4. Fine della favola
Non era a causa del materasso sformato, del cuscino basso, della rete che cigolava, o del traffico perpetuo sotto la finestra del soggiorno di Rudolf: Godfried non aveva chiuso occhio perché a palpebre abbassate continuava a vedere le rughe sulla fronte di Walter, quelle che comparivano quando non comprendeva qualcosa.
«Non capisce. Lui proprio non capisce. Non è che non gli importa, o fa finta. Non capisce proprio. Sta dietro alle esigenze di tutti, meno che le mie.»
Stava seduto in cucina, con le braccia poggiate sul tavolo, davanti a un vassoio di sandwiches al prosciutto e formaggio; non li guardò nemmeno, né si fece tentare dall'aroma invitante.
I mobili in stile antico rilucevano dei raggi di sole liberati dalla foschia, ma la sua mente era ancora ottenebrata da densa caligine: mille piccole domande restavano senza risposta, incastonate in minuscoli ma compatti e solidi indizi che per lui e Walter non ci sarebbe stato un "per sempre felici e contenti". La colonna sonora s'era spenta nell'ultima nota; i titoli di coda erano scorsi bianchi su schermo nero; la bella favola era giunta alla fine.
Il primo ad alzarsi era stato lui. Aveva messo un punto che da tempo andava messo. L'aveva fatto senza fermarsi a riflettere per non dare adito a sentimenti che troppe volte l'avevano dissuaso. Se n'era andato senza voltarsi indietro. Nelle orecchie la voce di Rudolf gli ripeteva ch'era l'unica cosa sensata; che non c'era più niente da fare; "Quando è finita, è finita, metti una pietra sopra; chiusa una porta", e minchiate simili, che gli sentiva dire da anni, come stoccate a cui aveva fatto il callo. Avrebbe dovuto soppesarle e tenere in tasca; il callo s'era spaccato e la carne viva sanguinava.
Conosceva Rudolf da quando gattonavano. S'era stabilito a Milano poco dopo di lui. C'era sempre stato, in estate, come d'inverno.
"E anche ora che sono nel bel mezzo della tempesta."
Forse le sue non erano solo minchiate, anche se accettarlo era come prestare il fianco a un affondo.
Rudolf attendeva che bollisse l'acqua per il tè e studiava il suo profilo, che s'era assottigliato.
«Ci perdi la salute, a stare con lui. Quella maglia, sempre stata aderente, ora ti va larga.»
Si riferiva alla t-shirt grigia che avevano comprato insieme, un paio d'anni prima, una delle tante volte in cui erano usciti a fare shopping, loro due da soli, che a Walter non piaceva girare per negozi.
Il tessuto elasticizzato copriva la pancia e si appoggiava morbido sui boxer dello stesso colore; le maniche corte lasciavano scoperte braccia magre, dai muscoli appena accennati.
«Per lui fai pure quel corso senza capo o coda.»
«Il corso lo faccio per me.»
«Sicuro?»
Godfried non rispose. Spostò indietro la sedia.
«M'accompagni a casa?»
«Vuoi correre già da lui? Dopo quello che ha fatto? Ti tratta peggio d'uno straccio, apri occhi! Quanto vuoi soffrire per lui?»
Rudolf si portò in avanti e poggiò le mani al tavolo.
«Lasciamo stare figuraccia di non ha fatto spesa e hai dovuto arrabattare la cena per dieci persone. Non s'è presentato, non ha avvertito. Non ti ha fermato, non si fa sentire. Fa offeso? E questa è solo la punta d'un iceberg: quell'uomo non ti vede! Preso a fare il musicista, solo questa mancava. E tu a sbavare per lui, gli hai comprato anche il Weekend alle terme. Quell'uomo ti sta rovinando e-»
«Quell'uomo si chiama Walter.»
«Lo difendi, anche. Che poi, perché devo parlare italiano con te? Perché lui non vuole imparare olandese. Tu? Ricordi la nostra lingua?»
«Che c'entra?»
«C'entra perché ce cape. Dice così la vostra Amelia, no?»
«Lascia stare Amelia. Non è per Walter. Devo prendere le medicine, senza ricetta non me la danno e dal medico sono andato due giorni fa. Che gli dico, che ho perso la prescrizione?»
«E con Walter?»
«È a lavoro. Ha preso ferie solo per il Pranzo di Amelia e per aiutarmi con la cena di ieri, e già non sai ch'enorme sacrificio è stato. Non c'è pericolo d'incontrarlo. Prendo anche qualche vestito.»
