sono rimasta ai tempi del liceo? "Ho fatto tardi al lavoro. Ho promesso a mia madre di tornare per pranzo". È sempre Puccipucci-tesoro-amoremio, ma effettivamente ci stiamo vedendo poco e male.»

Il loro ritmo era cambiato. Forse, addirittura, si stava fermando.

«Non riesco a trovare l'interstizio giusto. Mi sembra sempre d'avere poco tempo, oppure che sia con la testa per aria», mi confidò un pomeriggio, mentre eravamo sedute fuori, sotto il portico, a bere tè.

«Potrei fare tutto da me, ma se poi faccio la scelta sbagliata? Non so come potrebbe reagire, in un caso o nell'altro. Che poi, a dirla tutta, se decidessi di non tenere il bambino, potrei non dirgli nulla.»

Una passera scopaiola zampettò sotto la sua sedia e becchettò qualche briciola di fruitcake.

«Non so se ce la farei. Ci siamo sempre detti tutto.»

Pulì il tavolo con un fazzoletto e portò in casa i bicchieri.

"Cerca d'analizzare bene costi e vantaggi, di prevedere mosse e contromosse", avrei voluto suggerirle; e d'ascoltare la mente e il cuore, e poi dare retta alla pancia.

Non dissi nulla. Cosa fare, lo sapeva da sé.

«Vado, se no arrivo tardi dal parrucchiere.»

Mi diede un bacio schioccante sulla guancia e andò via mugolando quella nuova canzone; la riconobbi perché me l'aveva cantata William:


«Luna pallida e nuda,

chissà se hai freddo o paura,

avvolta nel buio,

sospesa lassù.

Il sole ti accarezza appena,

ti sveglia da un sogno

ch'è incubo ormai».




L'incubo di Lucilla si personificò un mercoledì sera senza luna e senza stelle. Claudio la chiamò dieci minuti prima di presentarsi alla sua porta. Non recava fiori, né vino.

Il bel pacioccone fu tutt'altro che pacifico. Sparò a salve, ma colpì dritto al cuore.

«Meglio così», ripeteva Lucilla nel raccontarmelo, «Abbiamo perso meno tempo».

Restai spiazzata.

Claudio rimase all'ingresso, in piedi, col K-Way ancora indosso. Non fece caso alle sue guance rosee e alle forme arrotondate. Non la guardò neppure, nascosta com'era in un largo vestito nero a fiorellini bianchi.

«Ho una novità.» 

Anche lui aveva avuto una decisione difficile da prendere. Anche lui l'aveva presa da solo.

«Il tirocinio è scaduto. Ho lavorato sodo, i miei capi sono contenti, m'assumono, ma nella sede di Essen. Sabato parto.»

«Per quanto tempo?»

«Non lo so. Forse per sempre.»

Lucilla l'avrebbe seguito anche in capo al mondo, soprattutto in quel frangente. Ma non glielo stava chiedendo e lei non voleva essere una palla di piombo incatenata alla caviglia.

Lo lasciò andare, dove e come aveva già deciso d'andare: lontano, senza di lei. Alzò le mani in segno di resa.

«In bocca al lupo.»

«Viva.»

A porta chiusa e fidanzamento rotto, Lucilla aprì i rubinetti.

Pianse tutta la notte, abbracciata al cuscino che usava Claudio quando restava a dormire.

Lei, piena di vita e di gioia, che amava cantare e respirare a pieni polmoni, non smetteva di singhiozzare.

Aveva deciso appena maggiorenne di stare per conto suo, per sentirsi grande e libera, e far vedere a tutti che se la sapeva cavare. Arrancando un po', ce l'aveva sempre fatta.

«Ma c'era lui, il mio pilastro.»

A parte me, nessuno sapeva del bambino.

«Me li vedo già, che fanno un girotondo con tutte le braccia tese e le mani aperte verso di me: mamma mi rimbecillisce di consigli, papà tira fuori un assegno, Nicolas compone una canzone, Willy la suona col suo sorrisone fluorescente pure nel buio assoluto delle Grotte di Frasassi. Mi sento rivoltare solo a pensarci. Non ce li voglio tutti attorno, me la sbrigo da me.»

Solo con me aveva parlato. E, ancora, pianto.

Le sue lacrime, che male mi facevano!

Erano pizzichi sulla pelle nuda.

Denti che affondavano nella carne.

Ciuffi di capelli strappati.

Peli del pube tirati malamente.

