3. Telefonate


Il primo a ricevere la telefonata fu il padre, al cordless. Non lo usavano quasi mai; rispose solo perché stava passando di lì per andare in bagno.

"Sarà qualcuno che ha sbagliato numero."

Non era così. Avrebbe tanto voluto che lo fosse, mentre il chiamante si presentava, chiedeva le generalità, non consentiva domande, non forniva risposte e l'invitava a recarsi al più presto dove gli si chiedeva di recarsi.

Lasciò il telefono come se scottasse. Con un gran baccano nella testa, andò in bagno. Le mani erano impacciate, mentre slacciavano i pantaloni e compivano gesti di ruotine.

«Sì sono sbagliati.»

Sua moglie era uscita a fare la spesa.

"Ora, a lei, come lo dico? Non glielo dico. Se non glielo dico, non è vero. Si sono sbagliati. Devo andare a vedere. Devo trovare una scusa per uscire e andare a vedere. Si sono sbagliati. Si sono sbagliati."

La moglie tornò e lo trovò poggiato allo stipite della porta della cameretta, bianco come Kimba, il leone di peluche, riverso sullo scendiletto rossonero.

"Devo essere forte anche per lei."

Drizzò le spalle. Senza neanche darle il tempo di chiudere la porta, glielo disse, che aveva prescia, di dire e di muoversi.

Le reazioni, in certi casi, possono essere le più imprevedibili. C'è chi urla e si getta a terra, chi nega, chi vuole vedere con i suoi occhi.

La spesa finì sul pavimento. Il tempo di prendere le chiavi della macchina ed erano già fuori per andare dove ne avrebbero potuto sapere di più. Incuranti della pioggia.

Il secondo a ricevere la telefonata fu il fratello maggiore, al cellulare.

«Aspetta, metto in vivavoce, sto guidando.»

Era in auto con un amico, tornato a Milano per le feste e per organizzare l'imminente matrimonio.

«Accosta», ordinò il padre.

Cercò un posto in cui imbucarsi, lo trovò, riprese la conversazione. Essa fu breve. Non si trovano mai molte parole, per comunicare certe cose, e forse neanche servono.

Il fratello maggiore fissò il cellulare muto. Attese di sentirlo ridere di lui, confessargli ch'era una burla. Poi tornò in sé, si rivolse all'amico e gli chiese di prendere la guida della sua utilitaria, «Che a me tremano mani e piedi,» e «Corri, corri, corri più che puoi!», nonostante la pioggia, il traffico, i limiti di velocità. Perché voleva arrivare in tempo.

«Voglio essere lì se... Non voglio neanche pensarci! Devo essere lì se succede, e se succede... Quando lo diranno a mia madre.»

L'amico cercò una scorciatoia; il traffico sembrava essere ovunque, anche in strade solitamente poco frequentate. Un'ultima curva e videro l'ospedale. La tensione nell'abitacolo si allentò.

L'utilitaria e l'auto del padre giunsero nello stesso momento nel medesimo parcheggio. Con la portiera ancora aperta, il fratello maggiore corse ad abbracciare la madre.

«Andrà tutto bene», disse, dandole un bacio sulla fronte. Poi guardò il padre; non disse nulla, non ce n'era bisogno. L'amico, che s'era attardato a chiudere l'auto e prendere i giubbotti, si avvicinò per baciarli entrambi. Tutti e quattro si avviarono verso la verità. A ognuno il cuore batteva talmente forte che il torace sembrava per esplodere.

Quel giorno, e in quelli che seguirono, esplosero certezze.

Stava per esplodere una bomba a casa di Walter.

Un fulmine a ciel sereno avrebbe fatto terra bruciata tra Alex e Thomas.

Il nostro grande albero fu scosso tanto violentemente che uno dei rami ancora verdi di lì a poco sarebbe stato sul punto di cadere.



Esplose la pancia di Lucilla. Ben oltre la data calcolata, ben oltre le rosee previsioni di Deborah, Linda e Myriam, accorse attorno a lei perché non si sentisse sola e non avesse paura. Forse ad avere paura erano loro.

Ecco dove s'era fiondata Deborah dopo avermi salutata! Era lei che avrebbe voluto chiamare Mattia mentre eravamo in auto, anche lui in agitazione: «Non sono pronto per fare il nonno!»

Lucilla, la piccolina di casa, messa alla prova da quella che ho sempre reputato la prova fisicamente più dura ed emotivamente più intensa che una donna possa provare!

Erano lì per rassicurarla che sarebbe andato tutto bene (per assicurarsi che tutto andasse bene), per sostenerla (per sostenersi), per calmare la sua ansia (per sedare le proprie ansie, e condividerle, e sentirle più normali). Deborah desiderava che sua figlia vivesse il parto in maniera positiva, e per supportarla aveva bisogno di supporto: lei i suoi parti li aveva vissuti come traumi.

Il parto! Quale evento straordinario e unico! Irripetibile, perché ognuno è differente da un altro. Si possono avere mille idee e aspettative a riguardo; si possono avere mille fantasie sul momento in cui si metterà al mondo il proprio figlio, su come sarà, cosa accadrà, quale sensazione si proverà nel saperlo fuori dal proprio corpo, nel guardarlo in faccia. Quasi mai la realtà sarà come s'era costruita nella mente.

Mantenere il controllo, gestire il dolore, inoltre, non è cosa facile; si può arrivare a credere di non essere brave, e buttarsi giù.

E il premio di 'sto ambaradan?

Un esserino bruttino e sporco, col faccino rugoso, a cui ci si dovrà abituare: alle sue fattezze, ai pianti, ai vomitini, alla puzza, per conoscerlo e sincronizzarsi con esso.

Ciò mi è stato detto, ho letto in qualche inserto o, più probabilmente, mi sono raccontata per tanti anni.

In prima persona... Non lo so.

Mattia non l'ho partorito io.

Non è frutto del mio grembo, né del mio cuore.

Non l'ho pensato, cercato, voluto, desiderato.

Mattia aveva un altro posto nella mia vita.

Fino a che il suo posto a tavola non è cambiato.

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