«Prendi tutto che vuoi. Prendi tutte le tue cose, puoi portarle qui, troviamo il posto. Poi attrezziamo per farti dormire più bene, anche se, lo sai, non è male se dormi in mio letto.»
«Vado a vestirmi.»
Rudolf era già vestito. L'acqua bolliva, ma non aveva più voglia di tè: era riuscito a portare Godfried fuori da quella casa; non aveva intenzione di vedercelo tornare senza fare niente, senza lottare, questa volta.
"Io non ti farei mai soffrire", pensò, nella sua lingua natia.
Godfried aprì la porta d'ingresso ed entrò, certo che fosse l'ultima volta che metteva piede in quell'appartamento. Walter era sparito per ore, poi l'aveva lasciato andare senza replicare, come se non vedesse l'ora di levarselo dai piedi.
«Aspettami qui, se vuoi guarda la tv. Questa cosa devo farla da solo.»
Lasciò Rudolf sul divano a giocare col telecomando e cominciò a guardarsi intorno, per fare mente locale e decidere cosa portare con sé, restando lì meno tempo possibile, per paura di cambiare idea.
Dal ripostiglio tirò fuori una grande valigia verde acido con le rotelle. La trascinò nel soggiorno, in bagno, nello studio, senza metterci dentro niente. Non sapeva da dove iniziare.
«Dopo tanti anni esiste ancora un tuo e un mio? Non ha senso comprare due dentifrici.»
Lui e Walter scambiavano persino pantofole e calzettoni, e usavano la stessa schiuma da barba.
Poggiò la valigia a terra e l'aprì. Agguantò controvoglia due giubbotti dall'armadio a muro del corridoio, il computer, alcuni libri, riluttante a metterli via: gli sembrava di chiudere in una scatola di policarbonato una parte della sua vita, la più consistente. Ma era ora di prendere atto che lui e Walter non stavano più in piedi. Pencolavano, incerti. Era necessario cadere, per rialzarsi su gambe più forti, per poi riavvicinare pian piano i passi, o allontanarsi per sempre. Continuando così non potevano che finire per farsi del male seriamente.
Strinse i denti e affrontò la camera matrimoniale.
Accese la luce, ma non entrò: il letto era disfatto, al centro v'era un affossamento. Fece un passo in avanti e inciampò in un mocassino fuori posto.
"Disordine": un campanello d'allarme.
"Walter non esce di casa senza aver rifatto il letto, con le lenzuola belle tirate e la coperta rimboccata, a meno che non ci sia io ancora dentro."
Non aveva neanche alzato la serranda. Dall'odore poteva affermare con certezza che le finestre quella mattina non erano state aperte. Il cuscino di Walter, riconoscibile perché il più basso, stava di traverso. Sotto di esso sbucava il tablet che gli aveva regalato per il compleanno, desolato, svilito, prova aggiuntiva di quanto poco Walter tenesse a lui.
Splash
Splash
Splash
Splash
Godfried si precipitò a spegnerlo.
Lo prese tra le mani e attese qualche secondo di troppo.
Era leggero; nascondeva contenuti pesanti.
Splash
Splash
Non l'aveva mai fatto: non aveva mai spiato tra le chat di Walter. Come lui, non usava password. Non avevano segreti. Si fidavano.
Splash
Il tablet divenne una calamita, per le sue dita, per i suoi occhi.
Quarantatre messaggi non letti. Da Mattia, Linda, Myriam, Deborah, Maria Dolores, Luigi, altri amici e parenti, colleghi, conoscenti.
L'ultimo scambio con William era delle 05:57.
«Che diamine avranno da dirsi alle sei di mattina?»
Con un moto di stizza aprì la chat.
"La stanno portando in sala parto."
«Lucy! Che idiota! Perché non ci ho pensato?»
Lesse qualche sintagma qua e là.
"Complicazioni".
«Lucy? Il bambino?»
"Urgenza".
«Oddio.»
"Lesione".
"Midollo".
«Cooosa?»
"Emorragia".
"Cervello".
«No.»
"Operando".
Andò a ritroso. Rilesse le frasi per intero, per convincersi d'aver letto male. Fino al messaggio che avvisava del ricovero di Lucilla, e a quello successivo, in cui William scriveva:"Chiamami appena puoi".
«Cosa vuol dire? No. Non ci credo. Non ci posso credere.»
La vista si sfocava, piccole gocce di consapevolezza gli rigarono le guance.