Unghie che mi s'aggrappavano alle guance.

E mi strappavano gli occhi.

Mi scavavano nelle interiora e non uscivano più.

Era in simili momenti che lasciavo sprofondare la testa tra le nuvole e m'asserragliavo nel chiedermi:

"Chi è l'assassino?"

Poi mi rivolgevo alla fotografia sul comodino e la rassicuravo: 

"La mantengo la promessa, te lo prometto."

Ciò rincuorava me, che non avevo altro modo, per rianimare Lucilla, se non la mia ferma, tacita, presenza.



Con gli occhi gonfi e il collo indolenzito, Lucilla restò a lungo sotto la doccia, per lavarsi da dosso stanchezza e tensione muscolare.

Dopo essersi asciugata, indossò biancheria di pizzo nero e un vestito scampanato grigio perla, a cui abbinò scarpe basse dello stesso colore. Si truccò secondo le dritte della sua make up artist. Pettinò i capelli e li raccolse dietro la nuca con un fermaglio.

Alle 10:00 si presentò all'appuntamento con l'eminente Alex Au79 come appena uscita da una rivista calpestata da un ippopotamo: con un look impeccabile a mo' di murale sulla facciata esteriore del blocco di travertino che le stava incastrato tra il fegato e il cuore e che, più cercava di mandarlo giù, più spingeva per salire su. Il suo passo solitamente leggiadro ne fu rallentato, ma nessuno dei Cipì ci fece caso, mentre si dirigevano al tavolo prenotato da Alex.

Il locale era di gran classe, con luci soffuse e musica jazz, un club in cui s'entrava se tesserati o su invito dei soci, generalmente per trattare affari.

Lucilla provò un po' di soggezione. Un barman e un cameriere si diedero colpetti con i gomiti e le fecero l'occhiolino; li ricambiò con un bacio soffiato e si rilassò.

I ragazzi la fecero accomodare accanto ad Alex, che aveva già ordinato muffin per tutti.

"Non ci credo," La sua mimica facciale era lingua madre per William, che le rispose usando gli stessi canoni.

Lucilla conosceva a memoria tutte i testi di Alex, canto e controcanto, voci dei cori e basi musicali. Aveva visto i suoi video decine di volte ed era sua fan su tutt'i social a cui era iscritto.

"E ora è qui in carne e ossa, con noi, alla pari, per fare proposte, per lavorare insieme!"

Si sentiva come una lattina di gazzosa a cui stavano per strappare la linguetta dopo averla sballottata: era bello essere lì con Alex Au79, era mitico e notevole, per tutto ciò che la cosa implicava, ma non fu per questo che corse in bagno a vomitare.

Thomas, il più vicino a lei per età, la seguì per sostenerla.

«Che succede? Un'indigestione?»

L'aria era impregnata d'ammoniaca. Da una finestra aperta entrava odore di pesce marcio. La chiuse rabbrividendo per l'umidità: indosso aveva pantaloni estivi di lino gessato grigio e una camicia di raso nero, l'unica pulita e stirata che aveva trovato nell'armadio di Nicolas.

«Sono incinta», sibilò Lucilla, stanca di girarci attorno, «E Claudio se ne va in Germania. Senza di me.»

Incerto se manifestare giubilo, sbigottimento o rammarico, Thomas grugnì: «Un bel casino».

«Sì, un bel casino», gli fece eco lei sciacquandosi il viso con acqua fredda.

Thomas la guardò. Rivide la bambina che collezionava orsacchiotti, mangiava le rotelle di liquirizia senza srotolarle e s'impinzava di patatine fritte, con cui aveva giocato a papà e figlia e condiviso la casa di Barbie nel mio salotto.

Lucilla era per tutti la sorellina, anche s'aveva mostrato una maturità emotiva superiore per la sua età a qualsiasi età.

Gli sembrò di vederla tremare. Ebbe uno slancio di tenerezza e la sua voce s'addolcì: «Cosa pensi di fare?»

«Boh. Questa collaborazione... ci tengo...»

Stremata, Lucilla si lasciò cadere lungo la porta chiusa. Il pavimento era freddo, ma non le andava di rimettersi in piedi.

«Prenditi del tempo. Sai che saremo qui.»

Thomas si mise accanto a lei, a gambe incrociate, per ascoltarla. Proprio lui, il mio Thomas! Che gli devi tirar fuori le parole con le pinze e non sta mai fermo, in quel periodo men che meno.

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