«Mirko. Jacopo.»
Si diede una manata sulla fronte.
«Mirko! Jacopo! Jacopo, Jacopo, Jacopo! Cazzo!»
Gridò fino a ferirsi le corde vocali. La camera gli vorticò attorno. Stramazzò sul letto.
«Mirko. Jacopo. Uuuugh!»
Rudolf gli balenò accanto. Nell'affastellamento di dialetti con cui Godfried gli si rivolgeva, trovò la chiave per la cintura di castità auto-inflitta. Accartocciò il canovaccio d'una im-possibile fiaba che li vedesse protagonisti insieme. Il doppio nodo cordoncino che lo legava al suo più caro amico si sciolse senza alcuna fatica. Il suo cuore era vuoto, ma anche più leggero.
L'abbracciò. Gli chiese scusa, per non aver guardato Walter dalla sua prospettiva e per accecato anche lui, soffiandogli Fumo di Oppio negli occhi. Si offrì di portarlo dove voleva, lì dove era il suo posto: dai ragazzi, da suo marito.
Rudolf lasciò Godfried nell'atrio dell'ospedale.
«Non salgo, non mi sembra il caso.»
Godfried conosceva abbastanza Walter per sapere che anche lui avrebbe fatto meglio a stargli alla larga.
Ma quella era anche la sua famiglia. Glielo dissi io, la prima volta che l'invitai al nostro Pranzo di famiglia.
«Non sono cattolico», rispose.
Quanti rami può avere un albero? Li avete mai contati?
"C'è un ramo anche per te. Aggiungi una nota allo spartito. Un accordo. Suona, canta, danza con noi. C'è posto per tutti, nel nostro grande albero."
Questo avrei voluto dirgli, ma temevo mi prendesse per un'invasata.
«Non m'importa quale sia la tua religione, se ne hai una o se non ne hai», gli dissi, invece. Quando arrivò, gli indicai una sedia accanto a me: «Questo è il tuo posto».
La sala d'aspetto era bianca: bianchi i muri, bianche le sedie di plastica, bianche le piastrelle del pavimento. Bianchi i visi di chi si trovò di fronte. Nicolas e William, per primi.
«Nico. Ho saputo solo ora, come stanno?»
«Mirko benino, ha preso solo una brutta botta.»
«Jajo?»
«È ancora sotto i ferri e i medici non ci dicono niente.»
«C'è anche una bella notizia», s'intromise William, «Lucy ha avuto il bambino, un bel maschietto di quattro chili!»
Godfried salutò Mattia, Deborah, Myriam e non ricorda più chi altro. Walter non c'era. Nessuno lo nominò.
Di Nicolas e William, Walter non era mai stato geloso. Di Lucilla sì. Lei era una femmina: le tre donne di suo padre avrebbero fatto a gara nel regalarle vestitini fiorati con nastrini colorati, e a farle le treccine; i maschi di casa l'avrebbero adorata. Quella guastafeste, arrivata tra capo e collo, li avrebbe tiranneggiati tutti.
Le erano toccati i vestitini di Thomas.
Deborah le teneva i capelli corti, «Così sono sempre ordinati e m'accorgo se si prende i pidocchi».
Li aveva tiranneggiati, sì! E l'adoravano tutti, anche lui.
Lucilla, che nulla sapeva di Mirko e Jacopo, lo vide sporgersi da dietro la porta. S'era svegliata da poco ed era ancora intontita. Gli fece "Ciao" con la mano libera dalla flebo. Lui si avvicinò e le accarezzò una guancia.
«Ho visto il tuo capolavoro.»
«Un toro, con tutte le corna. Lo odio già.»
Il suo sorriso s'irradiava per tutta la stanza.
*Facciamo due chiacchiere?!*
In questo capitolo Rudolf ha gettato la maschera... Forse ora deciderà di essere, davvero, un vero amico, che ne dite?
Godfried ha capito di aver preso un abbaglio. Come reagirà Walter alla sua comparsa in ospedale?
Ah, dimenticavo: Mirko e Jacopo, è chiaro, ora chi siano, vero?! Qualcuno di voi aveva già indovinato, altri no... Vi chiedo un piccolo suggerimento: dovrei tenere più nascosta la loro presenza nella storia, o va bene così?
I vostri suggerimenti, ormai lo sapete, sono molto preziosi e le vostre letture e i commenti sono il motore che porta avanti questa storia. Grazie per essere presenti!
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